L’intervista è suddivisa in quattro parti:

 

1. LA MORTE BIOLOGICA

Il Prof. Campione   è   uno   dei   maggiori   esponenti   italiani di Tanatologia, la branca della psicologia che  studia   l’assistenza ai malati terminali ed ai loro familiari. Da molti anni è impegnato nel proporre la riflessione sul tema della morte, che tende sempre di più  ad  uscire dagli  orizzonti  della  cultura  contemporanea, attraverso l’attività accademica, libri, convegni e la Rivista Italiana di Tanatologia  ZETA, che  ha  fondato e dirige. Oltre  ad  essere uomo di cultura, è una persona di grande intensità e carica umana, che unisce alla ricerca ed alla didattica una esperienza diretta di assistenza ai morenti ed alle famiglie in lutto. Per un confronto sul tema  dell’educazione  alla  morte,  lo  abbiamo incontrato nel suo studio del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, dove insegna Psicologia Medica.

In merito alla possibilità di una cultura della morte, ci ha interessato molto il suo lavoro. In particolare la sua distinzione delle diverse modalità, gli atteggiamenti con cui in occidente si affronta la morte. Lei li ha  espressi come una modalità biologica, una  psicologico-personale, e un atteggiamento “umano”,  più legato invece al senso del vivere e del morire.
Quale è il dolore, il problema di queste persone davanti alla morte, e quale la loro domanda?

Il riferimento è a tre impostazioni antropologiche, a tre concezioni dell’uomo. La concezione biologica secondo cui l’uomo è un essere biologico il cui scopo è conseguire il benessere attraverso l’adattamento nell’ambiente: quindi un appartenente al regno animale a tutti gli effetti, solo con un cervello più evoluto.
Per la seconda concezione l’uomo è invece un essere “personale”:  per essere uomini non basta essere animali ma ci vuole anche un interiorità, un punto di vista particolare, una storia, un unicità e irripetibilità, quindi l’individualità, la persona.
Infine c’è una concezione secondo la quale per essere uomini non basta né essere animali, né essere individui consapevoli della propria unicità e irripetibilità, ma bisogna avere il sentimento dell’appartenenza al genere umano.
Sono tre modalità abbastanza diverse, distinte. Ad ognuna corrisponde una specifica sofferenza, e quindi un bisogno, che è importante distinguere.

La morte biologica

Rispetto alla morte l’essere biologico è istintivo, ha nei confronti della morte un atteggiamento simile a quello dell’animale: la morte non significa quasi niente, ciò che è importante è non soffrire. Un coniglio, quando scoppia l’incendio nel bosco, non scappa perché ha paura di morire, scappa perché si brucia.

Come l’animale che vive in un eterno presente?

Esatto, completamente dominato dal meccanismo stimolo-risposta: c’è una stimolazione e ci sono le reazioni tipiche di quella biologia. In questa epoca in cui la concezione biologica dell’uomo domina, il rapporto con la morte è il rapporto tra un cervello evoluto e qualcosa che non può ricevere nessun trattamento razionale, (che cos’è la morte? dov’è la chiave?): sono inutili tutte le complesse strategie cognitive che il cervello può mettere in atto. Quindi la risposta razionale dell’essere biologico di fronte alla morte è: non bisogna occuparsene, non pensiamoci, perchè non ci possiamo fare niente, non ci sono possibili interventi, non è descrivibile nè sperimentabile; quando c’è la morte, noi non ci siamo più, quindi: boh!

Ma questo non contrasta con la netta percezione che non ci sia nulla che ci riguardi più da vicino che la nostra morte?

Certo, però ci riguarda da vicino solo se noi abbiamo la possibilità di porci oltre la nostra vita biologica, se no non ci riguarda affatto. Altrimenti aveva ragione Epicuro: quando la morte c’è non ci siamo noi… in che senso ci riguarda? C’è un obbiezione a questo, c’è la morte degli altri: questo ci riguarda, però in che senso? Le teorie del lutto più in auge nella psicologia moderna, che è una psicologia di tipo cognitivista (che si rifà ad una concezione dell’uomo di tipo biologico) assimilano la morte dell’altro ad una perdita. Il problema non è la morte, il problema è quello che perdiamo quando questa persona non c’è più. In questa ottica biologica I legami affettivi di attaccamento sono concepiti come strumenti adattativi, utili non esser soli e procurarsi moltissimi legami che soddisfino i bisogni fondamentali. Allora quando un legame di attaccamento si spezza, il nostro adattamento nell’ambiente va in crisi, e il nostro problema è di recuperarlo.

Pare simile alla spiegazione per cui l’uomo ha un potente stimolo ad evacuare ed a sudare nei casi di pericolo di vita perché in questo modo diventa più leggero e scivoloso per correre via… le spiegazioni adattative sono sempre da osservazioni dall’esterno, ma com’è per chi lo vive in prima persona?

E’ vero, ma bisogna sforzarsi di mettersi nei panni di chi si identifica con la modalità esistenziale “biologica”. Se dicendo “io” intendo l’insieme dei miei tentativi per stare bene nel mondo, allora 1)della mia morte è meglio che non me ne occupi; 2)quello che mi da fastidio è la morte degli altri. Tant’è vero che c’è un giochetto che si fa all’interno di tantissime coppie: chi muore prima? Spero di morire prima io. Perché? Perché seno sono io che ti perdo e perdo quello che mi dai. Un altro modo in cui la morte, anche la propria, riguarda l’essere biologico, è che la si teme come evento doloroso, che fa soffrire moltissimo. Quindi per l’essere biologico qual è la buona morte di oggi? La morte istantanea ed indolore. Nei nostri studi abbiamo rivolto la domanda “come vorresti morire?”: oggi quasi tutti, giovani e vecchi, rispondono che vorrebbero morire nel sonno e senza dolore. Oppure rispondono spontaneamente che non hanno paura della morte, ma del dolore, ad essi importa di non soffrire mentre sono vivi, e in questo modo indicano che lo scopo non è vivere qualunque vita, ma è conseguire il benessere attraverso il vivere. Qualunque animale se potesse risponderebbe così, che la sua vita non è “la vita”, ma è godere, mangiare, bere, è il suo “star bene”. Si spiega allora perché in un epoca in cui la concezione biologica prevale, la nostra cultura propone una strategia del non pensarci o del banalizzarla in modo tale da renderla un fatto naturale, normale, un passaggio biologico indolore.

