Riceviamo con piacere e pubblichiamo le riflessioni di un partecipante alle Vacances de l'Esprit con il prof. Massimo Cacciari. Ogni ulteriore riflessione collettiva sul seminario, magari attraverso lo strumento dei commenti, è benvenuta.
La redazione
Philo-xenia: essere al mondo come stranieri
Brevi note sul seminario tenutosi dal 30 maggio al 3 giugno 2009 “Sul concetto di relazione: ritrovare la prossimità nella distanza”
Lo straniero ti permette di essere te stesso,
facendo di te uno straniero.
Edmond Jabès
Col rigore del filosofo che dimostra la necessità logico-ontologica del proprio argomentare, ma anche con la coerenza di chi teorizza e pratica l’autentico dia-logos con i suoi interlocutori, Massimo Cacciari ci ha dato la possibilità di vivere una vera e propria Vacance de l’Esprit, un tempo di sospensione e di interrogazione, di distanziamento dal chiacchericcio quotidiano e di approsimazione a ciò che maggiormente ci inquieta, l’unheimlich, l’ospite più estraneo e più familiare, più distante e più prossimo.
Il percorso di riflessioni proposto da Cacciari è la forma più radicale di critica dell’idiozia, radicale poiché scende fino alle radici, le tocca e le scombina: se idiotes è l’individuo “privato”, colui che nella sua rassicurante privatezza subisce la privazione della possibilità di sperimentarsi parte pensante della polis e polo vivo di un’ineludibile relazione con l’altro, allora le sollecitazioni filosofiche di Cacciari sono al contempo una decostruzione dell’idiozia e un’offerta, un invito alla consapevolezza che turba la nostra illusione identitaria, la inquieta e la sfida nel profondo, scuotendola dal torpore e destandola al richiamo coerente del logos, al desiderio inesaudibile di sapere e di sapersi.
L’effetto della filosofia di Cacciari è quello di produrre uno spaesamento, uno spiazzamento imprevisto nel cuore stesso dell’identità, un movimento verso il limite di sé, dove soltanto è possibile l’alterazione, il divenir-altro nella relazione-con: una movenza del pensiero che chiama in causa l’esistenza, la provoca ad essere quella che è, ex-sistenza, lo star-fuori accettando il periculum e l’avventura dell’esposizione a ciò che da fuori viene, all’evento dell’altro. A fare esperienza dell’altro.
Come potremmo essere senza l’altro, lo straniero che interrompe la monotona coincidenza con lo Stesso, che guasta la logica del Medesimo, che frantuma il “cielo di carta” del teatrino in cui recitiamo, ignari, le nostre identità? Quale fremito avrebbero le nostre esistenze, se rimanessero inchiodate a ciò che crediamo di sapere, di com-prendere, di padroneggiare, quale slancio, quale estasi, quale volo? Non vivremmo forse nell’angustia della tana di Kafka, nella “caverna egoica” e autoreferenziale della philopsichìa, avvolti dalla notte che crediamo luce piena?
L’altro è l’evento che ci accade: l’assolutamente straniero, volto e storia che ci mettono a rischio, zattera di sguardi che assedia dal mare i tranquilli abitatori della terra-ferma, l’inquilino della porta accanto che turba e contamina la nostra lingua-madre, l’in-comprensibile, l’in-adattabile, l’in-assimilabile. Ma anche quel prossimo-straniero che sta di fronte e accanto a noi ogni giorno, nelle nostre case, nel letto in cui dormiamo, nella contesa che – sedata o irreprimibile – agita e sovverte la nostra anima, il nostro Io-sovrano (Jabès diceva: l’estran–io).
L’altro – prossimo e distante – ci è necessario, poiché solo nella relazione con l’altro siamo polo mobile di un con-fronto aperto ad ogni esito, in cui le singolarità si esprimono, escono da sé, dalla propria ‘idiozia’, per farvi ritorno come parte di qualcosa che le trascende, partecipi di un movimento di distanziamento e dis-allontanamento in cui ci è dato intravedere – come in filigrana, senza poterla mai possedere – la dimensione ineffabile di ciascuno, la ri-velazione di ciò che ciascuno è nel profondo.
Questo gioco di distanze, costitutivo di ogni relazione, è parola e contatto, conflitto e carezza, sguardo e ascolto, intesa e discordia, polemos e armonia, è ciò che ci consente di vedere e di vederci, di rispondere e cor-rispondere, di essere responsabili e testimoni dell’evento che ci accade.
Seguendo l’invito di Jabès, dovremmo davvero tentare di “abbattere le mura, non quelle che ci proteggono, ma quelle che ci dividono”. Dall’altro, e da quell’essere plurale che noi stessi siamo.
Un saluto a tutti coloro che – prossimi e distanti – hanno con-diviso questa esperienza di estraneazione.
Salvatore Piromalli (Trento)
terramare61@gmail.com