Gli insormontabili QTC
Ricapitoliamo: non riuscendo a trovare nessuna uscita epistemologica dalle Matrici circolari, abbiamo tentato un’uscita fenomenologica: uscita che non va in un “fuori” (un “fuori” che non potrebbe che essere a sua volta un contenuto d’esperienza, relativo e dubitabile) ma è il risveglio alla nostra esperienza in atto.
Ma come sapere che non è un’altra illusione? In fondo, se cogliamo i QTC, essi sono dentro la Matrice e quindi potrebbero essere altre interpretazioni.
In realtà gli atti originari sono sia dentro alla Matrice (come il perdurante sapore dei singoli QTC) sia prima di essa; ma possiamo fare direttamente questa osservazione, provando a chiederci: “cos’è questa stessa domanda?”. Ladomanda che afferriamo è il ricordo della domanda appena avvenuta, è pensiero e linguaggio, ma nel contempo c’è anche domanda viva, uno star domandando che precede ogni pensiero e che possiamo definire un dato quasi-fenomenologico: in parte ci appare nella Matrice e in parte lo siamo. La parte che stiamo essendo la impattiamo come auto-evidenza, anche ora, e siamo quindi certi che non si tratta di un’altra simulazione, di un’altra Matrice. Passando al singolare: se continuo a dubitarne, ebbene sono indubitabilmente proprio questo stesso dubbio. È come col demone ingannatore di Cartesio: se dubito, sono certo d’essere dubbio. (O no?).
Se, paradossalmente, giungessimo alla conclusione che anche i QTC sono interpretazioni, ebbene avremmo dovuto prenderli in considerazione, cioè accorgercene, domandarci al riguardo e concludere. Anche l’interpretazione degli stessi QTC passa necessariamente per i QTC e per questo sono atti insormontabili. Per dubitarne, infatti, bisogna farlo attraverso di essi e perciò li si conferma: non ha quindi senso affermare che la coscienza è un fenomeno illusorio come fanno gli eliminativisti alla Daniel Dennett.
Diversamente dai principi dell’epistemologia o della fisica, che dobbiamo assumere o ricordare, i QTC non sono assunti perché li siamo e ad ogni dubbio si riaffermano come evidenza in atto.
L’esperienza dell’evidenza medesimale in quanto autoveritazione è d’importanza centrale poiché è l’uscita dalla dipendenza da ogni tipo di pensiero teoretico e da ogni dimostrazione, ovvero da ragionamenti che si applicano transitivamente su oggetti o procedimenti e che verificano la correttezza logica dei rapporti tra le parti.
D’accordo, – direbbe il relativista – sono dati che certamente esistono, ma come si può affermare che il loro significato sia proprio quello? Non potrebbe essere solo il prodotto di processi storico-culturali o psicologici?
Anche il significato degli atti primi dello star sapendo è indubitabile: sono inizi (sempre già iniziati) che non ricevono il loro significato da un altro sistema di conoscenza, da un’altra Matrice come nel caso della circolarità riduzionista. Il loro significato non è definito dall’esterno ma dall’interno. Per verificarlo è importante fare l’esperienza con i tempi fenomenologici ultra-rallentati della meditazione, in cui possiamo chiederci, per esempio: “Il significato di questo mio “star domandando” è dipendente dal particolare uso, contesto o processo?”. Immediatamente si evidenzia che lo stato vissuto nel domandare si autosignifica. Il contenuto della domanda può anche non essere chiaro, ma... a maggior ragione, ci troveremmo ancor più immedesimati in uno stato di domanda. Allo stesso modo capire ciò è proprio “capire”, nel momento stesso in cui si dà e si mostra.
Ancora il relativista potrebbe avanzare un dubbio: forse i QTC sono solo il prodotto deformato del particolare metodo di indagine qui adottato? Ma se così fosse, sarebbe comunque un prodotto deformato anche ogni dubbio in proposito; i QTC non sono il prodotto di un metodo, ma sono la pre-condizione esperienziale di ogni metodo, ivi inclusa ogni critica.
E se anche il dubbio fosse un prodotto evolutivo? Appunto.
(Non potresti infatti dar fiducia assoluta neppure a questo dubbio. Nessun dubbio e nessuna comprensione, come nessun metodo sarebbero fondativi, e neppure concludere questo).
