L’albero
di Shel Silverstein
2009, Salani Editore

 

Educare è un verbo complesso: presuppone una serie di sostantivi che – è sufficiente soffermarsi sui nostri ricordi d’infanzia e adolescenza per notarlo – lasciano davvero il segno quando fanno parte del bagaglio interiore di chi di questo verbo fa un mestiere, che si tratti di insegnanti o genitori: consapevolezza, coraggio, autocritica e autoironia, pazienza, dolcezza, ma anche severità, autorevolezza (“Bisogna essere duri, con i ragazzi”, affermava un Italo Calvino che difficilmente ci immagineremmo pronunciare queste parole), e quel particolare sguardo, profondo e irremovibile, di chi sa meglio di noi cosa sia bene e cosa sia male pensare, dire, fare. Sono sostantivi difficili: difficili da incarnare e da interiorizzare, anche perché di alcuni si è perso addirittura il ricordo, il valore, e quindi il fondamentale ruolo nella crescita di un individuo: sacrificio, dono di sé, sacralità (e non dogma), coerenza, accettazione dell’altro, della sofferenza, della morte. L’albero è un libro ‘per bambini’ che parla di molto (se non di tutto) ciò che abbiamo dimenticato.

Il titolo originale, The giving tree, riassume bene l’insegnamento principale – non l’unico – veicolato da questo libretto (esiste anche una versione in Inglese su YouTube narrata dallo stesso Silverstein). La storia è semplice: la commovente amicizia fra un albero e un bambino resiste al tempo e ai cambiamenti che quest’ultimo comporta, grazie alla dedizione dell’albero e alla sua straordinaria capacità di accettare l’amico per quello che è, anche a costo di rinunciare a ciò che a prima vista sembrerebbe irrinunciabile; il bambino diventa un ragazzo, il ragazzo un uomo, l’uomo un anziano, l’anziano una vita che attende di terminare, ma ogni età ha le proprie priorità, i propri bisogni, e l’albero, a cui di volta in volta l’amico umano chiede un aiuto diverso, di volta in volta donerà una parte di sé, senza soppesare il sacrificio che gli viene richiesto, ma badando solo a che questo sia funzionale all’esigenza del bambino, dell’adulto, del vecchio.

Può sembrarci a prima vista un po’ ottuso, il darsi incondizionato dell’albero di Shel Silverstein (anticonformista americano scomparso nel 1999, illustratore dei propri libri per l’infanzia e autore, fra l’altro, di canzoni per Mick Jagger): una reazione comprensibile, se si considera l’individualismo occidentale contemporaneo, al quale, venuto meno il contenimento di un moralismo più prossimo a un ipocrita perbenismo che non a un autentico senso etico (che radicasse nel sacro o in un laico umanismo), ormai non sembrano esserci alternative. Proprio per questo L’albero è un libro molto prezioso: non ha bisogno di sofismi per insegnare ai propri lettori la giustezza e la forza etica della totale accettazione e del conseguente accoglimento dell’altro – dove l’altro non è solo (non è tanto) un amico la cui esigenza sfocia nell’egoismo, bensì metaforicamente la mancanza stessa, la privazione, la rinuncia, la fine. Impossibile dare se prima non si accoglie in toto, impossibile accogliere ciò che sarà forse causa di dolore se prima non si accetta come tappa obbligata e naturale di qualsiasi rapporto (fosse anche quello con l’esistenza) il dolore stesso. L’amicizia (altra parola spesso dimenticata o banalizzata) dell’albero per il bambino non ‘dice’ tutto questo: piuttosto ne scaturisce e, al contempo, ne trae una forza che è forse una delle attitudini morali più difficili a cui educare i più piccoli.

Il titolo in Inglese esplicita l’insegnamento principale, dicevamo, non l’unico. Perché anche la poesia evocata dalla straordinaria semplicità di questo libro esprime un insegnamento forse più sottile, più nascosto, ma ugualmente pregnante. L’ultima richiesta da parte dell’essere umano (che mai dà, ma sempre e solo chiede, in una visione del rapporto fra uomo e natura a cui si vorrebbe dare maggiore spazio, ma che qui non ci è possibile sviluppare), l’ultima richiesta dopo una vita in cui, come tutti, ha amato, fatto progetti, è rimasto deluso, ha tentato di fuggire l’amarezza ed è tornato, l’ultima richiesta, insomma, è quasi banale, la sola possibile dopo dolori e fallimenti che né l’uomo né il vecchio raccontano mai, ma che parlano chiaramente attraverso i loro desideri: dopo la foga di un voler fare che in un lampo ha sostituito il tempo vuoto dell’infanzia e consumato la maturità, il vecchio dice all’albero: “«Non ho bisogno di molto, ora [,] mi basta un posto tranquillo per sedermi e riposare. Sono molto stanco»…”; il vecchio amico, ridotto ormai a un ceppo, si offre come ultimo ristoro, perché l’attesa della fine sia priva di affanno (“«Bene» disse l’albero, cercando di raddrizzarsi più che poteva, «[…] Vieni, ragazzo, siediti. Siediti e riposati».”). L’ultimo insegnamento è racchiuso nell’impatto delle due pagine finali: la felicità genuina dell’albero, pago di aver donato davvero tutto a chi lo chiedeva, e l’immagine di un vecchio di spalle, seduto su un ceppo, raccolto finalmente della sola attesa. Ecco l’insegnamento meno evidente, quello di cui abbiamo davvero necessità: la gioia sincera del donarsi e un’attesa della fine priva di affanni non sono solo auspicabili, ma sono possibili, concrete, si respirano nella particolare atmosfera di queste due facciate; come anche nel caso di L’anatra, la morte e il tulipano, se il segno della pagina termina, continua però il silenzio pieno di significato che essa sprigiona: in esso c’è tutta la pace dell’amore incondizionato da un lato, dall’altro tutta la quiete di una fine che non è tragedia, ma naturale desiderio di riposo. Su tutto, l’eco di un sostantivo così difficile da imparare, e quindi così difficile da insegnare: accettazione.