Raccontava il poeta René Char, amico di Martin Heidegger dal 1955, che ai seminari di Thor negli anni ‘60, nel sud della Francia, ogni volta che udiva il nome di Frédéric de Towarnicki, il volto del filosofo tedesco “si illuminava di un largo, lungo sorriso”.
Fu quel giovane francese di origine polacca e madre ebrea viennese, Frédéric de Towarnicki, che con l’uniforme di soldato, di stanza nella Germania occupata insieme all’amico Alain Resnais, futuro cineasta, nel 1945 fece una deviazione con la jeep militare per far visita nella Foresta Nera al celebre filosofo di Friburgo, caduto in disgrazia per la sua compromissione col regime nazista.
La visita ebbe conseguenze incalcolabili nella vita di entrambi: Towarnicki, discepolo del “pensiero che medita” agli antipodi del “pensiero che calcola”, ne divenne il messaggero, rompendone dunque l’isolamento; fu “agente di collegamento filosofico” tra Heidegger e i filosofi europei (Sartre e Jean Beaufret soprattutto), portando nella sua bisaccia di soldato, tra un giallo e un romanzo di cappa e spada, i preziosi dattiloscritti annotati a mano dall’autore di Essere e tempo. Ma nel presentare Frédéric de Towarnicki al lettore italiano va premesso che già da prima la sua biografia è quella di un’erranza divenuta quête, e scandita da continui incontri con “persone straordinarie”. Metafisica che lui trasformò in mestiere, avendo fatto il giornalista culturale e lavorato per anni al Servizio di ricerca della televisione francese. Il suo rapporto con la parola scritta inizia però con la poesia, con quei versi, rigorosamente costruiti a coppie ritmate, con cui avrebbe divertito il più improbabile degli interlocutori, Heidegger appunto, sulla cui lunga frequentazione Towarnicki ha scritto il suo libro più bello, Ricordi di un messaggero della Foresta Nera, tradotto in italiano da Diabasis. Poche vicende reali si prestano come questa all’esclamazione: “bisognerebbe farci un film”.
Poiché io cerco / Senza aver trovato / Oppure ho trovato / Quel che un altro cerca”, è una delle quartine che fecero scoppiare a ridere il sussiegoso filosofo e la sua consorte nella veranda della casa di Todtnauberg. I suoi versi, scritti per gioco a partire dagli anni passati con un’eteroclita compagnia di rifugiati antifascisti tra Nizza e Saint Paul de Vence, tra Picasso e Braque, Jacques Prévert e Heinrich Mann, gli valsero nel 1952 la proposta del pittore Pablo Picasso, che in essi riconosceva il ritmo vitale del flamenco e del fado (il “blues” portoghese) di illustrarli con propri disegni. Troppo vagabondo per darle importanza, Towarnicki lasciò col tempo cadere la proposta, e soltanto tra breve le sue poesie (conservate da una delle sue fidanzate) saranno pubblicate in Francia. Tipica di lui fu anche la storia del film poliziesco, mai realizzato, che doveva fare con l’amico Alain Resnais a una certa epoca, Les aventures de Harry Dickson, di cui i media però parlarono come se fosse uscito. E’ un film che lui definisce “mitologico-amoroso”, quasi un giallo dell’immaginazione, cui avevano aderito tra gli altri gli attori Lawrence Ollivier e Vanessa Redgrave, e la cui sceneggiatura è ora in via di pubblicazione negli Usa presso l’Università della Pennsylvania, nel quadro di una serie di studi e celebrazioni di Towarnicki.

Frédéric de Towarnicki è stato intimo di pittori, poeti, scrittori, uomini e donne di teatro, filosofi e altri maestri: di tutti o quasi ha scritto e conserva una miniera di materiali vivi, archivio di conversazioni e testimonianze, da Brecht a Ernst Junger, da Mircea Eliade a Max Ernst, da Chagall al maestro Satprem (né va dimenticato l’impegno politico per i dissidenti sovietici e il suo rapporto con Sacharov). Che Towarnicki stesso sia un personaggio epico lo dice il recente romanzo di Georges Walter, Sous le règne de Magog, 1939-1945 (Denoel), dove il giovane poeta Towarnicki, innamorato e temerario, è raccontato negli anni cupi in cui la Gestapo imperversava anche sulla Riviera francese (Magog, nome biblico, è parola in codice per dire Hitler).
