asia
12 Ottobre 2009

Ricerca sui videogiochi

Riceviamo e con piacere pubblichiamo la ricerca di un giovane studente universitario sui videogiochi. Ci hanno colpito la lucidità dell'analisi del problema e le distinzioni che vengono proposte all'interno del ragionamento, che divengono ottimi spunti di riflessione per coloro che si chiedono se e in che misura permettere ai propri figli di utilizzare questa tecnologia.
Per fare solo un esempio, c'è differenza tra il silenzio di un bambino risucchiato totalmente da un videogioco d'azione e la tranquillità di un bambino che gioca ad una qualunque altra attività. Questo tema è molto attuale, se si pensa al dibattito suscitato qualche tempo fa dall'introduzione della somministrazione, anche in Italia, di psicofarmaci a bambini con la cosiddetta sindrome da iperattività (ADHD), che negli Stati Uniti affligge il 12% dei bambini. Tale sindrome sembra non separabile dalla somministrazione di TV e videogiochi in tenera età [a].

Redazione ASIA

LA NOIA E I VIDEOGIOCHI
di Milo Dal Brollo
Tutti sanno che non basta assumere saltuariamente una dose di sostanza tossica per essere tossicodipendenti, bensì è l’abitudine all’assunzione e l’alto dosaggio che fa tale il tossicodipendente: la trasformazione di un bisogno superfluo in un bisogno necessario al proprio equilibrio. Sappiamo anche che possiamo diventare dipendenti in maniera morbosa anche dal cibo, oppure dal sesso o dall’eccitazione provocata dall’azione e dal pericolo, tutte cose non tossiche di per sé stesse. Dunque, è soprattutto l’accettazione della sensazione di soddisfazione, della sensazione di un equilibrio ritrovato con sostanze e/o dosi alteranti, il nodo da sbrogliare per comprendere una dipendenza. Chissà quante cose potrebbero provocarci una dipendenza, se solo accettassimo di essere sempre soddisfatti da sostanze, dosi o contesti alteranti!

Qualcuno potrebbe sostenere che non c’è nulla di male nell’essere soddisfatti. Sono d’accordo, anch’io cerco di soddisfare i miei piaceri. Il problema è che non siamo mai soddisfatti; infatti quando un certo livello di soddisfazione/alterazione non ci basta più, siamo sempre tentati a cercarne un altro maggiore.

Ma prima ancora dell’accettazione c’è un altro fattore che vorrei prendere in considerazione: la noia. La sopportazione e la gestione della noia secondo me sono la chiave di volta per comprendere una dipendenza. La noia, quella vera e pesante, quella noia generale che ti fa chiedere «che ci sto a fare?!» o «che senso ha che tutto sia sempre così?!», quella che ti assale già quando ti alzi dal letto e che ritorna quando ti corichi, fa sicuramente soffrire.

La noia è un fatto imprescindibile per l’uomo. Forse, ci si annoia più oggi che in passato, perché abbiamo molti più momenti liberi, soprattutto nel periodo adolescenziale. Ciò che cambia, credo, è l’approccio con i momenti di noia, e questo è un fattore molto importante per la crescita dell’uomo: può cercare di comprenderla e vedere da dove nasce veramente oppure può abbrutirsi fuggendo da essa. Oggi, la nostra civiltà ci ha messo a disposizione tantissimi mezzi per non annoiarci e soddisfare i nostri piaceri: TV, internet, musica dura, motori, sostanze chimiche, videogiochi… ma è in grado di darci gli strumenti per capire la vera origine di questa noia?

Generalmente, la risposta è una medicina che va ad agire sulla chimica del cervello. È un tentativo di fare ciò che già fanno le droghe, nel senso generale del termine: creare una sensazione diversa da quella del malessere. Ma la noia si può eliminare? Oppure abbiamo bisogno di dosi medicinali sempre più alte per sedare uno stato di insofferenza intrinseco? Inoltre, perché non drogarci ed eccitarci con qualcos’altro di più piacevole da assumere rispetto alle medicine, se si tratta solo di nascondere una sensazione con un’altra, o di sedarla?

Credo, allora, che il fulcro del problema sia quello di educare le persone a saper affrontare i momenti di noia e insofferenza, trovando quei sentieri mancanti per rispondere alle domande che questo dolore può suscitare. Invece accade il contrario, almeno sul versante dei videogiochi. Ciò mi ha lasciato molto perplesso.

