Il terzo di una serie di articoli sulla genesi e lo sviluppo del concetto di intenzionalità, centrale nella fenomenologia.

Heidegger: l’intenzionalità è trascendenza

Martin Heidegger, in un semestre universitario del 1927, riprende la questione dell’intenzionalità conducendo una ricerca verso l’origine del percepire come origine della conoscenza stessa non curandosi del fatto che questo domandare esuli dalla filosofia, ma ponendo l’accento sul fatto che proprio questo domandare apparentemente banale può rivelarsi non solo stimolante, ma un assoluto mistero.

Sostiene che “a restare oscura è la costituzione ontologica della percezione in generale e quindi la costituzione della posizione, restano oscuri dunque (dal punto di vista ontologico) gli stessi atteggiamenti dell’io”.[1]

I fraintendimenti dovuti alla percezione, che egli analizza, sono dovuti ad un atteggiamento fenomenologico che non considera i vari atteggiamenti come il rappresentare, il giudicare, il pensare, il volere come strutturati già intenzionalmente, quindi sembra possibile considerare l’intenzionalità come qualcosa di oggettivo o di solo soggettivo.

Qui viene ripresa la questione lasciata in sospeso da Brentano (1874, Psicologia da un punto di vista empirico) in seguito affrontata e discussa da Husserl: come può l’io con i suoi vissuti intenzionali, uscire dalla sua sfera di esperienze vissute e accettare di rapportarsi al mondo sussistente?
Secondo Heidegger esistono due tipi di fraintendimento derivanti dall’errato intendimento di intenzionalità.

1) Il primo fraintendimento consiste in una oggettivazione a rovescio, insito non tanto in una interpretazione filosofica delle cose, ma piuttosto dalla frequentazione quotidiana di noi stessi (esserci). I pregiudizi impliciti sono i più difficili da notare, ma è possibile osservare con semplicità l’accadere della percezione ordinaria. L’esempio riportato è quello del percepire, attraverso l’intentio, una finestra di fronte (intentum).
In questo caso è il sussistere della finestra che determina una relazione con un soggetto, l’uomo, anch’esso esistente.
Se immagino che l’oggetto percepito sparisca, scompare ogni relazione tra me e l’oggetto, sembra pertanto che il termine necessario per lo stabilirsi della relazione tra un soggetto (psichico) ed un oggetto, sia la sussistenza fisica di quell’oggetto. Dunque la relazione intenzionale è data grazie all’oggetto.
Ciò che trascura questa interpretazione è il modo d’essere dell’intenzionalità, poiché un tale rapporto implica che il soggetto sia privo di intenzionalità, oltre ad essere isolato in sé, ma il soggetto proprio in quanto tale è orientato verso. Ed essendo questa la sua caratteristica essenziale, significa che non si dà mai la possibilità che sia diversamente da così. Nel caso di una allucinazione, gli oggetti percepiti potrebbero non esistere realmente, ma ci sarebbe la percezione di un soggetto nel modo dell’allucinazione che gli permette di incontrare qualcosa. Questo mostra l’originarietà del cogliere, ed è possibile cogliere qualcosa di presunto solo se prima io che colgo, anche, lo intendo. Nella stessa percezione, sia illusoria o veritiera, si trova già una relazione intenzionale.

2)Il secondo fraintendimento: una soggettivazione al rovescio. Essendo l’intenzionalità caratterizzata da una direzionalità che mette in rapporto il soggetto con l’oggetto, come noi perveniamo alle cose, che sono fuori, se questa intenzionalità esce dai vissuti coscienziali, ed è dunque dentro? Nella quotidianità io mi muovo in un dato ambiente, mi guardo attorno e percepisco una stanza, i muri, le finestre. Ma dove sono diretto in una tale percezione? Verso delle sensazioni? “Allora quando sto attento a non precipitare nel giardino dalla finestra, sto attento a scansare un’immagine, una rappresentazione, una sensazione?”[2]
Questa sarebbe una pura teoria, in quanto la percezione, proprio per il suo carattere direzionale, è diretta verso l’ente stesso. Tale atteggiamento si ripresenta invariato anche nel caso di una allucinazione: se sono convinto che ci sia un uomo di fronte a me, e invece è un albero, mi muoverò scansandolo proprio in virtù della convinzione che ciò che percepisco sussista realmente.
Cosa è implicito in questa visione? I termini del rapporto tra esperienze intenzionali soggettive riportate ad un oggetto, sono rovesciati. La stessa domanda ricade nella questione dell’intenzionalità e del percepire: non sono cioè in grado di chiedere come il vissuto interno giunga a qualcosa di esterno. Non sono in grado perché lo stesso atteggiamento intenzionale è già presente in questo stesso domandare.

