Dopo alcuni messaggi la riunione sarebbe stata nella città della pioggia. La notte imponeva il suo furore. Il rum scorreva senza riserve mentre ci preparavamo all’arrivo del nuovo portatore di Heidegger nel mondo. In una ombrosa casa nella zona Chapinero di Bogotà un giovane scrittore cantava ciò che è stato denominato come “rock espressivo” e tratteggiavamo pennellate verbali al ritratto dell’insonne personaggio che stava per arrivare.
Essere e Tempo stava nel mezzo del tavolo, lo avevamo messo lì come talismano, data la laboriosa traduzione in italiano del libro capitale di Martin Heidegger condotta da Franco Volpi, il cui prestigio è stato riconosciuto senza riserve a tutte le latitudini. A volte leggevamo frammenti della incomparabile Visita a Godenholm di Jünger e brindavamo per la sua narrativa cromatica, data l’amicizia del nostro ospite col romanziere tedesco.
Sapevamo che il nichilismo, questo deposito del sacro, come pensava la filosofa spagnola Maria
Zambrano, sarebbe stato assediato durante la notte: Volpi era stato impegnato da un trattato sul tema negli ultimi due anni, mentre alternativamente dava lezioni di filosofia all'Università di Padova, famosa per aver avuto professori come Copernico e Galileo Galilei.
Volpi, conoscendo una dozzina di lingue, aveva appena terminato la grande Enciclopedia dei filosofi, pubblicata in inglese, italiano e spagnolo, e teneva conferenze in vari paesi latinoamericani.
Al suo arrivo, e prima del suo primo bicchiere, gli dissi che pensavamo di invitare uno studente di filosofia che desiderava conoscerlo. Entusiasta, mi disse di chiamarlo e mi strappò il telefono
per recitare (in tedesco) alla segreteria telefonica le prime due pagine di Umano, troppo umano, di Nietzsche, con stupore collettivo.
"Bisogna difendersi dalle macchine", disse infine. Inutile aggiungere che il messaggio non è stato ancora cancellato.
In Europa gli avevano detto spesso che la Colombia è pericolosa, ma aveva abbandonato tale visione: disse che era vittima della grande bellezza dei paesaggi e del fulgore femminile. La poesia, quella temeraria risposta alla domanda insistente della morte, tentò la nostra memoria.
Rimbaud e Celan illuminarono per istanti la nostra disperazione, ma reiteratamente tacemmo sotto la protezione dei presocratici. E quando Volpi recitò in greco alcuni pensieri della filosofia sul nascere, seppi che Epicuro di Samo ci avrebbe guidato, e che questa conversazione, che proseguì per altri incontri necessari e fortunati, sarebbe stata il modo per celebrare la domanda, l’indagine assassina che a partire da Talete pone l’essere umano nel suo limite.
Ciò che intraprendiamo qui è semplicemente un omaggio a tutte le domande, a quella formulazione omicida che ci cresce dentro, alla quale non possiamo corrispondere senza un colpo interiore, senza l’assassinio degli dei colti alla sprovvista.
Dal “conosci te stesso” scritto nel tempio di Apollo a Delfi, all'ironico “so solo di non sapere niente” di Socrate, passando attraverso la conoscenza rivelatrice del nulla, e per diversi bordi della nostra incompletezza, abbiamo indagato senza interruzioni - lo dico con perplessità -, affidandoci alle trappole del pensiero, senza timore dell’angoscia. E’ importante aggiungere che eravamo esposti, che siamo esseri travagliati, senza rifugio metafisico. Che per metterci in salvo ci resta solo la parola, la domanda indagatrice, la stessa che ora si osserva nel suo specchio di carta.
Ho rivisto Volpi in occasione dei suoi viaggi in Colombia in giornate trascorse nel delirio, e – devo confessarlo – sempre sorge, quando giungiamo alla soglia della disperazione, l’evocazione
del saggio Epicuro nella sua Lettera a Meneceo:
“Il più sconvolgente dei mali, la morte, non è nulla per noi perché quando noi ci siamo la morte non è presente e quando la morte è presente, noi non ci siamo”. Vera e necessaria trincea esistenziale. Ora evoco la sua voce che corre in diverse lingue sempre tinta di tenerezza.