Anche l’Italia ha significato molto per Towarnicki. Come mi ricorda lui stesso, “l’Italia è sempre stata presente nella mia vita, fin da quando vivevo a Mentone e a Nizza prima di venire a Parigi. E poi la prima donna che ho avuto era piemontese, e la mia attuale compagna è originaria di Parma. Ho vagabondato a lungo sotto il Ponte dei Sospiri a Venezia e ho girato varie trasmissioni televisive a Roma, per esempio documentari sul mio amico Jiri Pelikan, eroe della Primavera di Praga in esilio. Ho diretto in Francia un’ampia Enciclopedia del Teatro, e sarebbe troppo lungo dire tutto quello che devo ad autori come Goldoni o Pirandello…”. Tra i suoi ricordi italiani figurano le conversazioni con Federico Fellini, gli incontri col famoso Club di Roma e la frequentazione di Giorgio De Chirico all’epoca in cui faceva per il settimanale Le Point un’inchiesta sulla mafia dei falsari di quadri: “L’Italia per me significa anche il legame con De Chirico e sua moglie. Ricordo come se fosse ieri le visite al suo appartamento in Piazza di Spagna, le conversazioni in cui De Chirico mi spiegava il ruolo giocato dalla sua lettura di Nietzsche nella composizione delle“piazze d’Italia”, la cui atmosfera nostalgica, accentuata dal vuoto e dalle ombre, suggeriva il declino di un mondo che finisce, o che è già alle spalle. De Chirico mi mostrò anche tutti i trucchi diabolici inventati dai falsari per imitare i suoi quadri”.
Frédéric de Towarnicki abita da qualche anno con la sua compagna Nora Sagnes in un piccolo comune a sud di Parigi che si chiama Vanves. E’ collegato dalla metropolitana al centro della capitale, ma è anche un villaggio appartato e autonomo, con un suo centro storico e un suo parco, un ristorante cinese e una pizzeria italiana, e contrasti architettonici che miniaturizzano il conflitto-conciliazione tra vecchie forme abitative e nuovi palazzi, dando alle case di una volta un’aura di archeologia o modernariato non priva di tenerezza. L’abitazione di Towarnicki è al secondo piano di una palazzina moderna di cinque piani, di fronte a una piazzetta con un vecchio bistrot e un garage, e in mezzo alcuni alberi. Già al nostro primo appuntamento, anni fa, nella pizzeria italiana di Vanves, sentii con lui una forte connivenza morale e affettiva, “in questo terribile mondo della tecnica”, come vezzosamente ama ripetere. Appassionato e istrionico, umoristico e sincero, il vagabondo-narratore Frédéric de Towarnicki ha ancora i tratti di spirito con cui dovette sedurre e divertire il compunto filosofo della Foresta Nera. Per quanto sia un’illazione trasferire i caratteri di un autore alla sua opera, quando penso a Towarnicki e alla sua amicizia con Heidegger mi viene in mente non tanto la foto di lui, giovane soldato francese, a lato del “ridicolo filosofo con i calzoni alla zuava” (come direbbe Thomas Bernhard); ma, per proprietà transitiva, un’altra fotografia in cui si vede Heidegger, con Beaufret e René Char, tra i giocatori di pétanque nel Sud della Francia, totalmente assimilato a essi anche nel modo di vestire e nella gestualità. E’ in questo sfondo ideale che le parole di Towarnicki trovano lo spazio più luminoso. Secondo Towarnicki, rispetto ai suoi amici heideggeriani di Francia duri e puri, rigorosi “come benedettini”, la sua relazione con Heidegger fu piuttosto una “commedia”, un “teatro all’italiana”. Ma forse proprio questo ha fatto dire con formula felice a un noto commentatore parigino che “Heidegger ebbe molta fortuna a incontrare Towarnicki”. La fecondità e bellezza del loro incontro consisté anche nell’improbabilità, nell’apparente non-corrispondenza e discontinuità dei linguaggi e dei modi.

