Dialogo con il pubblico del professor Sergio Givone in occasione di una Conferenza del Ciclo “Il sacro limite, come vivere la morte” tenutasi ad ASIA Modena nel 2010. Prima parte.

Gli intendimenti del “vivere per la morte”

Vi ringrazio per avermi affidato questo tema impegnativo, che cercherò di approfondire nel migliore dei modi.

Filosofia come meditatio mortis
La filosofia ha concluso un percorso di interrogazione. Cosa resta? Un punto duro, difficile, un nodo che non si lascia sciogliere, un urto, qualcosa che amiamo rimuovere, un orizzonte di senso. Tutte queste cose insieme sono la morte, per l’appunto. Diceva Roberto Ferrari che la filosofia è forse, più di altri saperi, più di altre forme culturali o religiose che si confrontano con la morte, quella che cerca di non compiere quella operazione di rimozione che è nell’ordine naturale delle cose, come tutti sappiamo. Ecco la Filosofia forse può aspirare a dire, ritiene di poter dire, un’ultima parola. Un’ultima parola sulla morte non c’è, non c’è perché la morte ti cancella, ti spegne, ti rende impossibile l’ultima parola. Ma portarsi sulla soglia dove qualche cosa con un’ultima parola, o quanto meno un ultima domanda è possibile, ecco questo forse è il compito della filosofia. E’ inscritto nel suo DNA, nella sua natura. La filosofia è stata nei secoli, e anche questo lo abbiamo dimenticato, meditatio mortis, meditazione sulla morte – pensiero che pensa alla morte – è stato questo fin dalle origini. Pensate all’atto di nascita della filosofia, a quello che possiamo considerare il documento che ne attesta l’origine: la morte di Socrate. 
Socrate non ha lasciato nessuna traccia, sappiamo di lui attraverso i suoi allievi – e che allievi – pensate soltanto a Platone. Ma tutta la vita di Socrate ruota intorno a questo tema, a questo fatto, a questo evento, la morte. Egli muore come soltanto Socrate ha saputo morire. Ma il documento a cui facevo riferimento non è la vita di Socrate e neppure la sua morte, è il sillogismo che ha in Socrate il protagonista, il primo sillogismo, quello che tutti conosciamo, che tutti abbiamo un volta o l’altra incontrato sul nostro cammino.
Tutti gli uomini sono mortali. Socrate è uomo, Socrate è mortale.
Il sillogismo ha trovato la sua forma attraverso Aristotele ma si dice giustamente che l’inventore fosse Socrate. Giusto dunque che Socrate fosse il protagonista di questo primo sillogismo: è di lui che si parla e non della morte in generale, ma della morte di Socrate. In questo sillogismo troviamo i due aspetti, sono condensati, i due aspetti essenziali del discorso sulla morte. Socrate apprende dal sillogismo, cioè viene a sapere, deduce, viene a sapere con assoluta certezza, qualcosa che già sa. Non è che Socrate non sapeva di dover morire, lo sapeva, ma attraverso questa formula logica incontra qualcosa di ancora più profondo, incontra la verità stessa della sua vita. Da una parte il dover morire, tutti gli uomini sono mortali – Socrate è uomo, e dunque deve morire. Memento mori.

Morire bene
E se deve morire ne conseguono tutta una serie di pratiche, di comportamenti e di domande, guardate il caso proprio le domande che vi siete fatti e che Roberto Ferrari illustrava: le domande su che cosa significa morire bene o morire male, che cosa comporta questo fatto che ci riguarda tutti, come interagire, come reagire, come corrispondere a questo fatto, questo evento, questo urto, questo shock. Rimosso fin che volete, ma sempre comunque ritornante.
Se devi morire, cerca di farlo al meglio. Da cui le pratiche, le domande, domande che possono riguardare me in quanto morente, ma che possono riguardare colui che io posso soltanto accompagnare nella morte, ma non seguire fino in fondo perché la morte e sempre soltanto mia: anche nel mito romantico degli innamorati che si uccidono insieme, si tratta di due morti incomunicabili, due solitudini incomunicabili, quella dell’uno e quella dell’altro. Dunque la morte è sempre cosa individuale, che chiama in causa chi la vive e chiede a lui di reagire al meglio. Innanzitutto con le vostre domande: che cosa devo fare, che cosa posso fare per te che muori, che cosa puoi fare tu per me che sto morendo? E’ giusto darsi liberamente la morte? E’ giusto in assoluto? E’ giusto in determinate condizioni? e così via.
Ora metterei tra parentesi quello che oggi è oggetto di discussione più frequente, l’eutanasia: cosa sia dal punto di vista pratico una “buona morte”, e quindi che cosa è “cattiva morte”, se sia lecito od illecito darsi la morte se non altro entro determinate condizioni, che cosa posso fare per l’altro, che cosa l’altro può fare per me.
 Ecco, tutti questi problemi li vorrei mettere tra parentesi, semmai tornare dopo su questi problemi pratici, che sono etici da una parte psicologici dall’altra.
 Ora vorrei trattare l’aspetto che mi avete sottoposto, che da un punto filosofico è primario, quello che riguarda appunto il senso della morte, la verità che questa cosa misteriosa e terribile e angosciante porta dentro di sé e che il sillogismo socratico mi rende presente. Il primo sillogismo della storia è anche quello che dice: qui incontrando la morte incontri anche qualche cosa, come una verità che ti riguarda. La verità della morte, il senso della morte.