GMC: le è stato assegnato il premio Nietzsche ed è stato recentemente scelto per celebrare al lago di Silvaplana - tanto caro al geniale filosofo tedesco - l'abbagliante evento della filosofia noto
come l'Eterno Ritorno dell’uguale.
FV: Nietzsche è uno scrittore e pensatore senza precedenti. Non solo per la qualità estetica e la profondità teorica della sua opera, ma perché ha registrato, come un sismografo sensibile, le convulsioni del nostro tempo. La crisi dei valori, l'esaurimento degli ideali della tradizione vetero-europea e la “morte di Dio”. La ricerca di nuovi mezzi simbolici e altri fenomeni culturali, trovano nei suoi scritti una prima analisi. È per questo che Nietzsche ha proiettato la sua
ombra sulla cultura contemporanea e non ha cessato di tormentare l'auto-comprensione del nostro tempo, suscitando entusiasmo e attirando anatemi, ispirando atteggiamenti, stili e mode culturali, ma al contempo provocando reazioni e rifiuti radicali. Nietzsche è uno di quei pochi pensatori di cui non possiamo dire che siano veri o falsi, ma che sono vivi o morti. “A volte guardo la mia mano”, scrive nel mezzo della sua esaltazione “e credo di avere in mano il destino del genere umano: lo divido invisibilmente in due parti, prima di me, dopo di me”. E’ stato un magnifico profeta, ed è ancora vivo oggi, più che mai.
GMC: Maria Zambrano ha affermato che una cultura dipende dalla qualità dei suoi dei. Se evochiamo il lamento di Heidegger “duemila anni senza un solo Dio”, è corretto affermare che questa desolazione non potrà mai recuperare il suo tempo luminoso?
FV: la peculiarità del pensiero di Nietzsche, corrosivo e dissolvente, è che non è stato una mera descrizione, ma ha contribuito ad accelerare lo stato di crisi che descriveva e, in quanto “maestro del sospetto”, ha reso difficile costruire nuove certezze dopo di lui. Il risultato è noto: è il “deserto che avanza”, la crescita dell’ombra che lui chiama “nichilismo”, l'era degli dei fuggiti e del nuovo dio che non si scorge all’orizzonte.
GMC: dal grido di Plutarco: “Il grande Pan è morto” fino a ciò che Leon Bloy definisce il “ritiro di Dio”, numerosi pensatori hanno descritto la perdita del divino. Quali momenti di quella immensa finitudine ritiene siano stati maggiormente determinanti?
FV: il momento che mi sembra determinante è il principio dell’era moderna quando con la nuova
cosmologia materialistica cambia la posizione dell’ uomo nell'universo. Una raggelante osservazione di Pascal misura questa profonda metamorfosi: “affondato nella infinita immensità degli spazi che ignoro e che mi ignorano”. Dice Pascal: “ho orrore”. Questo preoccupato lamento segnala lo sradicamento metafisico dell’uomo: nell’universo meramente fisico non può più abitare e sentirsi a casa come nel cosmo antico e medievale. L'universo è percepito ora come una stretta cella in cui l'anima si sente prigioniera, o anche come una infinità che la inquieta. Di fronte all’eterno silenzio delle stelle e agli spazi infiniti che gli restano indifferenti, l'uomo è solo con se stesso. Non ha patria. Certo, Pascal oppone resistenza a questa nuova condizione: dietro la naturale necessità crede ancora che ci sia un dio nascosto che la governa. L'uomo è, sì, un nulla schiacciato dalle forze cosmiche, ma può, in quanto pensa e crede, sottrarsi ai condizionamenti delle leggi della natura, proclamandosi cittadino di un altro mondo, quello dello spirito.