Passando per strada ho visto la pubblicità di una rivista della quale non ricordo il nome, dove in copertina c’erano due belle bambine e la scrittona «I videogiochi fanno bene». Mi sono chiesto come facciano questi “esperti” a dire una cosa del genere: i videogiochi possono essere un piccolo svago, ma il più delle volte eliminano la socialità tra persone, la comunicazione diretta, la voglia di scoprire l’esterno, non ti fanno stare tranquillo un minuto… lo so per esperienza. Allora ho deciso di fare una ricerca, ed ecco cosa ho trovato

Il 23 giugno 2005, Il Corriere della Sera pubblica Videogiochi violenti? Fanno bene ai bambini con un’intervista a Steven Johnson riguardo al suo libro Everything bad is good for you uscito nel 2005[ 1]. Secondo costui, i videogiochi fanno bene all’intelligenza e alla socialità (in quest’ultimo caso, soprattutto i reality show[ 2]).

Il 9 febbraio 2007, il sito Hardware Upgrade pubblica I videogiochi migliorano la vista del 20%[ 3]. In particolar modo quelli d’azione, frenetici.

Il 20 febbraio 2007, sempre lo stesso sito pubblica Come i videogiochi aiutano la chirurgia[4]: i chirurghi che hanno giocato più tempo ai videogiochi, secondo il test, avrebbero avuto migliori risultati nelle attività di precisione.

Il 19 marzo 2007, il sito Punto informatico pubblica Sopra i 50 i videogame fanno benissimo[5], asserendo che sono una “palestra per il cervello”, riportando delle voci di una ricerca israeliana.

Il 2 luglio 2007, il sito Trackback riporta notizie[ 6] della ricerca di Simon Bradford della Brunel’s School of Sport and Education di Londra, secondo il quale i videogiochi fanno bene ai bambini per i seguenti motivi: sviluppano la fantasia, proteggono dai pericoli delle città, aiutano a conoscere il sesso opposto, le problematiche dei disabili e le differenze razziali.

Il 5 febbraio 2008, il sito Buddha Gaming pubblica Videogiochi? Sì, fanno bene![7] in cui riporta la notizia della pubblicazione del libro Mamma non rompere – sto imparando! di Marc Prensky; vi si dice che i videogiochi sono così benefici per i giovani che devono essere insegnati a scuola. Con un video-riassunto della conferenza di presentazione del volume.

Il 2 Aprile 2008, il sito Edge riporta le voci di uno studio psicologico[8] condotto da scienziati della Middlesex University, in Study: violent games relax players. Secondo la ricerca, chi fruisce di videogiochi violenti si rilassa più di chi fruisce di altri tipi di giochi.

Il 27 giugno 2008, Stefano Fait, nel suo blog Laboratorio di Comunicazione, pubblica Chi l’ha detto che i videogame fanno male?[9] in cui ci rivela la sua fiducia nell’evoluzione dei videogiochi in mezzi di comunicazione sociale (cioè educativi), riportando un esperimento della Federation of American Scientists[10].

Il 5 agosto 2008, Alessandro Delfanti, articolista scientifico di varie testate giornalistiche, nel suo blog Qwerty – pura scienza da tastiera, pubblica I videogame fanno bene alla tua psiche[11] in cui commenta una ricerca[12] dell’azienda videoludica statunitense PopCap: i videogiochi “casual”, che inducono i fruitori a creare nessi logici per vincere la partita in un contesto innocuo come un puzzle, possono favorire una guarigione di bambini e adolescenti dalla Sindrome da deficienza di attenzione e iperattività (ADHD). Questo intrattenimento consentirebbe loro di riuscire a concentrarsi su qualcosa di cervellotico ma allo stesso tempo divertente, stimolando in loro capacità cognitive e autostima che possono rivelarsi utili nelle attività scolastiche e nella socialità.

L’11 dicembre 2008, il sito WÜZ riporta una notizia dell’ANSA[13] che dice che videogiocare tiene arzilli gli anziani.

Il 13 gennaio 2009, il sito Gamesblog riporta l’opinione del ministro inglese Tom Watson in merito: sono ottimi mezzi educativi e sociali[14], nonostante le accuse di altri suoi colleghi e di alcuni specialisti in psicologia, come Tanya Bryon[15], che riportano il contrario.

Il 9 marzo 2009, il sito Bambini.info pubblica "Per i genitori inglesi i videogame fanno bene ai bambini"[16]: ben il 75%, e altri dati.

