"L'uomo moderno [...] non ha con la morte nessun rapporto costruttivo, la trascura, ne ha soggezione; sa solo subirla e preferisce, quando viene il momento, lasciarla in mano ai professionisti. [...] Ma si muore male, e spesso [...] due volte: la prima volta quando si varca la soglia di un ospedale o di qualunque ricovero, e una seconda volta quando si muore fisicamente. Quella che conta però è la prima; si toglie all'uomo ogni carattere di uomo, e poi si prende questa persona ridotta a carne e le si toglie il respiro. Chi entra in ospedale viene sottratto a se stesso [;] la morte lo coglie con tutte le cerimonie esterne ben predisposte, ma senza nessuna preparazione interiore...".
Parole, quelle che abbiamo scelto per introdurre questa recensione, di Dino Baldi, filologo alla sua prima prova narrativa con Morti favolose degli antichi, il secondo dei due libri che vi presentiamo: entrambi riguardano proprio la "preparazione interiore", in rapporto alla morte, cui fa riferimento Baldi, e sulla cui assenza nella nostra società abbiamo già avuto modo di riflettere sulle pagine della nostra rivista. Non è senza una ragione che esempi luminosi di accettazione della fine (come quello di James Hillman) e di forza d'animo (come quella di Steve Jobs) godono di una così ampia eco nell'Occidente odierno: innanzitutto perché sono rari, e poi perché dimostrano che è possibile, ma in questa parte di mondo dimenticata, l'opportunità di affrontare la morte senza conflittualità né, d'altro canto, rassegnazione. L'opportunità, cioè, di entrarvi, come avrebbe detto l'Adriano della Yourcenar, "con gli occhi aperti".
In Oriente tutto questo è ancora presente, malgrado gli attacchi di tecnica e relativismo occidentali: lo dimostra Volo nell'infinito. Come muoiono i grandi esseri (11,88 €, Il Punto d'Incontro, 1998), in cui Sushila Blackman descrive il trapasso di centootto maestri orientali, antichi e contemporanei, appartenenti a tradizioni diverse (tibetana, chen, zen, indù), conosciuti o sconosciuti ai più. Che si tratti dell'anonimo abate zen che, minacciato da un guerriero ("«Non sai che stai guardando uno che può ucciderti senza battere ciglio?»"), gli rispose impartendogli un ultimo insegnamento ("«E tu non sai che stai guardando uno che può essere ucciso senza battere ciglio?». L'ira del generale si trasformò in un sorriso. Si inchinò profondamente e lasciò il tempio"), che si tratti del Buddha in persona, il quale se ne andò consolando i propri monaci e ricordando loro l'importanza fondamentale della Via ("Tutti voi piangete, ma c'è forse qualche causa per l'angoscia? [...] Non importa che io sia qui o meno; la salvezza non dipende da me, ma dal praticare il Dharma. [...] Ogni cosa che esiste è destinata a perire. Siate perciò consapevoli della vostra salvezza"), ciò che accomuna tutti i trapassi narrati dalla Blackman è, in primo luogo, la vita che li ha preceduti: una vita trascorsa a dialogare con il Mistero, a scavare nell'esistenza fino a carpirne il significato più profondo; in secondo luogo, la forza interiore rilasciata da tale significato (faticosamente indagato, ma ormai chiaro), forza apparsa evidente proprio negli ultimi attimi vissuti da tutti questi maestri.