Presto anche Dio si eclisserà. E quando Dio si ritira, quando la trascendenza perde la sua forza
vincolante, l'uomo abbandonato a se stesso reclama la sua libertà. Il problema è che questa libertà è una libertà disperata e infonde più disperata angoscia che pienezza dell'essere. E l'uomo moderno deve conviverci.
GMC: Hegel, Nietzsche, Foucault e Derrida hanno presagito la fine dell'uomo come soggetto
filosofico. Dato che il superuomo non si intravede da nessuna parte, siamo forse destinati a un mondo di sub-uomini come pensava Camus?
FV: quando Dio muore, l'uomo si animalizza. Il problema appare nel Divino Marchese de Sade con tutta la sua crudezza. La sua dissoluta opera rappresenta la più coerente antropologia negativa, ossia il più drastico tentativo di immaginare un mondo completamente privo di Dio. Il mondo della estrema finitezza. Abbandoniamo le illusioni: l'uomo è un animale che a volte immagina di essere uomo.
GMC: lo sterminio del sacro ci lascerà più svuotati di ogni deicidio? Siamo in grado di resistere a questo deserto interiore?
FV: il problema è trovare nuove risorse simboliche condivise in grado di colmare il vuoto imperante. Per esempio: come si può oggi restituire significato della parola “Dio” o alla parola “sacro” senza compromettere la nostra reputazione filosofica?
E’ necessario sforzarsi per trovare una risposta soddisfacente, ma di fronte a questo problema siamo soli e abbandonati al nostro nudo destino. Come Ernst Jünger immagina in un appunto scritto nel corso della guerra, che è una immagine della vita: “Se chiudo gli occhi, scorgo a volte un tetro paesaggio, ai margini dell’infinito, con rocce, scogliere e montagne. Sulla riva di un mare nero, mi scorgo, una minuscola figura, quasi abbozzata nel gesso. Questo è il mio avanzare, prossimo al nulla: lì sotto, nell’abisso, da solo conduco il fragore della mia lotta”.
GMC: è riconosciuta la sua prossimità a quello straordinario, poetico e profondo scrittore tedesco…
FV: ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente. Nei suoi Diari lui stesso racconta come ci siamo incontrati. Traducendo il suo saggio Oltre la linea, avevo incontrato alcuni errori di stampa e gli scrissi affinché mi chiarisse il significato di alcune frasi problematiche. Mi invitò a Wilflingen, dove viveva in una pensione e parlammo di tutto. Anche di Schopenhauer. All’epoca avevo inventato un piccolo testo inedito del vecchio Schopenhauer, che, per scherzo, pubblicai come autentico con il titolo Il difficile momento di Schopenhauer, nel quale l'antico filosofo si pente del suo pessimismo metafisico e si converte all’ottimismo. Pensavo che i tedeschi avrebbero individuato lo scherzo, invece no, presero sul serio il mio testo e presto anche i giornali parlarono della eccezionale scoperta: un inedito che documenta la conversione di Schopenhauer. Anche Jünger ci aveva creduto fino a quando, nel corso della conversazione, gli rivelai che si trattava di uno scherzo e che l’autore del testo ero io. Da quel momento mi onorò della sua amicizia,
poi mi invitò all’Escorial quando – per i suoi cento anni -, l’Università Complutense di Madrid gli conferì la laurea honoris causa. Andai diverse volte a casa sua e mi concesse la sua ultima intervista (che ho pubblicato con Antonio Gnoli, il mio amico giornalista di La Repubblica, con il titolo: Los titanes venideros. Ideario ùltimo (Penìnsula, ora in edizione tascabile: Quinteto 2007).
GMC: lei ha conosciuto anche il lucido e istrionico Jacques Lacan? Ricorda qualche aneddoto che esemplifichi la sua straordinaria personalità?