Su internet appare la sintesi di una ricerca[17] del dottor Henry Jankings, che però non ha la data, il quale sostiene che ci sono ben 8 punti da sfatare sul mito dei videogiochi: 1) negli ultimi 30 anni la violenza giovanile in USA è calata mentre le vendite dei videogiochi continuano a salire, quindi non sono i videogiochi a fomentare la violenza; 2) c’è conseguenza probabile ma non necessaria di atteggiamenti violenti in chi videogioca, perché gli esperimenti che hanno connesso violenza con l’uso dei videogiochi non sono attendibili; 3) non sono i minorenni la principale fetta di mercato videoludico, ma i maggiorenni, segno che i bambini non videogiocano più di tanto; 4) le donne che videogiocano sono una buona percentuale rispetto ai maschi; 5) l’addestramento militare tramite videogiochi simili a quelli in commercio fa parte di un curriculum specialistico adottato solo da una parte ristretta di forze speciali, dunque è falso che i fruitori vengano addestrati come soldati “di ghiaccio” dell’esercito USA; 6) molti videogiochi sono mezzi per sviluppare la creatività e mettono a nudo la vera natura del giocatore, infatti sono programmati apposta per personalizzare e gestire secondo una strategia il gioco intero; 7) non è vero che videogiocare isola, infatti almeno il 60% dei giocatori lo fa assieme ad amici oppure in rete; 8) che l’uso dei videogiochi crei l’incapacità di distinzione tra finzione e realtà è falso: uno stesso comportamento ha diversi significati nel gioco o nella realtà, solo i giochi violenti portano ad altra violenza, ma sempre secondo i punti precedenti. Il tutto si può riassumere nella frase: videogiocare è come giocare agli indiani.

L’unico articolo che ritengo sensato mi sembra quello che sostiene che videogiocare aumenterebbe le capacità professionali di precisione; è credibile: perfino i militari specializzati si addestrano con delle simulazioni virtuali, quindi perché non dovrebbe essere così anche per i chirurghi e, un giorno, per gli orafi e pescivendoli? Ma volendo rimanere nell’ambito della percezione, mi sembra proprio strano che i videogiochi aguzzino la vista del 20%… allora perché ci sono sempre più bambini con gli occhiali? E perché chi lavora come critico videoludico ha spesso gli occhiali?

Sulla tesi secondo la quale i videogiochi sono creativi, aumentano la socialità, le capacità intellettuali e così via, ci sono argomenti per essere contrari: innanzi tutto essere creativi non significa semplicemente poter scegliere tra diverse opzioni; personalizzare una propria avventura, un proprio personaggio, secondo degli schemi già prefissati non significa creare. Chi ha creato un’opera d’arte secondo certi canoni voleva soprattutto comunicare qualcosa di profondo, altrimenti l’arte diverrebbe posticcia.

Così come socializzare non significa semplicemente stare assieme o essere collegati da un forum o una chat. Stringere legami significa trovare una persona con cui essere sinceri, superare la paura di rivelarsi, e dunque di aiutarsi nelle situazioni della vita guardandosi in faccia. Siamo sicuri che il ragazzo che gioca a Street fighter IV insieme a te sia pronto ad aiutarti, o anche solo ad ascoltarti, quando hai problemi più grandi del funzionamento della tua Playstation? E siamo sicuri che ritrovarsi solo per videogiocare sviluppi in noi una profondità dialettica?

Certo, videogiocare per un po’ di tempo a videogiochi strategici o gestionali farà bene alle nostre capacità di calcolo, e potrebbe anche migliorare addirittura le condizioni di chi è affetto da ADHD, dato che siamo immersi in una situazione avvincente e siamo continuamente pressati da scelte imminenti. Ma che senso ha sviluppare in maniera rapida la nostra sveltezza nel calcolo e la nostra memoria a breve termine, se poi non sappiamo stringere legami forti e profondi, o sviluppare una certa profondità di noi stessi, che possono aiutarci nei momenti difficili della vita? Un lutto, un tradimento, un fallimento, la frantumazione di un sogno o di una fede, si affrontano con il calcolo e la memoria a breve termine? Chi crede che ore di Empire – total war possano essere utili mezzi in questi casi?

Secondo me questa confusione su cos’è uomo è frutto della cultura, tipicamente moderna, di fare dell’uomo un mercante o un tecnico abile e scrupoloso, ma nient’altro. Forse è anche per questo motivo che sempre più bambini diventano incapaci di essere attenti a scuola e soffrono di problemi psicologici: perché la scuola, anche se la nostra cultura è infarcita di parole umanitarie, si è sviluppata dal modello 800esco della scuola pubblica inglese, quella nata esclusivamente per istruire e specializzare i lavoratori, senza mai cambiarne nell’essenza. Leggere i racconti Charles Dickens per credere. Siamo ancora immersi nel principio dell’utilitarismo, della formazione al lavoro, della competitività, e guardiamo i bisogni psicologici, affettivi e filosofici delle persone solo da quel punto di vista. Siamo solo meno moralisti dei vittoriani.

Cosa c’è da dirsi e da pensare in una sessione videoludica? Che parole, che modi di fare, quali pensieri apprendono le persone mentre videogiocano? La maggior parte delle volte, è una serie di accidenti mandati a mucchi di pixel, o di «adesso aggiungo qua, tolga là, compro quello, vendo quello, e ti distruggo!!!».

