Il mostrarsi del mondo. Dal soggetto alla Differenza ontologica e alla Vacuità

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Il sapere in quanto “vedere” ha due accezioni: coscienziale ed esistenziale.

Il vedere coscienziale presuppone un termine ultimo entificato: il soggetto, la coscienza, l’io, l’intelletto, l’anima, lo spirito… capace di stabilire una relazione conoscitiva con un contenuto oggettivo.

Il “vedere” esistenziale mostra l’essere di ogni ente, eventuale soggetto incluso.

Nella filosofia occidentale moderna il soggetto veggente “coscienziale” prende varie forme, a partire dalla res cogitans cartesiana giunge a puntualizzarsi nell’ego trascendentale di Husserl; in Oriente è il drashtar di Patanjali, il Purusha, l’atman… con tutte le loro varianti e facoltà coscienziali derivate.

Sta di fatto che, sia in Occidente così come in Oriente, è inteso esserci un ente, principio della conoscenza, che ha le caratteristiche della non oggettivabilità e della senzienza.

“La mente ha due caratteristiche: non ostruzione (non oggettivabilità) e senzienza” dice la tradizione tantrica buddhista.

Il “sapere-vedere” è attività transitiva, perciò duale per definizione. E infatti l’assunzione di un soggetto lo conferma perché, altrimenti, tutti i fenomeni apparirebbero da sé senza necessità d’essere platonicamente percepiti da un io osservatore “nella caverna”.

Coloro che sostengono la necessità di un soggetto, sia esso pure nella forma oggi vigente di cervello, gli attribuiscono la essenziale e transitiva capacità del vedere (in senso lato) gli oggetti; e d’altra parte cosa sarebbero gli oggetti senza un soggetto osservatore?

Sapere è sapere qualcosa, vedere è vedere qualcosa, essere coscienti è essere coscienti di qualcosa.

Husserl stesso, padre della fenomenologia più recente, ricadde in posizioni idealiste.

Il nostro sapere-vedere è inteso transitivamente, da un soggetto ad un oggetto. Tale sapere-vedere comporta delle difficoltà.

Infatti basta chiedersi: come un supposto soggetto saprebbe di se stesso?

Tale questione è affrontata nella critica buddhista alle posizioni idealiste: Nagarjuna, Buddhapalita, Chandrakirti…

Chiariamo le difficoltà concettuali di un soggetto che sappia di se stesso.

Poiché, come detto, la soggett-ità comporta un dualismo transitivo (“io guardo qualcosa”), anche  quando si andasse a cercare il soggetto veggente per certificarne l’esistenza, si avrebbe a disposizione sempre e solo un’attività transitiva, il cercare. Dunque anche se lo si trovasse, sarebbe ad opera di un ulteriore soggetto che coglierebbe, in quanto trovato, il soggetto prima cercato. Ma ora si riproporrebbe il problema: certificare il novello soggetto, autore del rilevamento del primo… e così via. La questione si reiterebbe in una reductio ad infinitum dove il termine ultimo resterebbe sempre solo supposto, ma mai certificato.

Può, dunque, un soggetto certificare se stesso? Se il soggetto si trovasse, chi ne saprebbe, un ulteriore soggetto? Per tali difficoltà molti Buddhisti hanno, infatti rigettato l’idea di un soggetto o di una coscienza come termini ultimi del sapere.

Lo stesso ha fatto Heidegger con il superamento delle posizioni coscienzialiste husserliane attraverso il Da-sein, l’Esser-ci.

Dobbiamo qui introdurre il cruciale significato heideggeriano della differenza ontologica che appare per la prima volta in Che cos’è metafisica? (1928)

Essa si intende attraverso due significati discernibili ma non separabili: ‘essere’ ed ‘essente’.

Questa mia persona (esperienza personale) è essente (spesso si semplifica dicendo ‘è un ente’).

Ma che significa essere?

Per intendere essere, occorre introdurre il significato di contrasto che lo rende essere in quanto essere: il niente.

L’essere è, il non essere (niente) non è.

La differenza è totale. Heidegger dice: l’essente – il totalmente altro rispetto a niente.

La differenza tra niente e il suo ‘altro’, l’essente, è, propriamente il fatto di essere.

“Che sono” significa, dunque: che non (il) niente – ma l’ente con il carattere di me (io)!

Questo è il passaggio fondamentale per avvicinarsi alla Differenza ontologica, nozione fondamentale per un confronto tra filosofia contemporanea e Buddhismo.

Si comprende essere solo se si intende (il) niente e il niente non si può non intenderlo. Infatti sostenere di non intenderlo, o non di intenderlo ancora (“non so se lo comprendo”), significherebbe: dell’intendimento di niente: niente! Appunto!

Tutti sanno il niente e non possono non saperlo. E lo sanno proprio quando non lo sanno. Con ciò sanno anche della differenza rispetto ad esso, dell’altro da niente, l’essente.

Il sapere dell’essere non è un sapere transitivo (“io so l’essere”). Infatti anche ogni sapere soggettivo, differendo da niente, sarebbe essente.

Occorre quindi accogliere una rivoluzione dell’intendimento di sapere: il sapere esistenziale.

Noi siamo talmente immersi nell’idea che ogni atto dipenda o si riferisca ad un soggetto, che non riusciamo a fare i conti con il primo ed originario fatto: il mostrarsi dell’essente differendo da niente.

Ma questo è il solo sostenibile e sempre esperibile fatto.

Nel linguaggio heideggeriano: in ogni – ci dell’esser-ci si svela il fatto d’essere: che l’ente è e non piuttosto non è.