FV: non sono stato onorato dal suo affetto, ma ho assistito a una sua conferenza: parlava ponendo molta enfasi sulle parole chiave, ripetendole più volte e insistendo reiteratamente sulla sua tesi. Un vero attore, e più: un istrione. Per esempio, ricordo che parlando della morte, ripeteva molte volte, con diverse tonalità, con voce bassa e alta, fino a quasi gridare, la stessa e ossessiva domanda: Qu'est-ce la mort? Qu'est-ce la mort?
GMC: e Michel Foucault, com’era quell’essere antidiluviano?
FV: la sua forza era costituita, piuttosto che dalla teatralità, dalla lucidità e chiarezza cartesiana con cui presentava i suoi argomenti. Anche se si scherniva quando lo chiamavano filosofo, è stato un vero maître-à-penser. Ascoltarlo era come assistere ad una festa del pensiero: acuto, preciso, implacabile.
GMC: ha conosciuto Derrida? Potrebbe farcene un breve ritratto…
FV: Derrida era un gran signore. Una figura nobile. Lo conobbi piuttosto bene durante la festa dei suoi sessanta anni nel castello di Cerisy-la-Salle. Mi aveva invitato per parlare delle traduzioni di
Heidegger. Iniziammo una lunga conversazione e mi resi conto di qualcosa che nei suoi scritti non si percepisce così chiaramente come nella conversazione, vale a dire che era un lettore molto acuto e preciso, attento a tutte le sfumature e le pieghe di un testo. Da allora leggo i suoi scritti in modo completamente diverso. Lo sentii parlare per l’ultima volta a Nizza, dove all’epoca insegnavo; ha tenuto una lezione magistrale su Husserl e le sue ben note conferenze di Vienna e Praga: La crisi della scienza europea. Con inimitabile sovranità mostrò che l’ “eroismo della ragione”, rivendicato da Husserl nel gran finale delle sue conferenze quale mezzo per salvare l'Europa dalla crisi, si basa su un irrazionale.
GMC: lei è uno dei più riconosciuti specialisti di Heidegger. Ha tradotto in italiano Essere e tempo, l'abbagliante Nietzsche e i difficili Contributi alla filosofia. Come può spiegare il coinvolgimento del più grande filosofo del ventesimo secolo con il nazionalsocialismo?
FV: Heidegger è stato il più grande pensatore tedesco contemporaneo, e il nazional-socialismo il
più tragico totalitarismo del XX secolo. Questo è il problema. Perché una intelligenza tanto acuta appoggiò una ideologia tanto barbara? La coincidenza manifesta un assurdo incomprensibile e l’ostinato silenzio del maestro teutonico dopo la guerra risulta ancora più problematico. Ancora: come ha potuto il nazional-socialismo attrarre nel suo vortice demoniaco una mente tanto sottile? E perché Heidegger ha dato spazio nei suoi discorsi a concetti come “popolo” e “razza”?
E’ che a volte i pensieri astratti dei filosofi vengono in contatto con temi pericolosi, e si poggiano dove non dovrebbero. Il caso di Heidegger è un esempio evidente di complicato incontro mistico fra filosofia e politica. Heidegger in quei turbolenti anni pensò di illuminare la Germania e coltivò l’illusione di portare la filosofia nel cuore stesso del potere, ma ottenne il contrario.
Tuttavia, come dice Leo Strauss, filosofo della politica, ebreo emigrato negli Stati Uniti: “Here is the great trouble: the only great thinker in our time is Heidegger”(il vero problema è che Heidegger è l'unico grande pensatore del nostro tempo). Vuol dire che la filosofia contemporanea è in una grande miseria politica. Ed è per questo che dobbiamo impostare la domanda: come è possibile oggi conciliare filosofia e politica dopo che “l'unico grande pensatore del nostro tempo” le ha dissociate tanto traumaticamente?
GMC: si potrebbe dire che Habermas, dopo aver abbandonato la sua origine intessuta di ribellione, è vicino ad un positivismo che mira a resuscitare gli idoli?
