Partire da un “non so” senziente affacciato sul mondo

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Come introdotto nella seconda puntata, vi è in noi uno sguardo originario; sarebbe più proprio dire che ci apriamo sul mondo come sguardo originario.

La topografia tantrica riconosce questo luogo, lo localizza ed insegna a ritornarvi per sondarne il significato. È cosa seria ed impegnativa in quanto in grado di scardinare un paradigma fondativo della visione usuale: che “l’uomo sta nel mondo come l’acqua sta in un bicchiere”.
Questa convinzione permea la nostra visione del mondo: noi ci vediamo ‘là’, nell’ambiente mondano.
L’esperienza che propongo ribalta la struttura: il mondo è sì ‘là’, ma mostrantesi al qui dove sta lo spettatore affacciato alla finestra del Mahabindu che mai potrà essere , come cosa tra le cose.
Non è visione facile da far propria, o anche semplicemente da intendere. Siamo cresciuti con la convinzione dell’opposto.

Cercherò di essere più chiaro.

La visione ‘in, ordinaria e condivisa da tutti, intende che io, ogni io, sia un organismo in un ambiente come un pesce in un acquario.
Nato da una madre, cresciuto, morirò, e ciò che di me resterà verrà sepolto o cremato nel mondo. Se ho fede, immagino che un principio spirituale sopravviverà in altro ambiente.

La visione ‘da comporta che il più profondo me stesso sia sempre affacciato sulla scena di un mondo, interiore o esterno, materiale o spirituale. La localizzazione dello spettatore dello sguardo originario è possibile, ma non mai esso è afferrabile in termini transitivi, così come si afferra un oggetto con le mani, si contempla un’immagine mentale o si fa proprio un concetto. Tutto ciò resterebbe sempre e inaggirabilmente nella scena per lo spettatore affacciato che resta a priori.

Il compianto Prof. Piero Bertolini, pedagogista di Bologna di scuola fenomenologica, esprimeva magistralmente tale visione: “Nel contesto del sensibile si affaccia un a priori”.

Ora, se è abbastanza semplice ammettere l’ipotesi fenomenologica in sede teoretica, diventa tutto molto più arduo allorché vi ci si cimenti nella pratica, poiché allora davvero avvertiamo il mistero dell’affacciarsi sul mondo. Chi si affaccia? La natura del soggetto, allorché vi ritorniamo con metodo e continuità, allorché ne facciamo tema di indagine sistematica attraverso la meditazione, offre momenti piuttosto… intensi!

Da un lato vi è un “io” che cerca di tornare autoreferenzialmente alla propria fonte, dall’altro la fonte resta come soglia dell’oltresoggettivo e oltreindividuale che attrae e al contempo sconcerta poiché tutto ciò che si pretendeva di sapere di sé vacilla e una realtà originale comincia a rilasciare nuovi significati.

Insegno la meditazione da oltre trent’anni e ho visto vari generi di personalità approcciare l’esperienza della visione originaria; ho visto persone di straordinaria intelligenza e sensibilità che hanno immediatamente afferrato e il fatto e le sue implicazioni, e altre che paiono del tutto impermeabili alla questione.
Vi è chi ha paura e chi non teme nulla, però comprende altrettanto nulla; vi sono persone sensibilissime ma senza capacità di articolare un ragionamento e viceversa. Infine, vi sono i detentori dello scettro dell’oggettivismo. Parlar loro (mostrando!) della realtà di uno sguardo originario e irriducibile crea imbarazzo se non addirittura scandalo. Sono, in genere, i guardiani della scienza, veri gran sacerdoti del paradigma vigente, foggiatori del mondo contemporaneo. Essi portano con sé le convinzioni oggettiviste perfino quando si concedono all’esperienza, allo stesso modo come un religioso sul letto di morte recita le preghiere aggrappandosi alla fede per non soccombere all’angoscia di una insospettata e temuta verità ‘altra’.

Capisco le difficoltà, è un vero e proprio capovolgimento di prospettiva: ciò che sembrava valere universalmente, d’un tratto si rivela solo una conoscenza regionale, applicabile ad un contesto di fenomeni per sola finalità funzionale.
Le questioni dell’identità esistenziale, del valore, del significato e del senso dell’esistenza semplicemente esulano dalla sfera di pertinenza delle scienze.
Dunque il punto cruciale consiste nel provare a recuperare lo sguardo originario (vedi puntata II).
Potreste comprendere tutto molto meglio dopo anche solo cinque prove di assorbimento nello sguardo. Non limitatevi a capire, provate!

Non confondere il solo capire col realizzare, non confondere il realizzare con l’essere liberati.

Proverbio di saggezza tibetano

Organizzerò, in futuro, incontri in cui personalmente darò istruzioni a coloro che avranno sentito nascere interesse verso la pratica attraverso queste pagine.
È davvero essenziale prendere relazione col proprio affacciamento sul mondo perché il resto del percorso trovi significato.