I QTC sono auto-significati perché, senza richiedere definizioni (che sono solo segni che rimandano ad altri segni) e senza dare spazio a interpretazioni, si significano e si accreditano. I fatti naturali e il linguaggio pre-suppongono gli autosignificati per ricevere essi stessi un qualunque significato e credito.
Da qui, ossia dalla prospettiva di chi domanda, l’affermazione scettica che “tutto è illusorio e relativo” naufraga. Come afferma Nagel, innanzitutto non è relativo questo stesso giudizio razionale. Ma soprattutto non è relativo, a un livello più basilare e coinvolgente di quello del pensiero, l’auto-evidente sguardo nel suo accorgersi, domandare, capire.
Il vero risveglio dalla Matrice è dunque il risveglio allo sguardo su tutte le Matrici, la consapevolezza che si dà un atto iniziale, indubitabile e irriducibile.
È una via d’uscita da ogni rappresentazione oggettiva, ma non è l’uscita su un piano metafisico: non si sperimenta il divino, perché al limite, si potrebbe solo vivere un’esperienza della quale il misterioso interpretante si troverebbe a dire “questo è un piano spirituale”. O coglierebbe le pallottole sospese e le cascate di codici sulla Matrice, come nelle scene finali di The Matrix.
Lo sguardo differente
Nella prima parte abbiamo chiarito che non c’è una “cosa” – un mondo qualificato – fuori dalla Matrice di rappresentazioni che ci creiamo; ma – attenzione – non c’è neppure una “cosa” chiamata mente cosciente, o sguardo. Lo sguardo e la Matrice non possono tagliare i fili che li uniscono; come abbiamo detto, non si esce dall’apparire: questa consapevolezza ci mantiene fedeli all’esperienza di essere sempre sguardo su un mondo, e impedisce di isolare lo sguardo in una “sostanza pura soggettiva”, una res cogitans cartesiana: sarebbe un errore simile a quello che commettono le scienze assumendo una sostanza oggettiva del mondo.
Di fatto i metodi di indagine meditativa mostrano che lo sguardo non è identificabile con una rappresentazione, ma è differente. Ha infatti una struttura sorprendentemente simile a quella della differenza ontologica di Martin Heidegger[1], per cui l’essere è sempre differente da ogni essente specifico in quanto se l’essere fosse qual-cosa di specifico si darebbe il fatto d’essere di questa cosa. Allo stesso modo lo sguardo che sta esperendo ogni rappresentazione, qualità, sostanza, è sempre differente, poiché sempre si dà lo sguardo su tutto ciò; se lo sguardo fosse riducibile a un esperito, sull’esperienza dello sguardo esperito si affaccerebbe un novello sguardo esperente.
Lo sguardo è una non-cosa, un centro di transito degli atti primi del conoscere (e anche dire questo, transita nello sguardo); una finestra che non può rigirarsi per guardare se stessa, è un differente rispetto ad ogni ente qualitativo e sostanziato, ad ogni significato e interpretazione. Per questo non è l’uscita su un piano metafisico.
Sono però aspetti a cui si può appena accennare, in quanto è opportuno che siano oggetto di indagini in prima persona piuttosto e prima che di speculazioni e descrizioni puramente teoretiche.
Ciò che si può dire è che, anche se la natura ultima di questo sguardo è a monte di ogni definizione, ne possiamo realizzare lo sconosciuto accadere, il semplice fatto che lo sguardo stia innegabilmente sapendo; possiamo dubitare di tutto ciò che lo sguardo conosce, dei modi e delle interpretazioni che lo attraversano, ma non del fatto che, senza traduzioni e parole, stia conoscendo[2]. Uno strano e ininterpretabile fatto che, privo di una uscita su ulteriori Matrici, resta anche senza uscita da se stesso.
Per approfondire questo aspetto cruciale in modo più comprensibile e vissuto, esaminiamo una via alternativa all’analisi cognitivista buddhista: che non passa per i sottili qualia che si rivelano nell’ambiente riducente dell’indagine meditativa, ma per sensazioni molto più disponibili e comuni. In termini chimici lo possiamo definire un ambiente ossidante, a diretto contatto con la condizione di prigionieri della Matrice.