Sono morti, quelle narrate dalla Blackman, talvolta molto diverse fra loro: c'è chi, come Lin-Chi o Hofuku, è spirato testimoniando la forza del vero semplicemente tramite la propria postura ("Quindi il maestro, sebbene non ammalato, si aggiustò le vesti, sedette con la schiena dritta e morì"); c'è chi, come Sonam Namgyal, è letteralmente scomparso in uno strano spettacolo luminoso; c'è chi, ancora, come molti dei maestri zen, se n'è andato affidando alle parole folgoranti di una poesia la visione del vero che lo guidava nel trapasso, e l'equanimità che ne scaturiva (Tokken, ad esempio: "Settantasei anni, / non nato, immortale: / le nuvole si aprono, / la luna si mostra"). Per quanto alcune di queste testimonianze possano risultare lontane dal nostro comune modo di sentire e possano forse, ad una prima lettura, lasciare interdetti coloro che non abbiano dimestichezza con il mondo orientale, è tuttavia palpabile l'incredibile stabilità di tutte le anime che ci vengono presentate dall'autrice: al cospetto del momento supremo non c'è paura, non ci sono rimpianti - solo, la dignitosa accettazione dell'inevitabile, che sfuma nella contemplazione del mistero. Perché morte è, anzitutto, metafora dell'inconcepibile che i protagonisti di queste morti hanno avuto modo di sondare durante la vita.
La struttura di Volo nell'infinito, composta da brevissimi racconti numerati, ci permette di goderne anche se gli impegni quotidiani ci impediscono una concentrazione continuativa: la lettura di questi trapassi orientali, così lontani dall'immagine stereotipata a cui siamo abituati, può colpirci mentre aspettiamo l'autobus, o poco prima di dormire - è sufficiente aprire il libro e lasciarsi pungere da uno solo di questi 'passaggi', per poi meditarli o permettere loro di lavorare in profondità.
E in Occidente? C'è traccia, non fosse che nell'antichità, di un rapporto con la morte più consapevole di quello di cui, perlopiù, siamo capaci oggigiorno? Certamente sì: lo certifica Morti favolose degli antichi (16,00 €, Quodlibet, 2010), che racconta i decessi di poeti, pensatori, atleti, condottieri, eroi, sovrani, eserciti, intere popolazioni - celebri o meno, ma tutti vissuti nella Grecia e nella Roma antiche. La lettura di questo gradevolissimo libro (la cui scrittura ha uno stile scorrevole e un'ironia accattivante) potrebbe stimolare un valido confronto con gli ultimi momenti descritti in Volo nell'infinito... In realtà, non molte delle morti rievocate nel volume di Baldi fanno pensare a una fine vissuta alla luce di una consapevolezza profonda, e ancor meno numerose sono quelle di chi coltivò per tutta la vita una pratica che gli permettesse di mantenersi equanime nel momento estremo; il valore che gli antichi occidentali attribuivano alla morte, insomma, era diverso da quello riconosciutole da sempre in Oriente: Greci e Romani, spiega Baldi, concepivano la fine della vita come "ancora pienamente dentro la vita, [qualcosa che] ci rappresenta e ci rappresenterà per sempre". Per questo era importante soprattutto che rispecchiasse o addirittura simboleggiasse l'esistenza condotta fino a quell'attimo cruciale: che apparisse, in qualche modo, coerente, 'sensata' proprio alla luce del modus vivendi che l'aveva preceduta. E se al personaggio in questione non fosse capitata una simile morte? Beh, "per un greco, e poi per un romano, la realtà vera (vera per noi) non aveva particolari privilegi rispetto alla realtà inventata (inventata per noi), e il fatto che una cosa fosse accaduta non le dava alcun vantaggio rispetto a una cosa che non era accaduta, ma che sarebbe dovuta accadere secondo ogni logica di buon senso e di opportunità"; non era raro, quindi, che trapassi non proprio in linea con le vite che li avevano preparate venissero 'corretti' dai biografi (diventando, appunto, favolosi, cioè inventati).