FV: confesso che preferisco il primo Habermas, quello critico e rabbioso degli anni settanta, a quello successivo, calmo e tranquillo come un borghese soddisfatto. Intendiamoci: è un pensatore di classe, un maestro, ma il primo Habermas ha una grande forza innovatrice, mentre successivamente il suo stile di pensiero e di scrittura diventa troppo prolisso, accademico e universitario. Penso che il suo miglior libro rimane Strukturwandel der Öffentlichkeit, che analizza l'esaurimento del ruolo critico della opinione pubblica e la sua trasformazione nella sede in cui il consenso viene manipolato.
GMC: ha vissuto in diverse città e ha viaggiato instancabilmente: Colonia, Lovaina, Parigi, Nizza,
Vienna, Varsavia, Praga… Ha mai provato a individuare le città che più ama?
FV: tra le grandi capitali quella che maggiormente amo è Parigi. Sono stato lì per la prima volta quando avevo tredici anni ed è stata un'esperienza che mi ha segnato. Sono tornato diverse volte, e ogni volta ho vissuto qualcosa di speciale. Dal primo grande amore fino alla prima conferenza internazionale importante. E’ stato alla Sorbona, presso il Centro Leon Robin, “l’arena dei leoni”, dove i filologi classici cercarono di squartarmi, ma credo di esserne uscito vittorioso. Mi piacciono anche le piccole città europee dove in ogni angolo si respira storia e si pensa a ciò che scrive Gomez Davila: "viaggiare per l’Europa è come visitare una casa affinché i domestici ci mostrino le stanze vuote dove ci sono state feste meravigliose”. Amo Leuven, ad esempio, una perla meravigliosa in Belgio, dove ho studiato per un anno. All’epoca ci fu un cambiamento linguistico inaspettato: si passò dal francese, fino ad allora lingua ufficiale, al fiammingo, e ho dovuto imparare questa lingua molto particolare. E’stato un entrare in un altro mondo e vivere il potere dell’immaginario di un'altra lingua.
GMC: recentemente è stato pubblicato in spagnolo L’arte di trattare le donne di Schopenhauer, antologia che lei ha realizzato a partire dall’opera del filosofo tedesco. Nel suo divertente prologo lei riferisce che quasi tutti i grandi filosofi hanno fallito nelle vicinanze del femminile, a partire dal burrascoso matrimonio di Socrate con Santippe…
FV: sembra quasi una legge naturale, una legge nella quale non vorrei ricadere, ma in Colombia… Quando uno parte per la Colombia sempre viene avvertito di tutti i rischi a cui va incontro, ma nessuno mette in guardia dal pericolo più insidioso: le donne colombiane. Così affascinanti e belle che gli europei inevitabilmente cadono nella trappola. Alcuni amici colombiani mi dicono che sembra che io non abbia letto il libretto di Schopenhauer sulle donne che ho compilato e introdotto…
GMC: dopo aver tradotto Gomez Davila e dopo vari viaggi in Colombia, che immagine ha di questo paese la cui bellezza fiorisce sempre ai piedi del precipizio?
FV: è un paese dove ci sono persone meravigliose, fantasia, umorismo, e una incredibile e inesauribile capacità di improvvisare e creare. Dove tutto accade e si vive in maniera intensa, estrema, sia nel bene che nel male. Un paese con potenzialità inutilizzate, ma anche con contraddizioni stridenti che chiedono una soluzione.
GMC: in un articolo intitolato “Pornosofía”, pubblicato in un'importante rivista italiana, si fa riferimento alla pedofilia divulgata nell’ultimo romanzo di Garcia Marquez “Memoria de mis putas tristes”. Perché è stato fatto silenzio a riguardo? Il bel romanzo di Kawabata, che lo ha preceduto (La casa delle belle dormienti), ha forse privato la critica della sua capacità di intervento sul piano dei valori?
FV: leggendo l’incipit del romanzo di Garcia Marquez appare chiaramente una contraddizione.