Vivere per la morte
Comincerei dalla fine, ma dietro c’è una lunga storia di filosofia come meditatio mortis: alla fine di questa meditazione, al culmine dell’ansia, un filosofo, uno dei più grandi, discutibile per tanti aspetti ma certo un grande filosofo, Martin Heidegger, abbraccia la celebre tesi: 
Vive autenticamente, cioè vive alla luce di un senso, alla luce di una verità possibile, colui che vive per la morte.
Vivere per la morte che cosa significa? Perché bisogna vivere per la morte, perché soltanto colui che vive per la morte vive alla luce di un senso e di una verità possibile?
 Bel paradosso questo, tanto più paradossale se pensiamo che oggi si fa esattamente il contrario: viviamo per centomila ragioni, centomila fantasmi, centomila prospettive, invenzioni, favole, tanto infinite da cadere tutte in una specie di indifferenza, di equivalenza, di valere tutte allo stesso modo e quindi di non valere niente. 
Oggi non viviamo certamente per la morte, che abbiamo cancellato. Chiunque dia un’occhiata in giro, sa che la morte proprio non c’è più. Non c’è più nelle nostre case, non c’è più neanche negli ospedali dove si va a morire, cancellata. Forse anche per qualche buona ragione: chi va li sperando di vivere non ama vedere il vicino che muore. Ma tutto è all’insegna della cancellazione: si va nei sotterranei a vedere il cadavere dove sono approntate delle stanze di transito di questi oggetti imperscrutabili che sono i morti, le salme.
Allora che cosa vuol dire “vivere per la morte”? Perché a qualcuno è potuto venire in mente una cosa del genere? Che solo vivendo per la morte si vive davvero, cioè davvero vuol dire secondo verità, alla luce del senso.
 Possiamo intendere il “vivere per la morte” in diversi modi:
• la morte come un idolo;
• in senso nichilista negativo, sopportandola stoicamente
• in senso nichilista positivo, rendendo tutto degno d’amore
• vivere per la morte è la stessa cosa che vivere per la vita tutta.

La morte come idolo
Possiamo intendere come l’ha intesa una tradizione che risale nei secoli alla preistoria, forse addirittura una tradizione arcaica, una concezione arcaica della morte: nel mondo egizio per esempio, ma che troviamo anche in tanta mistica cristiana – i padri del deserto, o i monaci col teschio sulla scrivania dove leggevano e lavoravano. Per essi vivere per la morte significa che la morte è la sola cosa vera. Di fronte alla morte tutto il resto perde di spessore di significato, di importanza. Da cui una retorica ben nota: “devi morire, che cosa ti preoccupi dei soldi, che cosa ti preoccupi di questo e di quello”. Nulla vale veramente se non la morte stessa, la cui rappresentazione può essere la piramide, o il teschio che metto davanti a me nei momenti in cui medito per ricordarmi che cosa sono veramente e così via.
 E’ questa una specie di attenzione, di idolatria della morte che diventa un grande idolo, lo scopo finale, un Moloch che inghiotte e azzera qualsiasi valore. E’ una sorta di luce accecante che sta li di fronte a me e pretende di dirmi che cosa io sono: “tu sei colui che deve morire, dunque non sei niente”. Tutto ciò che ami, che fai, in cui credi, è vuoto di senso rispetto a questo fascio di luce nera che viene dal cuore della piramide. Chi è stato in Egitto sa che le piramidi hanno un cuore. E dal teschio che mi guarda dal nulla si mostra il cuore stesso della morte. Questa è un’interpretazione che in epoche passate – quando la visione religiosa poteva trasformare questo idolo in strumento di Dio e passaggio a miglior vita – era molto di più diffusa. Ma è soltanto una delle interpretazioni possibili del “vivere per la morte”.

