asia
30 Aprile 2009

La follia come mistero

a San Vincenzo con Vittorino Andreoli

Vittorino AndreoliAscoltare il professor Andreoli non significa fare turismo di massa nell’inconscio umano, come talvolta può capitare seguendo gli also sprach di qualche esperto del settore; non significa nemmeno ripercorrere le tappe che da Freud portano ai neuroni specchio come se si trattasse del fulgido cammino della scienza verso le risposte ai grandi interrogativi esistenziali. Tantomeno significa affrontare il tema del lutto come fosse un’anomalia della psiche da ‘risistemare’ perché ci consenta di tornare al più presto a una vita ‘normale’. Ascoltare (o leggere) Vittorino Andreoli è lasciare che il nostro modo di pensare, che di solito viaggia sui rassicuranti binari del pregiudizio, deragli verso i dubbi e le perplessità imposti dall’osservazione attenta e onesta di noi stessi.

Sei lezioni in quattro giorni: sei occasioni per guardarsi dentro e scoprirsi più fragili di quanto si credesse, ma anche più vicini al prossimo, più capaci di tendere la mano a realtà che pensavamo distanti, estranee… Come quella della follia: Andreoli, che è stato direttore dell’ospedale psichiatrico di Verona-Soave, racconta la propria esperienza con “i suoi matti”, e ci dimostra come il confine fra normalità e patologia psichica sia sottile e talvolta difficile da individuare. Non si tratta di un generico appello alla tolleranza, bensì del tentativo di interrogarsi sulla pertinenza o meno della parola ‘normalità’ riferita alla mente di ognuno di noi. Il professore ha illustrato con precisione le quattro modalità principali a cui, genericamente parlando, si potrebbero ridurre le migliaia di patologie mentali conosciute: cercando in noi stessi le tracce – pur minime – della scissione, della malinconia, della maniacalità e dell’ossessione possiamo quasi sicuramente trovarle, anche se, nel concreto, influenzano la nostra vita solo in misura minima. Il punto è prendere coscienza del fatto che in qualsiasi momento, per cause ancora perlopiù sconosciute, la mente di ciascuno di noi potrebbe precipitare dalla scissione alla schizofrenia, dalla malinconia alla depressione, e maniacalità e ossessione estendere il loro delirio fino a occupare ogni aspetto della nostra quotidianità. La follia, da ‘malattia’ che affligge una minoranza lontana e sconosciuta ai più, si trasforma così in una delle tante “maschere del dolore”, come le definisce Andreoli, che chiunque potrebbe ritrovarsi a portare.

“Non c’è bisogno di parlare da psichiatra del dolore, ma è necessario farlo da uomo”, afferma il professore. E il dolore che ci accomuna tutti, che ci rende davvero fratelli, è quello esistenziale, meravigliosamente colto e ritratto dalla grande arte (Andreoli fa cenno a Omero, ma anche a Ungaretti e Cardarelli, a Pirandello e Bertold Brecht, alla pittura sacra medievale e rinascimentale, a Elie Wiesel e Dostoevskij). “C’è un dolore evitabile, che nasce dall’odio, dall’invidia, dalla violenza dell’uomo sull’uomo, spesso legato alla famiglia e all’educazione. C’è poi un dolore inevitabile, che ha il proprio perno nella morte.”. La morte altrui in cui s’intravvede la propria, la morte come percezione del tempo che passa, la morte come fine, come termine: in ogni caso, la grande assente della società occidentale contemporanea. Assente perché troppo presente, perché disumanizzata: coperta di biacca alla televisione e al cinema, spettacolare, sempre lontanissima. Si muore in ospedale, lontani dai luoghi e spesso dalle persone che abbiamo amato; chi muore viene lasciato solo, non lo si accompagna più. In questo senso, afferma Andreoli, la morte è ormai un’occasione mancata, poiché “l’agonia è la più grande meditazione che si offre all’uomo: un attimo di agonia fa percepire l’eterno, perché – come il tempo del depresso – non passa mai. In quell’attimo si evidenzia il mistero dell’esserci, da differenza fra essere e nulla… ma ci pensate? Avremmo potuto non essere mai stati!”.

La morte è prima di tutto un mistero, e come tale andrebbe avvicinato ai giovani. In che modo? Sicuramente non come la morte televisiva che passa quatidianamente davanti ai loro occhi, che tocca solo agli eroi e non ha nulla di reale come può averla quella di un nonno; ma, piuttosto, “capendo, accogliendo la paura che un simile evento scatena, e parlando, confrontandosi con loro sulla morte… quella vera.”. Inevitabile, in proposito, fare un cenno al sentimento del sacro, di cui il professore non esita a parlare sciogliendolo dall’esistenza o meno di un Dio: la forza che deriva dalla fragilità umana è quella che impone all’uomo la ricerca del divino, il quale è presente nel mistero umano (nel quale è compreso anche quello della follia). Il sacro, afferma Andreoli, serve a comprendere il mistero, ciò che non può essere imbrigliato dalla logica, ed è distinto dal religioso, che è invece la summa delle risposte che ciascuno sa darsi in relazione al mistero stesso. A questo proposito, secondo il professore, è necessario riconoscere i limiti della scienza: essa è una modalità di una conoscenza che ha a che fare col razionale, con una dimensione che nulla sa dell’amore più profondo, del perdono, della compassione, nulla sa, né potrà sapere, del mistero dell’esistenza, tanto lontano dalla frenesia della nostra quotidianità, eppure imprescindibile per una riflessione sulla sofferenza umana e le sue molte maschere.

di Linda Altomonte
Centro studi ASIA

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