E se oltre questo, come ad ogni atto primo della coscienza, non c’è un soggetto a priori, nessun io trascendentale, in quanto ogni atto è già intenzionato (e saputo tale), ciò che è necessario cogliere, dice Heidegger, è che l’intenzionalità è proprio e nient’altro che ciò in cui consiste la trascendenza. L’idea di un soggetto che ha dei vissuti intenzionali solo dentro la propria sfera, è un’idea assurda che fraintende la struttura ontologica di quell’ente che noi stessi siamo. Poiché noi non sussistiamo come una cosa, ma esistiamo in quanto possiamo entrare in rapporto con.
Ciò che Heidegger sembra voler dire qui è che la trascendenza non è un regno oltre umano, una metafisica da assurgere, e dunque neppure un soggetto ultimo trascendentale, bensì indica il cogliere che quell’ente che noi stessi siamo, che esiste con intrinseca ed essenziale caratteristica intenzionale, è, per così dire, il modo di conoscere della trascendenza. Come di ciò si possa esserne certi, in virtù da non costituire solamente un’alternativa ed ulteriore teoria della conoscenza, e della mente, e dunque come lo si possa “cogliere”, non è argomento che possa essere affrontato e approfondito in questa tesi, ma gli argomenti in favore di una tale esperienza vengono forniti esplicitamente nello scritto di due anni più tardi rispetto ai Problemi Fondamentali della Fenomenologia da Heidegger stesso[3].
La duplice argomentazione proposta sopra mostra che l’intenzionalità non è né qualcosa di oggettivo, non sussiste come un oggetto, né qualcosa di soggettivo, non è posta dentro un cosiddetto soggetto, ma è entrambe le cose in un senso molto più originario, ovvero nel senso che appartengono originariamente alla nostra stessa esistenza. In questo modo viene messo in questione il concetto tradizionale di soggetto sia dal punto di vista della psicologia come scienza positiva, sia dal punto di vista filosofico in quanto rimasto oscuro e non sufficientemente interrogato. Essendo infatti l’intenzionalità la struttura essenziale della soggettività, non possiamo trattare oltre quanto è stato detto sul tema stesso di atti primi ed intenzionalità, perché l’intendimento stesso di coscienza, o soggetto, avviene a partire da “qualcosa” che, in un certo senso, stiamo già usando mentre cerchiamo di definirlo ed analizzarlo. Possiamo dire però che visti i fraintendimenti portati come argomenti da Heidegger, non risulta più così scontato il fatto che una percezione si relaziona ad un percepito (come una tradizionale visione scientifica porta ad interpretare da secoli il famoso cogito cartesiano).

Questa svolta è difficilmente criticabile perché non è possibile uscire da una interpretazione del mondo che non tenga conto di soggetto ed oggetto, di un qui e di un là, sia dal punto di vista empirico che cognitivo, in quanto l’intenzionalità non è eliminabile, ma se -ed è questa la svolta che permette di risolvere il problema brentaniano prima ed husserliano poi- viene colta l’essenza del soggetto come il rapportarsi stesso, in quanto “soggiorna già immediatamente, in quanto esistente, verso le cose”, sarà possibile per noi accorgerci che se non c’è propriamente un “fuori”, è assurdo anche parlare di un “dentro”[4].

Della stessa serie: L’intenzionalità nella Fenomenologia/1 e /2

Note

[1] Heidegger, Martin, I Problemi Fondamentali della Fenomenologia, a cura di Friedrich-Wilhellm von Herrmann, Genova, Il Nuovo Melangolo, 1999, p. 51.
[2]  Heidegger, Martin, I Problemi Fondamentali della Fenomenologia, a cura di Friedrich-Wilhellm von Herrmann, Genova, Il Nuovo Melangolo, 1999, p. 59.
[3]  Heidegger, Martin, Che cos’è metafisica?, a cura di Franco Volpi, Milano, Adelphi Edizioni, 2001, p. 66: “La filosofia si mette in moto soltanto attraverso un particolare salto della propria esistenza dentro le possibilità fondamentali dell’esserci nella sua totalità. Per questo salto sono decisivi: innanzitutto il fare spazio all’ente nella sua totalità, quindi il lasciarsi andare nel Niente, cioè il liberarsi dagli idoli che ciascuno ha e con i quali è solito evadere; infine il lasciare librare sino in fondo questo essere sospesi, affinché esso ritorni costantemente alla domanda fondamentale della metafisica: Perché è in generale l’ente e non piuttosto il Niente?
[4]  Heidegger, Martin, I Problemi Fondamentali della Fenomenologia, a cura di Friedrich-Wilhellm von Herrmann, Genova, Il Nuovo Melangolo, 1999, p. 61.

Bibliografia:

  • Brentano, Franz, La Psicologia dal punto di vista empirico, a cura di Liliana Albertazzi, Roma, Laterza, 1997
  • Dummett, Michael, Origini della filosofia Analitica, introduzione di Eva Picardi, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2001
  • Heidegger, Martin, Che cos’è metafisica?, a cura di Franco Volpi, Milano, Adelphi Edizioni, 2001
  • Heidegger, Martin, I Problemi Fondamentali della Fenomenologia, a cura di Friedrich-Wilhellm von Herrmann, Genova, Il Nuovo Melangolo, 1999
  • Husserl, Edmund, Quinta Ricerca, La coscienza come Compagine Fenomenologica dell’io e la Coscienza come Percezione Interna, in Ricerche Logiche, Volume Secondo. Traduzione italiana a cura di G. Piana, Milano, Il Saggiatore, 1968
  • Husserl, Edmund, La crisi delle Scienze europee e la Fenomenologia trascendentale: introduzione alla filosofia fenomenologica, a cura di Walter Biemel, traduzione di Enrico Filippini, Milano, Il Saggiatore, 1961
  • Von Herrmann, Friedrich-Wilhelm, Il concetto di fenomenologia in Heidegger e Husserl, a cura di Renato Cristin, Genova, Il melangolo, 1997