CONVEGNO alla Facoltà di Psicologia dell’Università Alberto Hurtado

Santiago del Cile, Dicembre 2011

Resoconto del seminario internazionale organizzato da Ricardo Pulido all’Università Alberto Urtado di Santiago del Cile, facoltà di Psicologia.

Di Catalina Segú Jensen

Martedì 13 e mercoledì 14 dicembre 2011 ho avuto il privilegio di assistere al Seminario Internazionale tenutosi alla Facoltà di Psicologia dell’Università Alberto Hurtado, dal titolo Alle radici dell’esperienza cosciente. Fra fenomenologia, scienza e meditazione, nel quale abbiamo ascoltato esposizioni tenute dal francese Michel Bitbol e gli italiani Franco Bertossa e Roberto Ferrari, riunitisi principalmente intorno al lavoro di Francisco Varela. I relatori hanno condiviso la loro esperienza, conoscenza e visione della scienza e della coscienza, in un dialogo incentrato sullo scambio tra le tradizioni filosofiche occidentali e orientali, fra la prospettiva della fenomenologia e la meditazione.

Vorrei condividere con voi un breve riassunto che ho fatto a partire dalla mia (elementare) comprensione di parte di ciò di cui si è parlato.

Il seminario è stato aperto dal biologo Roberto Ferrari che ha parlato del percorso di Francisco Varela, che a partire da una base scientifica è giunto allo studio dell’atto percettivo e della meditazione.

Riguardo alla meditazione, Varela identifica tre momenti dell’esperienza meditativa che si completano dinamicamente. Queste tre fasi sono la sospensione, il cambio di direzione e il lasciare cadere. La sospensione consiste in un processo di acquietamento, rasserenamento, un insegnare alla mente ad ascoltare. Il cambio di direzione è un atto introspettivo, il passaggio dal contenuto della coscienza al fatto di essere coscienti. Il lasciare cadere è un momento di accettazione che le cose siano come sono, di distacco, di intuizione.

Al termine della sua esposizione, Ferrari riporta le parole di Varela che, a partire dalla propria esperienza diretta in cui ha fronteggiato la malattia e la morte, afferma che la nostra esperienza è fragile e instabile, ma che se fossimo solidi non potremmo apprendere, non potremmo trasformarci. Varela dice che una vita saggia ed etica non è altro che il viverci a partire dal lasciare cadere, e a partire dall’approfondimento della dimensione del mistero.

Più tardi, Michel Bitbol ha tenuto una conferenza molto interessante dal titolo Limiti della conoscenza discorsivo-transitiva, che è consistita nell’esposizione di cinque argomenti che mostrano il limite della scienza o della conoscenza scientifica.

Ciò che permette di vedere con chiarezza il punto cieco della scienza è la nozione di conoscenza transitiva su cui si fonda. Se osserviamo la grammatica della nostra lingua, vediamo che un verbo transitivo necessita di un oggetto a cui dirigersi perché la sua enunciazione abbia significato. Per esempio il verbo fare ha bisogno di un complemento, non posso dire semplicemente “sto facendo”, ma è sempre “sto facendo qualcosa”. Allo stesso modo, nella scienza la conoscenza si acquisisce come oggetto, si rivolge all’incontro con qualcosa di oggettivo, e Bitbol sottolinea che questo è il maggiore problema. L’oggettivazione del mondo implica che collochiamo noi stessi, conoscitori del mondo, nel ruolo di spettatori che non appartengono al mondo. Escludiamo la nostra esperienza cosciente, ci dimentichiamo di noi stessi per poter creare un mondo oggettivo e così non vediamo la finestra dalla quale si guarda.

Bitbol mette in luce  la possibilità di una conoscenza non transitiva, che non necessita di un oggetto ma si identifica col suo stesso dispiegarsi. È una conoscenza che conosce se stessa. Questa conoscenza consiste in un ritorno all’esperienza cosciente, alla finestra dalla quale stiamo guardando, ai mezzi dai quali stiamo studiando. Così, ad esempio, non è rilevante lo studio del sangue, ma l’esperienza di stare studiando il sangue.

Bitbol sottolinea che l’obiettivo della scienza, che è quello di rivelare il mondo in quanto tale, o comprenderlo nella sua totalità, è un sogno impossibile, dovuto ai limiti della conoscenza transitiva.

Il primo limite ha a che vedere con la nozione di complessità: “Il mondo è troppo complesso per poter essere compreso”. E cos’è la comprensione? Etimologicamente, la radice del verbo comprendere è in relazione col termine unione. A partire da questa relazione, Bitbol descrive il comprendere come l’atto di unire gli eventi e costruire relazioni sulla base di principi unificatori. Il problema è di natura logica: la complessità non si può comprendere a partire da “principi unificatori” che sono necessariamente più semplici della complessità stessa. Il compreso non è il reale: è il reale per noi, ma siamo capaci di dimostrarlo? Ciò che viene compreso e diventa il reale per noi è sempre a livello di ipotesi. Andando più a fondo, non potremmo dimostrare la complessità stessa.

Il secondo limite sembra dovuto alla prossimità del reale: non abbiamo la distanza sufficiente per vederlo; come soggetti non ci distinguiamo dell’esperienza, vi siamo completamente immersi. Non possiamo separare il mondo esplorato dai mezzi di esplorazione, ovvero: non possiamo separare l’oggetto percepito dall’esperienza di percepirlo, perciò non possiamo descrivere l’oggetto finché siamo eccessivamente implicati nello stesso. La sola cosa che resta alla scienza in questa direzione è formulare predizioni probabilistiche dell’oggetto.