La morte nichilista negativa, e il sopportarla stoicamente
Ce ne è anche un’altra, che in realtà è figlia di questa idolatria della morte, ed è l’interpretazione nichilistica. Il nichilismo che cosa fa? Prende atto del “devi morire” e dunque le cose a cui tu conferisci valore, senso, in cui sono riposte tutte le tue speranze… non sono nulla. 
Il nichilismo non è niente altro che il trarre fuori dal cuore dell’idolo, della piramide, dalle orbite vuote del teschio il concetto del nihil. Il nulla. E dire: abbiamo capito dobbiamo morire, allora? Allora è così, questo nihil affrontiamolo da uomini.
 Nietzsche è stato il primo a riconoscere la distinzione tra un nichilismo negativo e un nichilismo positivo. Che cosa è il nichilismo negativo? E’ quello che ho già detto e che nella forma rituale religiosa, trovava figura nelle piramidi, nel teschio, nella mistica del memento mori, ed è la svalutazione di tutto ciò che è. 
Il nichilismo negativo si propone un atteggiamento stoico: prendere atto che nulla vale perché alla fine l’ultima parola è la morte, e non illudersi, accontentarsi di quello che si ha. Sapere che la disperazione è l’unico atteggiamento sensato, ma una disperazione virile, coraggiosa, stoica per l’appunto, quella espressa dal detto “Ducunt volentem fata, nolentem trahunt”, cioè “colui che accetta la morte come destino naturale vi viene condotto in modo amabile; il “nolente”, colui che non la vuole, viene invece trascinato e vive angoscia, senso di smarrimento, di perdita. Il nichilismo negativo non conferisce nessun valore alla vita, anzi, è fondato sul riconoscimento del disvalore di tutte le cose che sono, ma cerca se non altro una capacità di sopravvivere senza farsi tormentare dal destino senza cadere vittima dell’angoscia.

Il nichilismo positivo di Nietzsche
Il segreto della vita, afferma Nietzsche, è rovesciare il nichilismo negativo in nichilismo positivo. E’ scoprire qualche cosa che forse c’era già nelle tradizioni, in quei monaci che avevano il testo sul tavolo, negli egiziani che pensavano che la vita vera fosse aldilà della morte e così via. Qual è la perla nascosta nel nichilismo negativo?
E’ che il giorno che noi fossimo davvero convinti di dover morire, cosa che sappiamo ma nel profondo rifuggiamo, il giorno che noi prendessimo atto della morte la vita ci apparirebbe infinitamente più ricca, più degna di essere vissuta, più amabile e piacevole, in una parola più preziosa di quello che non ci appare. Sapere di dover morire vuol dire vedere nell’altro te stesso, amare l’altro.
Perché gli uomini si odiano tanto, si chiede Nietzsche? 
Perché non sanno di essere mortali, perché pretendono di essere immortali: tutto quello che fanno è per dare consistenza e valore a ciò che valore non ha, magari scrivendo un bel libro o peggio ancora ammassando ricchezze o comprando un brillante. Sono tutte forme attraverso le quali cerchiamo di perdurare al di là di noi stessi e di nasconderci la verità: che siamo mortali. Se sopprimiamo in noi stessi questa smodata volontà di durare eternamente, se accettiamo il fatto di dover morire, poco a poco le cose ci appariranno più preziose, più ricche, più belle e amabili di quanto non ci appaiano.
Infatti, perché tutto ciò che è, è degno del nostro amore? 
Proprio perché non è eterno. Noi possiamo amare, e questa è un’osservazione molto fine di Nietzsche, solo chi muore. Solo ciò che è simbolo, immagine del perdersi, del consumarsi, del finire, del morire, solo questo è degno di amore. Gli uomini per lo più si odiano, ma si amano anche. Se fossero immortali non potrebbero amarsi. Gli Dei fanno tutto ciò che fanno gli uomini, lo fanno in modo infinitamente più perfetto ma non possono amarsi. Gli Dei greci fanno sesso, anzi lo fanno grandiosamente, si fanno i dispetti e così via, ma non si amano, né sono oggetto di amore. Sono oggetto di venerazione, di superstizione ma non di amore. Io non posso amare chi non muore. Il solo Dio amabile, guarda caso è il Dio cristiano.
Perché il Dio cristiano, che appunto dice “io sono amore”, è amabile? 
Perché è il dio che muore, è un Dio che deve morire per essere oggetto di amore. Se noi intraprendessimo davvero una scuola, un percorso per acquisire progressivamente consapevolezza e accettazione del nostro destino mortale, allora sapremmo amare la vita perché la vita è amabile in quanto mortale. Amare la vita vuol dire la vita dell’altro, la vita degli uomini, tutte le cose che sono , le creature, gli uccelli, il cielo, il paesaggio.
Si può rovesciare il nichilismo negativo in positivo attraverso questa acquisizione di consapevolezza della mortalità. Direte: lo so benissimo, deve venire lei, professore, a dirmi che sono mortale? Nessuno di noi sa di dover morire. Questo sapere va acquisito se vogliamo operare il ribaltamento.