A questa domanda risponde l’approccio tecnologico della medicina?

Dal punto di vista medico a questa concezione corrisponde l’idea che la cosa migliore da fare quando uno sta morendo è di farlo soffrire il meno possibile, e quindi lo sviluppo di tecniche di analgesia che compongono la Medicina Palliativa. Ci sono intere scuole di intervento assistenziale sui morenti, sui malati terminali che dicono: l’intervento fondamentale è quello di garantire al morente la migliore qualità di vita possibile fino all’ultimo istante. Questo corrisponde perfettamente al bisogno della modalità biologica, ed è da rispettare, ma ad alcuni non basta: se uno avesse una modalità di tipo “personale”, e gli dicessero: “senti tu devi morire fra quindici giorni ed in questi quindici giorni non starai male per niente, anzi starai bene”, forse quello direbbe: non mi interessa di non soffrire… io voglio campare venti, trenta, quarant’anni.

La risposta più definitiva a chi non sopporta più di soffrire sarebbe l’eutanasia?

Certo, l’eutanasia è precisamente il tentativo di sormontare la crisi che interviene quando la modalità biologica incontra il suo limite. Si tenta di rendere il dolore sopportabile, di non far scendere la qualità di vita al di sotto di un certo livello.. ma si può anche non riuscirci, e quando non ci si riesce che si fa? L’essere biologico si rassegna, vuole morire, chiede di morire prima del tempo.

In quanti casi il dolore del malato terminale non è controllabile con farmaci o terapie?

Nel 15% dei casi, nella versione più ottimistica: perché quando la medicina dice che l’85% dei dolori si controllano, vuol dire che si rendono sopportabili: magari uno è sulla sedia a rotelle o a letto ed ha i dolori controllati, però che vita è? Ci sono altri dolori… In ogni modo possiamo parlare di un 15% almeno, tant’è vero che questo corrisponde circa alla percentuale di persone che chiedono di morire prima del tempo. L’essere biologico non ha altra risorsa nella sua impostazione di vita. Secondo me non è tanto un desiderio di morte autentico, ma è la via razionale per sottrarsi alla sofferenza. Che altro c’è? Uno ragiona e dice: me ne vado…

E’ quindi da prevedere che la pratica dell’eutanasia avrà una espansione nei prossimi anni?

Avrà una grande espansione, perché corrisponde perfettamente al tipo d’impostazione che tende a dominare sempre di più, l’impostazione biologica. Potrebbe esserci un alternativa, anche se questo non succede quasi mai: se questo tipo di uomo che incontra nel dolore finale il limite della sua impostazione, e si dicesse ”E’ vero che ho sempre vissuto per stare bene e per evitare il male, ma ora bene non posso stare, il male non lo posso evitare…. non sarà sbagliata l’impostazione della mia vita?” Questo non succede quasi mai: è poco probabile che un’impostazione di vita vada in crisi quando siamo nelle condizioni peggiori. C’è nella vita di tutti la possibilità di crescere di vedere altre possibilità, ma ha a che fare con l’erogazione di frustrazioni che non superino un certo livello. Se noi per esempio, nella nostra infanzia, nella nostra adolescenza soffriamo troppo, allora sarà molto difficile che cresciamo. Se non soffriamo affatto, lo stesso. Ci vuole una giusta dose di sofferenza: la sofferenza ci vuole perché tu capisca che una certa impostazione non è più possibile, ma se c’è ne troppa ne sei accecato, non capirai mai, anzi regredisci e ti senti autorizzato a regredire. Per trovare soluzioni bisogna essere lucidi. Ci sono i viziati che non crescono e ci sono i sofferenti che non crescono. Quelli che crescono, crescono perché incontrano il limite, però è un limite sormontabile, perché se tu incontri un limite insormontabile cosa puoi fare?

La morte in questo senso è un limite insormontabile, non aiuta a crescere…

Certo, ecco perché il problema della crescita rispetto alla morte è un problema educativo, cioè non ci si può aspettare che qualcuno sia sul punto di morire per aiutarlo a crescere, è una violenza terrificante. Come l’atteggiamento di certi moralisti nei confronti di chi non ce la fa più e chiede l’eutanasia; ci sono alcuni che li giudicano: “non deve, lei sta commettendo un peccato nei confronti della vita”. No, in quel momento non glielo puoi dire, è una violenza terribile, è troppo tardi. Certo, ci sono casi eccezionali in cui con un aiuto eccezionale, con un amore eccezionale da parte degli altri si può anche crescere in quel momento pur essendo in un buco profondo e avendo incontrato un limite insormontabile. Si vede spesso in persone che vorrebbero morire, ma di fronte all’amore di un figlio recedono. Magari non smettono di desiderarlo, ma non vanno oltre: “sì, voglio morire perché non ce la faccio più… però tu mi vuoi bene e sei ancora qui… e allora se anche io ti voglio bene, resto qui .”

1 – 234

Intervista a cura di Roberto Ferrari e Marco Besa
Centro Studi ASIA