Quella di un mondo oggettivo reale (fisico o cerebrale) dietro alla Matrice (sensibile o mentale) è l'ipotesi (a), di cui gli autori hanno descritto il crollo nella prima parte del saggio di Franco Bertossa, Roberto Ferrari (autori anche di Lo sguardo senza occhio) e Marco Besa.
Capitolo contenuto nel libro collettaneo "Dentro la matrice. Filosofia, scienza e spiritualità in Matrix", a cura di Cappuccio M., Ed. Alboversorio, Milano 2004, pp. 117-128
Quali sono le conseguenze di tale crollo? Ecco la seconda parte di Matrici senza uscita.
Buona lettura!
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Tutto è relativo?
Se cade l’assunto (a), che potremmo chiamare del “realismo ingenuo”, allora non vi è nulla di certo? Sembriamo condannati a interpretare interpretazioni, a un mondo di convenzioni linguistiche, o peggio di illusioni dotate di un potere di manipolazione così efficiente da farci dimenticare della loro stessa natura (almeno fino a quando a causa loro non cadiamo in amare sofferenze morali che risvegliano in noi perplessità e domande su tutto ciò in cui abbiamo creduto fino ad allora).
Possiamo sperare di trovare qualcosa di reale, indubitabile?
Restando nella ricerca di un mondo-mente reale “là fuori” la risposta è negativa: nessuna realtà dietro il mondo, scientifica o platonica che sia, ci potrà convincere definitivamente. Così come il cervello, anche ogni altro sistema di spiegazione filosofico o religioso che cerchi di giustificare il mondo da un altro livello, potrebbe sempre rivelarsi una simulazione collettiva o individuale, generata dai nostri assunti e dal nostro enorme bisogno di credere che ciò che percepiamo e capiamo sia reale.
Questo ci consegna a un relativismo assoluto, uno strano ossimoro secondo il quale nessuna conoscenza e valore sono più giustificati di altri; questa è in effetti una posizione molto diffusa[1] e diversi filosofi si sono impegnati nel confutarla; Thomas Nagel[2], contro il relativismo, afferma con forza che vi sono basi indubitabili e irriducibili di ragione e verità: sono l’insieme di pensieri fondamentali e regole logiche che non hanno alternative, da cui non si può prescindere neppure per negarle. In pratica, come già fece notare Wittgenstein: “Certe proposizioni sono esenti da dubbio, come se fossero i perni sui quali si muovono tutte le altre”[3].
Per Nagel si tratta di pensieri oggettivi, il cui contenuto sono elementi logici (significato, parola, esistenza, verità matematiche) che sono veri per evidenza, indipendenti dalla mente che li pensa e senza alcun contenuto riferibile alla prima persona, che sarebbe interpretabile e “soggettivo”.
La posizione che afferma “tutto è illusorio e relativo” (a scoperte scientifiche, alla psicologia, alla cultura, alla storia) è quindi contraddittoria per Nagel, in quanto il relativista scettico la sostiene come vera in base alla ragione, ovvero a pensieri non relativi bensì oggettivamente veri; egli inconsapevolmente assegna al proprio giudizio uno statuto ontologico-fondativo superiore a quello che egli vorrebbe assegnare al tutto, giudicato solo un gioco semantico e interpretativo. Per mantenere il valore del suo giudizio il relativista mostra – in una bizzarra contraddizione – il luogo non-relativo che egli stesso frequenta: è il luogo della sua posizione su tutto, quello della sua pretesa verità. Sebbene il relativista pretenda di negare questo luogo, la sua negazione in realtà evidenzia il meta-luogo in cui egli stesso si pone per giudicare: lo afferma negandolo.
Tuttavia l’attuale predominio culturale del relativismo ci fa pensare che forse non basta una cogente argomentazione filosofica per far accettare la sua inconsistenza. Quello che Nagel fa è giustificare in modo rigoroso l’originarietà e l’irriducibilità della ragione con un ragionamento, il quale si giustifica per evidenza logica e in tal modo esce dalla circolarità. Ma un relativista potrebbe sempre rispondergli che questo è un criterio che soddisfa solo lui; anche se si mostra al relativista che per ribattere e validare il suo argomento sta usando lo stesso criterio di ragione che nega, egli si sente tutto il diritto di non farsi toccare dall’obiezione, e questo non suscita alcuna indignazione nella koiné culturale. Le voci alla Nagel che denunciano quella che lui definisce “una straordinaria pigrizia intellettuale” sono piuttosto rare e isolate. Sembra che i pensieri razionali oggettivi di cui Nagel si fa forza e nei quali, come afferma egli stesso, “io non svolge nessun ruolo”, non abbiano il potere di coinvolgere il relativista: in ultimo è ragione contro ragione, come in The Matrix dove la tecnologia umana combatte la tecnologia artificiale.
La convinzione di chi scrive è che occorra tornare alla esperienza della circolarità senza uscita dalle Matrici, esperienza nella quale “io ho un ruolo” perché ne va di me direttamente e sono intrinsecamente costretto a considerare ciò che provo (in termini cognitivi, un quale).
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Dall’Oriente un accesso all’esperienza della mente
Oggi si tende ancora a considerare l’esperienza cosciente solo come un fatto privato, costituito unicamente di contenuti individuali che ciascuno vive in modo spontaneo e impressionistico. Il ritorno all’esperienza in prima persona e al valore cognitivo dei qualia (in questo caso, il sentire significativo) non deve comportare la rinuncia al metodo e agli argomenti; per questo va disciplinata ed esaminata sistematicamente, in modo che possa evidenziare elementi condivisibili e universali, anche se antecedenti il pensiero razionale. Il contatto dell’Occidente con i metodi di indagine dei “gimnosofisti” dell’Oriente è avvenuto di recente (quello con i testi da molto più tempo), e solo ora inizia l’opera di traduzione culturale necessaria a superare i luoghi comuni che vedono la meditazione come un momento di rilassamento e come un “trip interiore”. Le tradizioni meditative e le analisi degli eventi d’esperienza (Abhidharma) del Buddhismo hanno molto da offrire perché a differenza della fenomenologia occidentale, limitata al linguaggio e ai testi, hanno perfezionato anche metodi di trasmissione e di addestramento pratico. Esse costituiscono una nuova prospettiva per le scienze cognitive occidentali, introdotta da pochi anni grazie al lavoro di vari ricercatori[4]; iniziatore riconosciuto e straordinario divulgatore, prima della sua recente scomparsa nel 2001, ne è stato il neurofisiologo Francisco Varela con la sua proposta di Neurofenomenologia[5], che introduce una visione “stereoscopica” per includere sia dati neurali sia resoconti verbali dell’esperienza in prima persona, frutto appunto di metodi replicabili e affidabili.
Lo studioso di scienze cognitive può così fornirsi di un accesso all’esperienza della propria stessa mente cosciente, di metodi di auto-osservazione e indicazioni operative che possano conferire ai dati fenomenologici in prima persona il carattere di conoscenze confermabili da una comunità di ricercatori, e perciò affidabili. Si tratta di far cadere anche l’assunto (b) e di estendere il campo di raccolta dei dati da quelli empirici oggettivi alle esperienze soggettive esaminate. Al metodo e ai risultati di questa riduzione dell’esperienza cosciente– non ai suoi componenti nervosi, ma ai suoi atti più semplici vissuti in prima persona – saranno dedicati i prossimi quattro paragrafi.
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