Nel giorno dei suoi novanta anni il protagonista vuole regalarsi una notte di amore folle con una
vergine adolescente, e grazie alla proprietaria di un bordello riesce a soddisfare il suo indecente desiderio. Pedofilia? Pornografia? Certamente no, se si tratta di un premio Nobel che scrive. Gabo inoltre aggiunge a un certo punto del romanzo un giudizio perentorio: “il sesso è la consolazione che resta quando siamo incapaci di amare”. Il sesso - potremmo aggiungere – non risolve neanche i problemi sessuali. Perché permettiamo al grande scrittore di immaginare che un vecchio compri una vergine bambina? E’ un caso che il suo romanzo divulghi una finzione pedofilo-pornografica che tristemente la vita ripetutamente si prende cura di tradurre in realtà? In quale schizofrenia vive una società che da un lato pretende che si chiudano pagine oscene nella rete, ma dall'altra parte accetta che un potente moltiplicatore culturale come il romanzo di un Premio Nobel divulghi lo stesso? Né prediche né moralismo, per favore, ma poniamo il problema, questo sì.
GMC: lei parla otto lingue, scrive correntemente in quattro di queste e legge in altre due. Steiner propone che la lingua madre è quella che usiamo quando la morte ci assale e lo esemplifica con un incidente, certo del fatto che l’esclamazione che si proferisce in un momento estremo rivela il linguaggio più profondo di un essere umano. Pensa che ci siano pensieri o sentimenti che potrebbe esprimere solo nella sua lingua madre?
FV: è strano, ma non è solo la lingua madre che occupa alcune esperienze con esclusività, bensì anche altre lingue in cui mi sono formato. Ci sono esperienze che potrei esprimere meglio in francese che in qualsiasi altra lingua, altre saprei dirle meglio in tedesco. Nei sogni è lo stesso: a volte sogno in una lingua, a volte in un’altra. Riguardo alla Signora Morte, posso dire che sconosco la sua lingua legittima, nonostante gli indizi che giungono dal poetico.
GMC: nel suo trattato sul nichilismo, di recente pubblicato in spagnolo da Siruela, segue le tracce
della sua concezione filosofica. “L'ospite inquietante” come lo chiamava Nietzsche, o “il solo
cammino che conduce l'uomo a stabilirsi nella chimera” come lo descriveva Jean Dubuffet, è stato fondamento filosofico indiscutibile. Dobbiamo esplorare le forze generatrici del nichilismo, certi del radioso cammino che seguirà questo tempo in cui i valori supremi sono scomparsi?
FV: oggi si parla spesso di “perdita del centro”, “devalorizzazione dei valori”, “crisi del senso”;
questa terminologia negativa che è fiorita con il nichilismo indica che non disponiamo più di un punto archimedeo – né la religione, né il mito, né l'arte, neanche la scienza - su cui fare leva per ridare nome al mondo, alla totalità di ciò che è. Il nichilismo del nostro tempo ha generato una crisi di auto-descrizione. Avverte che stiamo navigando alla cieca negli arcipelaghi della vita, il mondo e la storia. Nel disincanto non c’è più bussola né est, non ci sono più rotte né traiettorie, né preesistenti misure utilizzabili, e neanche mete prestabilite a cui poter giungere. Il nichilismo ha tarlato le verità e indebolito le religioni, ma ha anche dissolto i dogmatismi e le ideologie, insegnandoci a mantenere la ragionevole prudenza del pensiero, quella attitudine che ci rende capaci di navigare fra gli scogli del mare della precarietà, nelle traversie del divenire, nella transizione da una cultura all’altra, nei compromessi fra un gruppo di interessi e un altro. Dopo la caduta dell’assoluto e l’entrata della secolarizzazione nel mondo moderno, dopo la corrosione del regno della legittimità e la delegittimazione del territorio della convenzione, la mia filosofia è una filosofia di Penelope, che disfa incessantemente la sua tela, perché non sa se Ulisse ritornerà.
Per gentile concessione di Gonzalo Marquez Cristo, direttore della rivista colombiana Comun presencia
Traduzione a cura di Alessandra Vitale
Centro Studi ASIA