Conobbi Emanuele Severino nel 1996.
Gli telefonai per invitarlo a tenere un incontro presso la sede di ASIA, a Bologna.
Fu da subito molto cordiale, accettò, è così lo si andò a prendere a Brescia, in una comoda auto con alla guida l’amico editore Luca Sossella.
in seguito, con Severino nacque una buona amicizia, non solo filosofica, ma anche sul piano umano.
Negli anni seguenti organizzai tre intere settimane, lui docente, a distanza di qualche anno l’una dall’altra, sulle Dolomiti, nel quadro della nostra iniziativa che si tiene annualmente, Vacances de l’Esprit.
Due approfondite sessioni al giorno, con la preziosa opportunità, per i partecipanti, di porgli domande.
In quelle settimane, dove trascorrevo con lui anche le ore vuote da impegni, e poi in altri incontri privati, ho avuto modo di conoscere abbastanza bene sia il filosofo che l’uomo.
Lo intrigava il fatto che io mi interessassi di cultura orientale e di arti marziali.
Sua moglie, la simpaticissima signora Ester, aveva, peraltro, studiato un po’ di sanscrito all’università.
Ricordo come il professore si avvicinasse alle nostre classi di Ki, che io tenevo durante le settimane culturali, nei tempi vuoti tra le lezioni, e come restasse stupito dai test Ki di inamovibilità e insollevabilità che gli mostravo.
“Ma lei, dottor Bertossa, potrebbe atterrare anche un Tyson..?” chiedeva con gli occhi sbarrati.
No, rispondevo, Tyson mi appiccicherebbe al muro.. e ridevamo insieme.
Poi mi raccontava come suo padre, generale dell’esercito che aveva combattuto nella Grande Guerra, tirasse di scherma, e anche lui era un po’ capace e così provava a vedere se io potessi parare i suoi affondi.
Insomma, giocavamo divertendoci molto.
Io regalai un bokken, spada giapponese di legno, a suo nipote Andrea e il professore, ogni volta che ci si incontrava, ricordava che Andrea, allora ragazzino delle medie, ora fisico delle alte energie, se non erro, la conservava come bel ricordo.
Una volta, a casa sua, a Brescia, il professore mi fece impugnare la sciabola del padre, un’arma magnifica, bilanciatissima.
Un’altra situazione mi piace qui ricordare.
Alla fine di una settimana che aveva condotto per noi sulle Dolomiti, io e Rossella, una delle storiche e bravissime organizzatrici delle Vacances, riaccompagnammo il professore e la signora Ester a casa loro, a Brescia.
Furono molto ospitali e trascorremmo un qualche tempo a chiacchierare nel loro salotto, sotto una grande parete a libreria.
Poi mostrò a me e a Rossella la sala in tavernetta dove, disse, lui e sua moglie avevano redatto ai fini della pubblicazione, battendo a macchina, tutte le sue opere.
Io gli chiesi se potessi visitare il suo studiolo.
Certo, mi disse con un ampio sorriso e me ne indicò la porta.
Mi accostai e immediatamente avvertii una particolare densità, qualcosa che conosco bene, so riconoscere e che ho incontrato in luoghi dove avevano vissuto saggi, santi, artisti e filosofi (nello studio e nella baita di Heidegger, o nella casa che fu abitata da Husserl, a Friburgo, dove questi teneva i suoi esclusivi seminari con studenti ad ospiti anche giapponesi, ad esempio).
Chiamai Rossella senza preavvisarla di nulla, solo invitandola ad accostarsi come io avevo fatto.
Si avvicinò con la rispettosa attenzione dovuta a quel luogo e..
“Ma che cosa strana.. “, esclamò ancor prima di avere pienamente varcato la soglia.
E poi descrisse esattamente quel che anche io avevo sentito.
Il professore ci guardava meravigliato, incuriosito e anche, in un qualche candido modo, compiaciuto.
Io gli dissi quello che avevamo sentito, che sentivamo ancora, e lui mi rispose che, a suo parere, io ero un sensitivo.
Sorrisi.
Però quella atmosfera così particolare l’avevo avvertita nettamente ad esempio alla fine dei nostri seminari di ASIA di meditazione molto approfondita e prolungata.
Quando, prima di ripartire per Bologna, ritornavo, solo, per un ultimo saluto alla sala che ci aveva visti trascorrere due settimane intensissime, incentrate sempre e solo sul mistero dell’essere, coglievo quella densità silenziosa e vibrante.