Vivere “per la morte” è vivere “per la vita”
C’è una terza interpretazione del “vivere per la morte”, quella che mi sembra la più acuta e profonda. Non è una idolatria, né una stoica disperazione, né una apologia della morte che ne difende la preziosità.
 Secondo questa interpretazione “vivere per la morte” non significa vivere per questo o per quello. Significa che si vive per la vita tutta, che lo scopo della vita non è al di fuori della vita ma è nella vita, anzi è la vita stessa.
Colui che vive per la morte non vive per la famiglia, per il partito, per la fede, per l’ideale, per gli affari. Proprio nella misura in cui fa davvero ricadere questo “per qualcosa” su se stesso mortale, esclude – la morte è il nulla – che uno scopo aldilà della vita possa dare significato alla vita.
Sa che ogni tentativo di vivere “per qualcosa” è uno snaturare la vita in una ideologia, proiettare fuori di sé lo scopo della vita. Allora impara a vivere.
 Colui che vive per la morte dunque vive di volta in volta per ciò che fa, e non perché lo deve fare ma semplicemente perché lo fa. Costui è salvo, costui vive autenticamente.
Direte: “ma anche bevendo un bicchier d’acqua al bar”? Ma certo. “Anche guardandosi intorno e ascoltando il cip cip degli uccellini”? Ma certo. C’è una bellissima poesia di un piccolo, modesto poeta piemontese che vorrei citarvi:
Quando verrà l’ora più grande e l’ultima,
 e mi chiederanno che cosa ho fatto di bello, 
io dirò che ho guardato le nuvole, 
le nuvole che passano. (Nino Costa)
Questo vivere per la morte è un vivere autenticamente, è un dare un senso a tutto quello che si fa via via che lo si fa. Non perché lo si deve fare ma perché lo si fa. Al punto che, se alla fine dovessi dire che non ho fatto altro che guardare le nuvole, avrò vissuto più autenticamente di colui che invece ha conquistato imperi, ha costruito meravigliose società, ecc. 
Intendiamoci, questo non significa che non bisogna conquistare imperi o metter su famiglia, assolutamente. Bisogna riconoscere che la verità, il senso, ha lo stesso titolo nel conquistare un impero così come nel guardar le nuvole, nel gettare uno sguardo su un bel paesaggio, o trovar piacere nel bere un bicchier d’acqua.

Vivere “per un senso” non è vivere “per la vita”
Se invece uno mette su famiglia perché questo è il suo scopo, è il senso della sua vita, se in altre parole il senso della vita lo mette aldilà della vita stessa e lo insegue, e se poi sua moglie lo lascia o i suoi figli non sono quello che voleva, allora in sostanza vedo crollare tutto, la mia vita non ha più senso. Magari uno prende un fucile e fa una strage. 
Perché questo? Perché per l’appunto il senso lo aveva posto fuori. Viveva “per la tua famiglia”. Se uno avesse imparato a vivere “per la morte”, cioè per nulla, avrebbe potuto scoprire il senso in ogni suo singolo atto.
Questo è diverso da chi immette in ogni singolo atto un senso “esterno”, e afferma: “Io ho dedicato la mia vita all’edificazione della società perfetta, ho sacrificato tutto, donne, figli, denaro, salute”. Poi arriva il 1989, cade il muro di Berlino, scopre che la sua fede era vuota. E la sua vita a quel punto è finita. Se tu avessi imparato a vivere per la morte non avresti patito quel fallimento nella fede grande o piccola che ognuno può avere, ad esempio la fede nella società perfetta, o quantomeno in un mondo un po’ meno schifoso.
In questa visione, essendo la morte l’unico “scopo” possibile e quindi essendo cancellato ogni scopo esterno fuori di me, allora ogni scopo ricade sulla vita stessa, e posso trovare in ogni atto della vita lo scopo: nella fede, nella speranza in mondo migliore, nell’amore. 
Il giorno che mi innamoro, ma anche il giorno che odio, o che decido di fare un viaggio o che mi impegno di fare ciò che ho deciso, vivendo per la morte ne ho cancellato l’idea e quindi vivo per la vita tutta.
 Questo tipo di ragionamento, che per me è abbastanza convincente, ha una sua conferma in quello che possiamo chiamare la fenomenologia dei grandi sentimenti, dei grandi stati affettivi, dei sentimenti fondamentali. Ne parlerò dopo, so che è una delle questioni che volete pormi direttamente.

A cura di Roberto Ferrari, Elena Cuzzani, Antonella Nora