La vita ha disposto che potessi comprendere i Tibetani in prima persona, in quanto esule.
La mia famiglia lasciò l’Istria a seguito delle vicende post belliche e ci ritrovammo coi soli panni addosso in un campo di raccolta profughi, dapprima alla Risiera di san Saba a Trieste, poi a Latina e Capua. Sappiamo anche cosa volle dire vedersi spopolare di istriani intere cittadine e arrivare in gran numero genti che parlavano le disparate lingue dell’entroterra balcanico jugoslavo.
Ho poi viaggiato molto e ho visitato i campi profughi di Palestinesi (a Damasco nel 1981) e di Tibetani (in India e Nepal nel 1980).
Ho ascoltato i loro raccapriccianti racconti e visto negli occhi dei Tibetani e dei Palestinesi i segni del dramma e, al contempo, di una straordinaria dignità che mi ha toccato nel profondo.
Conoscendone l’indole civilissima e compassionevole, se i Tibetani sono giunti alla sollevazione,
le ragioni sono, oltre ogni dubbio, serissime. C’è da chiedersi come abbiano potuto sopportare tanto. Certamente i problemi della Cina sono enormi, governare 1.300.000.000 di persone è compito proibitivo, ma non possiamo dirci d’accordo sui metodi centralizzati e totalitari adottati.
Il Tibet rappresenta una realtà storica ben identificata e autonoma rispetto al resto della Cina, ha diritto alla autodeterminazione e a veder preservati e protetti i caratteri essenziali della sua cultura, anche religiosa.
In quanto presidente di ASIA esprimo il mio totale sostegno alla causa tibetana.