Una densità sacra.
Lo stesso avvertimmo, sia io che Rossella, alle soglie di quello studiolo dove una grande mente aveva per decenni e decenni contemplato, visitato e rivisitato l’essere.
Avrei tante e tante storie da raccontare su di lui, con lui.
L’ho conosciuto abbastanza da vicino.
Mi diceva, nelle pause tra le lezioni “Dottore, andiamo a fare due passi noi due da soli, perché mi sento bene con lei”.
Ne ero oltremodo onorato e felice.
Forse si trovava bene con me perché ero rilassato con lui e lui poteva altrettanto rilassarsi con me.
Come due vecchi amici, seppur con tutta la distanza che, naturalmente, riconoscevo e rispettavo.
Mi aiutava l’esperienza derivante dall’aver funto da assistente a maestri giapponesi durante i numerosi seminari che ho organizzato da marzialista.
So quale sia il contegno da tenere dipendentemente dalle circostanze: da quelle formali a quelle conviviali.
So che occorre avere una perfetta sensibilità.
L’assistente di un grande Maestro giapponese non deve sbagliare nulla.
Deve avere tutto sott’occhio anche quando appare rilassato.
Così facevo con lui.
Inoltre, per grazia e fortuna, potevo sempre contare sulla magnifica squadra di ASIA, anime belle, elette.
Credo che il professore lo cogliesse e apprezzasse.
L’ho rivisto l’ultima volta al termine della sua conferenza al festival della filosofia di Modena, un paio di anni fa.
Il luogo era transennato e non sapevo come avvicinarmi per salutarlo.
Un amico bresciano, Gian Battista Francini, mi disse che dovevo semplicemente scostare le transenne e dirigermi verso Severino.
Lo feci.
Appena mi vide, allargò le braccia e ci abbracciammo.. sotto gli occhi disorientati delle autorità accademiche e civili che, invece, stavano, un po’ intimidite, a debita distanza da quel mostro sacro della cultura italiana.
Gli ho voluto davvero bene e sono convinto che anche lui me ne volesse.
Non condivido pienamente la sua visione degli eterni, ma l’ho studiata a fondo, sia sui testi che ascoltandolo con estrema attenzione durante le settimane.
Non era possibile non capirlo, tale era la limpidezza dell’eloquio, la sua serrata logica.
Presentando il corso, all’apertura di una delle nostre settimane, pensai di aiutare il pubblico riassumendo il punto principale della filosofia severiniana: l’apparire e il sottrarsi degli eterni.
Lo feci bene, pare, perché alla fine aggiunse con sorriso un po’ divertito, “dopo questa introduzione, posso anche tornare a casa”.
Mi sarebbe piaciuto proporgli un confronto con la filosofia di Nagarjuna, l’unica in grado di efficacemente contestare, su base filosofica, quella fondata sugli eterni.
Ne fui tentato, ma compresi che non era il caso.
Nell’ottica anche del mio credo, lo rincontrerò, anche se in altre spoglie, e, allora, sarà forse possibile fare un passo in più nel dialogo filosofico e sapienziale.
E più scrivo, più mi affiorano eventi, piccoli o rilevanti, da raccontare su di lui.
Ma basti questo.
Ne serbo un affascinato, affettuoso e prezioso ricordo, onorato che il destino mi abbia riservato il dono di poterlo conoscere così da vicino.
Arrivederci, caro Professore!
Arrivederci, non addio.
Franco Bertossa
Un grazie a coloro che hanno reso possibili questi eventi con generosa e competente attività, soprattutto di volontariato.
Gianluca Ulisse, Rossella Tommasi, Carla Corradini, Piergiorgio Cusinato, Beatrice Benfenati, Giorgio Santi, Simona Ambidue, Carla Luciani, Laura Stefenelli, Silvano Bertossa, Paolo Ferrante, Tiziano Parise.. il già menzionato Luca Sossella e, se ho dimenticato qualcuno, lo inserirò..
È stata una straordinaria epopea culturale.
In un quarto di secolo abbiamo invitato, seguito e conosciuto da vicino alcune delle più straordinarie menti dell’Occidente.
Fummo i primi ad avere questa idea; solo dopo seguirono, imitandola in varie versioni, i vari festival culturali.
Ora passo il testimone alle generazioni più giovani.
Gruppo ad Anterselva
Foto: Durante le lezioni, Severino voleva, me imbarazzatissimo, che gli stessi di fianco..