Ora dobbiamo affrontare un altro fondamentale polo di pratica che, vedremo nelle puntate successive, integra quello dello sguardo originario. Tale polo è anche tesi “rivoluzionaria” per una visione scientista, è che il nostro sentire abbia, nel suo nucleo originario, un significato anch’esso irriducibile.
Con ‘irriducibile’ si intende che non deriva, fisiologicamente o epistemiologicamente, da altri fattori, ma che è una datità, un modo d’essere in sé compiuto e di significato primevo.
Quando viviamo un’emozione, o anche la noia stessa, questo si avverte alla luce di un significato originario ed esistenziale. Tesi già sostenuta da Heidegger con ciò che lui chiama le “tonalità affettive”. La Angst – termine heideggeriano tradotto con ‘angoscia’ e, purtroppo, impropriamente inteso con senso psicologico anche in contesto filosofico nonostante Heidegger stesso, in Che cos’è metafisica? abbia dato indicazioni a riguardo per evitare il fraintendimento di contesto e significato tra Angst e Angstlichkeit, ansietà – nel suo “dormire” latente ma costante, si accende nelle varie tonalità ‘affettive’: stupore, stranimento, noia…. Il solo rivolgersi a se stessi, ora, produce un piccolo tuffo al cuore. È il sentirsi esistere.

Il nostro nucleo più profondo ha due facce, discernibili ma non separabili, una esprimibile come un ‘so’ e l’altra come un ‘sento’; siamo un ‘so-sento’, significato riecheggiante il kokoro, o shin, giapponese, mente-cuore. Se il solo sapere intellettivo non porta certo al risveglio, dall’altra parte il solo sentire può sì eventuarsi in un’esplosione “metafisica”, ma se non si riversa nella consapevolezza e nei significati culturali, resterà solo come episodio, pregno ma cieco.

I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche. Perciò è altrettanto necessario dare un significato sensibile ai propri concetti (cioè unire loro l’oggetto dato nell’intuizione), quanto rendere a sé intelligibili le proprie intuizioni (cioè, sottoporle a concetti). Entrambe le facoltà o capacità non possono poi scambiare le loro funzioni. L’intelletto non può intuire nulla, e i sensi non possono pensare nulla. Soltanto dal fatto che essi si uniscono può scaturire conoscenza. Perciò non si può neppure fondere la loro partecipazione, anzi vi è fondata ragione di separare accuratamente l’una cosa dall’altra. Perciò distinguiamo nettamente la scienza delle regole della sensibilità in generale, cioè l’Estetica, dalla scienza delle regole dell’intelletto in generale, cioè la Logica.

Così Kant nella Critica della ragion pura, e concordo appieno col Maestro di Königsberg, solo che intensificherei con un altro brano della stessa opera:

“La necessità incondizionata, di cui abbiamo bisogno in maniera così indispensabile come dell’ultimo sostegno di tutte le cose, è il vero abisso della  ragione umana. L’eternità stessa, con tutta la sublimità terribile con cui possa pure essere dipinta da uno Haller (poeta svizzero), è lungi dal produrre sull’animo quest’impressione vertiginosa; infatti si limita a misurare la durata delle cose, ma non le sostiene. Non si può evitare il pensiero, ma neanche sostenerlo; che un ente che ci rappresentiamo come il sommo di tutti i possibili dica in certo qual modo a se stesso: Io sono dall’eternità per l’eternità; fuori di me non è nulla se non ciò che è qualcosa meramente per mia volontà; ma donde sono io allora? Qui tutto sprofonda sotto di noi, e la massima perfezione con la minima meramente fluttuano senza sostegno davanti alla ragione speculativa, a cui nulla costa fare svanire l’una come l’altra senza il benché minimo ostacolo”.

Kant scrive: Non si può evitare il pensiero, ma neanche sostenerlo

Questa è una meravigliosa e terrificante testimonianza di ciò che nello zen si chiamerebbe kensho, intuizione dell’essere.
Kant non riprenderà mai più la questione dell’infondatezza – la massima perfezione con la minima meramente fluttuano senza sostegno…
Si spaventò perché la nostra tradizione, sia essa filosofica sia religiosa, non sa affrontare tale visione: resta impietrita.

Il Buddhismo, al contrario, ne fa il tema centrale ben reso nei seguenti versi di Hakuin, eccelso maestro zen (1686-1769) in Veleno per il cuore: 

Un fuoco nero che brucia con l’oscurabrillantezza di una gemma
prosciuga il vasto cielo e la terra di tutto il
loro naturale colore.
Nello specchio della mente non si vedono
né montagne né fiumi;
Cento milioni di mondi agonizzanti, tutto per niente.

Non vi sono dèi nel Buddhismo. Umanità adulta è guardare il proprio abissale mistero.

Naturalmente questo va affrontato ed approfondito occhi negli occhi, cuore con cuore, Ishin denshin. Il risveglio all’esistenza va contagiato e poi amorevolmente curato.

Franco Bertossa
presidente di ASIA

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