Molte di quelle descritte in questo libro sono quindi "morti in codice", come le ha definite lo stesso autore in un'intervista rilasciata a Fahrenheit, su Radio3: esse vanno interpretate alla luce dell'esistenza che le precede, i cui particolari salienti sarebbero utili, secondo il pensiero degli antichi, ad una corretta comprensione del messaggio del fato... o, secondo la visione contemporanea, del biografo (la cui azione, dopotutto, a ben pensarci farebbe anch'essa parte del fato). Molto ci sarebbe da dire, se non sui celeberrimi esempi di Socrate o della vergine Lucrezia, o dei guerrieri spartani alle Termopili o di Archimede e Ipazia, su una delle versioni della morte di Diogene Cinico, o su quelle meno note di Anassarco di Abdera o di Subrio Flavo, o sulle ultime parole di Pericle o, ancora, sulle molte reincarnazioni di Pitagora; ma qui preferiamo concentrarci su uno solo dei tanti spunti di riflessione offerti da questo volume e dal suo confronto con quello della Blackman: la morte sembra essere stata fin dagli albori della nostra civiltà un evento più sociale che individuale, un accadimento che, in quanto "fatto fondante della vita", le resta strettamente legato, fino a doverne in qualche modo rendere conto agli occhi degli altri. O, almeno, con questo spirito ci è stata tramandata dalle fonti (che, da bravo filologo, Baldi enumera con precisione alla fine del libro). In Oriente, invece, è come la morte viene vissuta dal morituro, in prima persona, ad essere degno di nota; la questione qui è: il morente ha o non ha realizzato la verità ultima, che gli permette (fra l'altro) di morire 'in pace'? In entrambe le visioni c'è sì la consapevolezza che il modo in cui si muore può insegnare molto ai vivi, ma tale insegnamento sembra partire da presupposti totalmente diversi.
E' quindi sensato lasciarsi meravigliare da e meditare su questa differenza di fondo nel concepire la morte, che in Oriente pare resistere ancora oggi (ma per quanto ancora?) come occasione per mettere alla prova la propria profonda consapevolezza, mentre in Occidente si è ormai trasformata in "ossessione della vita, dannosa per la vita stessa" (sempre Baldi). Ma c'è uno dei racconti de Morti favolose degli antichi in cui Oriente e Occidente antico sembrano intrecciarsi, almeno idealmente - o geograficamente: non a caso il narratore è un guerriero della Panfilia, regione dell'Asia Minore che si affaccia su Cipro. Er, figlio di Armenio, muore sul campo di battaglia e visita l'Aldilà, ma poi gli viene imposto di tornare fra i vivi: la morte che descrive, una volta tornato in vita, è un processo lungo, che dura giorni, durante il quale l'anima s'imbatte in visioni più o meno piacevoli a seconda delle proprie qualità etiche; in seguito, secondo Ananke (cioè secondo Necessità), l'anima si trova a dover scegliere la prossima vita in cui si incarnerà. Il messaggero che accompagna le anime, a questo punto, spiega: "Non è il demone che sceglie voi, ma siete voi che scegliete il demone. [...] La virtù non ha padrone: ciascuno ne avrà di più o di meno secondo che la onori o la disprezzi. La responsabilità è di chi sceglie, non del dio". Se la concezione della morte in quanto lungo processo è molto diffusa in Oriente, così come il passaggio dell'anima attraverso allucinazioni derivanti dal suo stato etico e la responsabilità di lei sola nel proprio percorso di reincarnazione, pure tradizionalmente occidentale è l'insegnamento che traspare dall'ultima parte del racconto di Er: tra le varie vite (anche animali) tra cui l'anima è chiamata a scegliersi la prossima, solo l'uomo saggio sa distinguere con senno; anche l'anima virtuosa, ma che lo sia solo per abitudine, senza filosofia, malgrado la virtù che la abita sceglierà una vita da tiranno, senza considerare le conseguenze negative di una simile esistenza. Gli errori peggiori saranno commessi dalle anime inesperte del dolore, perché non lo riconosceranno sotto le lusinghe di una vita piena di lusso e gloria...
Le nostre radici di uomini e donne occidentali si sono nutrite per secoli nella consapevolezza che dall'esperienza del dolore può derivare una sapienza (sembra di sentir risuonare le parole della Medea di Seneca: "cresciuta è la mia natura / grazie alla sofferenza"), una sapienza che nel racconto di Er risulta decisiva durante processo della morte. E' ancora così per ciascuno di noi? A quale sapere ci affideremo chiudendo o sbarrando gli occhi?