Ma esistono anche quelle avventure dove non uccidi nessuno, dove ci sono un sacco di enigmi strani, dove ci sono molti dialoghi, un po’ come un film… certo! Ma alla maggior parte dei ragazzi, lo dico perché lo vedo, piace il casino, le botte, il sangue, il conflitto. Poi non si diventa necessariamente assassini, ci mancherebbe altro, ma c’è un’abitudine all’aggressività che viene emulata, e che soprattutto impoverisce i sentimenti da cui poi sorgono i pensieri. Io lo so perché ho ascoltato musica metal e hardcore 24 ore su 24 fino a poco tempo fa, e questo mi ha reso molto gretto, perché quella musica è solo uno sfogo, salvo alcune eccezioni. Ovvio, ovvio: non tutti i metallari sono dei panciuti beoni rissaioli, ma l’esempio a cui si viene spinti ad adeguarsi è quello, e lo si emula[18]. L’emulazione è la principale fonte di apprendimento: l’esperimento sull’aggressività che Albert Bandura condusse su dei bambini nel 1961, usando la bambola Bobo, che questi dovevano picchiare, lo dimostra[19]. Perché dobbiamo abituarci a questi esempi?

Sarà vero che la criminalità giovanile è diminuita in USA nonostante la vendita di videogiochi aumenti sempre più, come dice Henry Jankings, ma che il tasso di criminalità sia basso è un indice di benessere della popolazione? Notoriamente, gli States sono il paese con il più alto consumo di psicofarmaci e droghe (e il Messico è un’ottima fonte di approvvigionamento). Direi che succede questo: la gente si sfoga nei videogame invece che per strada. Lo desumo leggendo ciò che dice il blogger AkirA nel suo I videogiochi violenti rilassano!: «Il videogioco, violento o non, è pura catarsi. Sfogarsi virtualmente per non sfogarsi altrove! Ditelo al vostro compagno di banco, potrebbe essere un buon consiglio per migliorare il suo 7 in condotta»[20].

Ma sfogarsi significa rilassarsi, essere in pace con sé stessi, essere in grado di affrontare la vita e la morte (quelle reali!) in maniera retta? Perché a questo punto non fare una ginnastica, uno sport, un’arte marziale belli energici, che educhino corpo e mente al rigore?

Mamma non rompere: mi sto sfogando! E la mamma è tranquilla, lo sono anche i professori, i poliziotti, i politici, i nonni, perfino gli animali domestici. Ma è educare tutto ciò? È crescere sani tutto ciò? Sappiamo distinguere la sanità dalla malattia, se la confondiamo con la dipendenza[21]?

C’è chi è d’accordo con me: è il blogger Andrea, che, con una buona dose di sfortuna, si è danneggiato parecchio il cervello e la vita videogiocando[22]. Per fortuna se n’è accorto in tempo. C’è gente che non torna indietro. Oppure anche lo psicologo Douglas Gentile dell’Iowa State University, il quale sostiene che il videogioco può divenire tranquillamente una fonte di dipendenza[23] e [24].

Un’ultima osservazione sui videogiochi educativi: ce ne sono e possono essere utilizzati (come Immune Attack o quello creato dall’università di Padova per istruire la gioventù sui rischi dell’assunzione di droghe[25]), così come ci sono programmi educativi in TV, ma questi sono strumenti didattici alternativi e non giochi per passare il tempo.

Consiglio ai pensionati di tenersi in forma con della sana corsa, leggendo bei libri e mangiando bene e al ministro Tom Watson di iscrivere a nuoto e a calcetto suo figlio, invece di lasciarlo alla mercé di Resident evil (un viodeogioco ammazza-tutti, ndr.). Ma quanto l’avranno pagato le case produttrici per affermare una cosa del genere?

Note:
[a] http://www.dica33.it/argomenti/pediatria/adhd/adhd5.asp

[2] http://archivio.lastampa.it/LaStampaArchivio/main/History/tmpl_viewObj.jsp?objid=5624761
Secondo l’American Academy of Pediatrics, l’uso della tv da parte dei bambini, perlomeno di quelli al di sotto dei 3 anni, causa seri danni al cervello; il frutto di 50 anni di tv in USA, dove in tantissime famiglie è accesa tutto il giorno e c’è una tv per ogni camera da letto e cucina, è il 12% dei minorenni affetti da ADHD, che potrebbe essere poi guarita con i videogiochi “casual” (vedere note [11] e [12]). Siamo sicuri che i reality show sviluppino l’intelligenza?

[18] www.youtube.com/watch?v=v4b3MBkOx5k (Rock out, dei Motörhead, dall’album Motörizer).

[21] Alessandro Del fanti, il blogger che ha riportato la notizia dei giochi-cura “casual” per gli affetti dall’ADHD, di questi giochi dice che «diventano droga dopo pochi secondi».

 


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