E questo è spaesante, unheimlich, e addirittura ungeheuerlich, mostruoso, dice Heidegger ne “Le domande fondamentali della filosofia”. Quantomeno fonte di stranimento e stupore.

Da questo scaturisce ogni domandare, ogni “perché?”.

E in ultimo, in esso si estingue. Vacuità.

Il Buddhismo, con l’Abhidharma, inizia la considerazione degli “elementi dell’esistenza” che, a mio avviso, prende l’avvio dall’atteggiamento fondamentale del Buddha riguardo all’esistenza.

Recita Udana (1.10)

“Allora, Bahiya, tu devi esercitarti: in ciò che vedi ci deve essere solo ciò che [da te] è stato visto, in ciò che odi solo ciò che è stato udito, in ciò che pensi solo ciò che è stato pensato, in ciò che conosci solo ciò che è stato conosciuto. Così invero, o Bahiya, tu ti devi esercitare. Quando, Bahiya, in ciò che hai visto ci sarà soltanto ciò che è stato visto, in ciò che hai udito ci sarà soltanto ciò che hai udito, in ciò che hai pensato ci sarà soltanto ciò che hai pensato, in ciò che hai conosciuto ci sarà soltanto ciò che hai conosciuto, allora, o Bahiya, tu non ti identificherai più con quello, e quando non ti identificherai più con quello, tu non sarai più in quello; quando, Bahiya, tu non sarai più in quello, allora, Bahiya, tu non sarai più né qui né là, né in ambedue (i luoghi). Proprio questa è la fine della sofferenza.”

Ciò che conta è che, come evidenzia il testo nella traduzione curata da Oscar Botto ed edita da UTET, con quel “solo” non resta posto per un io[1].

Nasce la perplessità: come è possibile un manifestarsi senza un soggetto, sia esso di natura coscienziale, spirituale o neuronale?

Sta di fatto che è così.

Il fenomeno, il mostrarsi, l’apparire, è esistenzialmente primario, come dice Michel Bitbol.

Il mostrarsi di un mondo non dipende da un mondo ulteriore (…esso stesso apparente a chi, infatti?)

Esso appare e basta, soggetto incluso.

La difficoltà dell’ “apparire a nessun soggetto” deriva solo dall’abitudine ad una visione duale.

Ma l’incapacitazione per l’essere resta…

Dunque se con coscienza si intende il rapporto conoscitivo di un ente col mondo, abbiamo visto che allorché si autoriferisce, genera una regressio con ciò non risolvendo nulla se non reiterando la difficoltà.

Tale problema decade se si introduce il significato di differenza rispetto a niente.

Il vedere esistenziale è un mostrarsi trascendente ogni ente, coscienza inclusa.

“Così ho udito: una volta il Bhagavat (il Buddha) risiedeva a Rajagriha, sul picco dell’Avvoltoio, insieme con un gran numero di monaci e un gran numero di Bodhisattva.

In quel periodo il Bhagavat era assorbito in una meditazione chiamata Gambhiravasambodha. E contemporaneamente (fin qui da Max Müller, The larger Prajnaparamita; ora  da E. Conze:) il Bodhisattva Avalokiteshvara stava muovendosi nella profondità della “sapienza che è andata al di là”. Egli dall’alto (dal principio) guardò giù (trascese il principio), scorse soltanto cinque aggregati (ambiti d’esperienza) e li vide vuoti.”

La mia proposta è che la Differenza sia la comune struttura sia dell’essere che della vacuità.

Che cos’è Metafisica? dice lo stesso che il Sutra del Cuore.

Naturalmente resta la questione della natura di ciò che così si mostra: se è essenziata, cioè dotata di qualità intrinseche e ciò impone la domanda circa la conoscenza delle essenze (le varie metafisiche, idee platoniche, le categorie aristoteliche, ecc.).

Il Buddhismo Madhyamika, della “Via di mezzo”, sostiene che non vi sono essenze intrinseche. Ogni ‘come’ del mondo, indagato a fondo, si dissolve mostrandosi apparente solo in virtù di cause e condizioni che, esse stesse, subiscono la medesima dissoluzione.

Il mondo appare determinato, ma come in una magia, come in un sogno. Pare di poterlo afferrare ma, tentando, esso sfugge, le sue determinazioni si dissolvono.

… È, invero, è un tema piuttosto ostico, confliggendo con tutto ciò che crediamo; ma lo era anche per gli Indiani dei tempi del Buddha e successivi.

Continua il Sutra del Cuore: “O Sariputra, qui materia è vacuità e proprio vacuità è materia; la vacuità non differisce dalla materia né la materia differisce dalla vacuità; qualsivoglia cosa sia materia, quella è vacuità, qualsivoglia cosa sia vacuità quella è materia e lo stesso vale per affezione emotiva, concezioni, impulsi vitali e coscienza”.

Mostrandosi nella sua inafferrabilità essenziale, il mondo non offre appigli all’attaccamento (upadana).

È l’infondatezza, causa, se mal compresa, di smarrimento nichilista in Occidente ma, rettamente intesa (samyag drishti), di liberazione in Oriente.

La Prajna ha questo potere meraviglioso
Di stimolare due specie di uomini:
l’ignorante attraverso la paura;
il saggio, con la gioia.

Mahaprajnaparamitashastra.

Sarà da chiarire il rapporto tra lo sguardo originario, affacciamento sul mondo, e il sapere esistenziale.

La pratica della meditazione proposta ad ASIA è incentrata su tale rapporto.

Franco Bertossa
presidente di ASIA

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Note:

[1] La prima metà del testo riprodotto è tratto da Canone Buddhista, UTET, vol.I, a cura di Oscar Botto, la seconda da La rivelazione del Buddha, trad. Francesco Sferra, Mondadori.