Il suo libro racconta l’avvicinamento a un “maestro”, e alcuni degli effetti che un allievo può sperimentare. Per esempio la magia della trasformazione delle contraddizioni in evidenze, che per Towarnicki fu la dimensione filosofica dell’essere, parola che riassume un’opera considerata tra le più difficili, e di cui Towarnicki colse la“sosprendente semplicità”. Accanto alle altezze del pensiero, in felice contrasto con la quotidianità del filosofo, Towarnicki descrive la relazione maestro-discepolo e il suo spaesamento, il perdersi, lo scarto a volte drammatico che l’apprendistato alla comprensione richiede, la sensazione di dover ritornare alle origini, alla semplicità di un procedere che scaturisce dalla sorgente stessa del nostro essere al mondo, e del dire. Cambiando modo e idea del comprendere, il maestro scompone per ricomporre, disgrega per riaggregare, e così facendo “illumina”. Ma ciò che vale, più dei concetti e dei “dati”, è il cammino, il corso del pensiero che inaugura in noi. Così è stato per Towarnicki. Ha raccontato con onestà un’esperienza terribilmente difficile da ri-trasmettere a terzi, e lo ha fatto con fedeltà a se stesso, ma anche “senza commettere un solo errore” (di filosofia) – come mi ha detto una volta con un candore che mi ha fatto sorridere. Se il suo è un romanzo “di iniziazione”, come lo definì Julien Gracq, cioè di formazione al cospetto di un maestro, il suo autore si merita pienamente quella poesia di Bertolt Brecht con cui lo stesso Heidegger lo omaggiò, leggendogli un giorno a sorpresa la storia di Lao Tze e del traghettatore-gabelliere (Leggenda sull’origine del libro Tao Te King):“… Ma non solo al saggio si dia lode / che sul libro col suo nome splende! / Che strappargliela si deve, prima, al Saggio la saggezza. / Anche sia grazie dunque al gabelliere / che la seppe volere”. Ecco, Towarnicki fu quel gabelliere. La prima volta che ho parlato con Frédéric de Towarnicki fu al telefono una sera d’inverno. Il contatto stabilito per ragioni editoriali venne da lui trasformato quasi subito in un dialogo sulla vita. Mi disse, come se fosse la cosa più naturale al mondo e la vera ragione della mia telefonata, che verso i quarant’anni si incontra una nuova adolescenza, una “semplificazione di quel magma incomprensibile che è la vita”. E ci siamo messi a parlare della Via, proprio così, che per lui fu l’incontro con Heidegger e “la filosofia”, per me qualcosa di un po’ diverso, e per altri può essere di tutto. Poiché il maestro, qualunque cosa sia, lo si riconosce alla fine del cammino, o nell’approssimarsi a essa, Frédéric de Towarnicki, che non ha mai smesso di sentirsi in cammino, mi disse pressappoco questo: di sentirsi come un esploratore che sia arrivato nei pressi della sua destinazione ma non se ne sia resoconto, o abbia capito tardi di esserci passato di fianco, di esservi forse già stato da sempre e di averci girato intorno. La meraviglia lo sprona a continuare il cammino, e più passano gli anni più chiaramente intravede la “radura”, quella semplicità che solo un Dire anteriore a ogni Detto può forse rivelare. “Non ci sono scorciatoie”. Ci siamo rivisti per cenare insieme questa primavera, e nel candore dei suoi ….ANNI?, mi ha detto: “Sono felice di studiare un pensiero che non è una dottrina e non poteva diventarla, che non permetteva dunque nessuna ricetta, nessun programma definitivo, nessuna spiegazione decisiva; solo la percezione di un cammino in cui quello che non si può dire, che non è mai stato detto, non sarà mai detto, diventa un richiamo, anzi, il punto di partenza di un’altra percezione che raggiunge quella dei poeti e degli artisti”. Poi abbiamo mangiato le bouchées de la reine, involtini di pasta al forno farcita di cui è ghiotto,abbiamo riguardato la sua collezione di Buddha, mi ha recitato alcuni dei suoi fado in rima – versi sull’amore, la guerra, le donne, le città – mentre fumavo un paio di quelle sigarette di cui pure è ghiotto, ma che ahimè non può più fumare.

di Beppe Sebaste
Comparso su La Repubblica, 13-8-06
su gentile concessione dell’autore.