Quel che distingue le culture orientale e occidentale è la convinzione, che può benissimo essere fondata su una esperienza, della continuità della coscienza.
Detto altrimenti: per gli orientali con la morte essa non si interrompe, ma solo si “assottiglia” – così come non è stata generata alla nascita.
Il flusso coscienziale è senza inizio e senza fine.
Questo suona bizzarro alle orecchie di un contemporaneo occidentale, ma sorgerebbero serie perplessità se egli si calasse in sé con sistematicità meditativa e vivesse quel momento in cui la coscienza prende a svelare i propri segreti.
Diverse persone di scienza, oltre che filosofi, hanno verificato questo.
Assumiamo per un istante che questo accada in una persona; ciò la porterebbe a considerare il problema di sé attraverso una prospettiva del tutto diversa.
Si troverebbe a fare i conti con l’impostazione orientale: un eterno flusso di coscienza impressionabile dalle esperienze vissute che porta con sé i sedimenti di tali impressioni i quali rilasciano via via la propria forza psichica che condiziona le esperienze future.
Ho detto, in sintesi, del karma.
Ciò porta ad assumere che questa stessa nostra vita sia frutto condizionato dalle impressioni pregresse che rilasciano i propri effetti, positivi o negativi, ad ogni passo, ad ogni respiro, ad ogni pensiero, ad ogni emozione è sentimento.
L’orientale ne conclude che è essenziale, anzi salvifico, ripulire il karma per non essere modellati dalle conclusioni allucinate tirate in passato e per non continuare a tirarne.
L’idea della infinita successione di affacciamenti della coscienza su mondi determinati dal karma preoccupa l’orientale.
Egli mira a liberarsene.
Questo è ben comprensibile quando si immagini di vivere secondo idee erronee o superstizioni.
Se, allorché soffriamo di una malattia di chiara origine organica ci rivolgessimo ai folletti, staremmo facendo a noi stessi un pessimo servizio.
Se guidassimo l’auto senza tenere conto delle leggi della fisica andremmo incontro a menomazioni e morte.
Così è col karma: se si vive senza tenere conto delle sue leggi, andiamo incontro a sofferenza senza fine.
In fondo a noi sopravvive il cristiano che crede che, anche dopo una vita scellerata, basterà chiedere perdono a Gesù per essere accolti in Paradiso.
Anche sulla tomba di Al Capone c’è una iscrizione, da lui voluta, che rispecchia questa convinzione.
Invece col karma non ci sono sconti.
“È più facile sfuggire alla propria ombra, che al propio karma”, dicono in India.
Ed è così perché il karma rispecchia la nostra stessa ignoranza.
Non siamo puniti o premiati da un Dio, ma dall’attuazione delle potenzialità di quel che è sedimentato nella nostra coscienza.
Il problema esistenzialmente tragico è stato espresso da certi filosofi del ‘900 – e ne ho parlato diffusamente – ma esso è, nell’idea dell’occidentale, relativo ad una sola vita.
Il problema è stato ben più drammaticamente percepito dall’Indiano: la coscienza è eterna ergo il problema ha una base che non può cessare.
Può solo cessare il problema risolvendo il karma attraverso una Via.
A ciò si sono dedicate le menti più brillanti e profonde dell’India, della Cina buddhista, del Tibet, del Giappone, della Corea, del Sud-est asiatico.
Intere civiltà.
Sarebbe il caso che anche noi degnassimo di una seria considerazione la questione?
Sarebbe inquietante scoprire che era tutto vero dopo aver perso una preziosa occasione.
Questa stessa vita.

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