Risposta: L' intervista a Wisser è interessante non solo perché è una delle rare occasioni in cui Heidegger si è lasciato riprendere dalle telecamere, ma anche perché lì si vede come la questione dell’essere non sia affatto per lui un problema astratto, ma sia connessa con problemi fondamentali dell’uomo contemporaneo. Il quadro è profondamente mutato rispetto agli anni di Che cos'è metafisica?, e tuttavia il fatto che Heidegger si rifaccia alla conferenza del 1929 segnala che egli intende pensare in continuità con quel testo. È intervenuta la nuova attenzione per il fenomeno della tecnica moderna, che impone di modificare l'impianto trascendentale ancora troppo «soggettivistico» della prima filosofia heideggeriana. In fondo, sia in Essere e tempo sia in Che cos'è metafisica?, tutto ruota attorno all'esserci quale punto archimedeo da cui è generato e da cui dipende il senso delle cose. Già nella prolusione, il concetto di angoscia e l'esposizione dell’esserci al nulla mostrano come la generazione del senso da parte dell'esserci non stia del tutto a disposizione dell'esserci stesso, non provenga da un suo atto di consapevole e volontario conferimento, ma dipenda dalla situazione umorale in cui l’esserci si trova. Per pensare in modo radicale questa «gettatezza» dell’esserci, Heidegger è costretto ad abbandonare il primato quasi trascendentale dell’esserci e a compiere quel «salto» nell'essere e nella sua storia, che caratterizza la sua riflessione successiva. Da questa prospettiva, la tecnica, forma epocale del mondo moderno, gli appare come un destino assegnato all’uomo dall’essere. Rispetto a ciò l’uomo crede di essere un «soggetto sovrano», ma in realtà non lo è e non ha la possibilità di autosalvarsi. «Ormai soltanto un Dio ci può salvare», recita il titolo della celebre intervista concessa allo Spiegel e pubblicata alla sua morte. Chi oggi crede che l'uomo abbia nelle proprie mani la possibilità di salvarsi, non ha ancora capito la gravità della situazione. Pecca di «pelagianesimo», se così si può dire, ossia di quell’antica eresia che riteneva possibile salvarsi anche senza la grazia soprannaturale. In altri termini: non si rende conto che egli è già sempre calato in un mondo e in una storia di cui non dispone e a cui può solo cercare di adeguarsi. Questo orizzonte in cui noi stiamo, e che si sottrae alla nostra presa, Heidegger lo nomina con il termine più generale e indefinibile di tutti: l’«essere». Come comportarsi una volta riconosciutolo? C’è una virtù all’altezza delle sfide poste dalla tecnica e dal destino epocale in cui ci troviamo? Per Heidegger la virtù e la morale rimangono qualcosa di penultimo rispetto alle realtà ultime che la tecnica smuove. Non ha senso spostare questa o quella pedina sulla scacchiera, quando è l’intero tavolo da gioco che è stato ribaltato. Bisogna piuttosto fare un «passo indietro» e richiamare l'uomo ai limiti della sua finitudine: l’uomo è un problema senza soluzione umana.
Domanda: Ecco, questo fa tornare alla
mente la questione della libertà, che nell'esistenzialismo, sicuramente in
Sartre, è presente e fortemente avvertita. Sartre vede nella libertà un
carattere costitutivo dell'esistenza, mentre Heidegger sembra distaccarsi da
ciò. Afferma infatti che «lungi dall'essere l'uomo a disporre della libertà, è
la liberta a disporre dell'uomo».