Il terzo limite risiede nel metodo scientifico, che intraprende indagini in funzione di un progetto teorico su invarianti: attraverso l’indagine si cerca di ricavare invariabili che rappresentino fedelmente la realtà, che non siano condizionate da alcun contesto o momento specifico dell’esperienza, ma che siano appunto leggi invariabili. Si pensa che queste leggi siano la natura stessa. Il problema consiste nel fatto che la conoscenza scientifica non può essere sganciata dalle operazioni che compie per acquisire questa conoscenza, quindi ogni “invariabile” che trovi sarà, necessariamente, soggetta al mezzo attraverso il quale è stata trovata. Chiaramente, se è soggetta a qualcosa, smette di essere invariabile.

Il quarto limite è molto semplice: consiste nel fatto che il linguaggio non può essere diviso in due: uno che descrive ciò che è reale e uno che non lo fa. Viviamo nel tentativo di stabilire una corrispondenza fra la teoria e qualcosa che non possiamo descrivere senza la teoria.

Il quinto e ultimo argomento si avvicina alla metafisica: il reale in sé va oltre la nozione di determinazione. Una determinazione presuppone una negazione, una restrizione, una contrapposizione, e pertanto mai potrò nominare il reale a partire da essa. Il reale si contrappone solo al niente, a qualcosa che non si può nominare, perciò nascono le descrizioni della realtà come l’assolutamente ineffabile o il tutto impenetrabile. Poiché la comprensione è sempre un atto di delimitazione, ciò che ci permette di avvicinarci alla realtà è la domanda incessante, l’interrogazione perenne, il dubbio. È attraverso la domanda che possiamo uscire dall’idea fissa, e transitiva, che abbiamo della realtà che pensiamo di comprendere.

Dopodiché, Franco Bertossa ci propone un avvicinamento esperienziale, guidandoci, all’inizio, a divenire coscienti non di ciò che gli occhi vedono, ma di ciò che vede gli occhi. Ciò che sa e che sente che gli occhi sono lì, come se ci fosse un sesto senso capace di vedere ciò che nel corpo guarda. O no? Allora sì. Per Bertossa lo sguardo interrogante, il dubbio, è ciò che ci permette di affermare la certezza: sono o non sono? Quindi sono.

Descrive quattro momenti nei quali la coscienza transita in modo circolare, come una ruota. Il primo momento è quello dello stato di apertura. È a partire da questo stato di apertura, di non comprensione, di non risposta, di mistero, che possiamo accorgerci (!). L’accorgersi implica sapere qualcosa che prima era sconosciuto, e ciò si accompagna a un’emozione di sorpresa, di scoperta. Quando ciò accade, viene il momento della domanda, alla quale segue la risposta (!!). A partire dalla risposta e, fra l’altro, a causa della fragilità delle risposte che ci diamo, si apre nuovamente uno stato di apertura a cui segue la costante ripetizione del ciclo. Bertossa dice che la meditazione zen si incentra soprattutto sul momento dell’apertura, l’artista si sofferma sull’accorgersi, il filosofo, per lo più, sulla domanda, e il resto degli esseri umani, condizionati da un maggior grado di attaccamento e pregiudizi, sulla risposta.

Siamo mossi da un bisogno di sapere, come se l’ignoto costantemente chiedesse di essere rischiarato, abbiamo bisogno di capire la realtà, non siamo capaci di abitarci nel mistero.

Il dubbio contempla solo due possibilità: è o non è. Il dubbio mette in crisi la transitività. La transitività normalizza, trattiene, per avere nell’oggetto qualcosa di manipolabile. Attraverso il dubbio ciò che è fissato come supposta comprensione si rivela non trattenibile, ciò che Bertossa chiama “monstruum”, evento che è al di là della nostra capacità di comprenderlo. Ogni volta che incontriamo il “monstruum”, l’incapacità di comprendere, di fissare una risposta, nasce ansietà, inquietudine, una necessità ontologica di spegnerlo o neutralizzarlo; di fronte al non sapere di attiva la tendenza transitiva o predicativa, che spegne il mostro, e facciamo domande che vanno verso un’altra oggettivazione di ciò che è un mistero, per costruire una conoscenza fissa e poter fuggire dall’ignoto. Come funziona? Come si comporta? A che serve? Vi è però un altro genere di domande che non neutralizzano il monstruum ma lo amplificano. Qual è il senso? Cosa sento quando sento?

Il dubbio mette in gioco essere e niente. L’essere si contrappone solo al niente, implica una condizione senza radici, un essere gettati nell’esistenza, poiché siamo qualcosa di sconosciuto, che è un mistero. Bertossa dice che la Prima Nobile Verità enunciata dal Buddha riguarda proprio questo: siamo gettati nel fatto d’essere e la nostra sofferenza risiede non nel fatto di essere infondati ma nel nostro giudizio su questa condizione. L’essere è ciò che differisce da niente, è un mostro, un mistero, un miracolo, un miracolo senza Dio. Accade senza fondamento. Di fronte alla domanda sull’essere, il fatto che il mondo sia è il mistico.

Una persona chiede a Franco Bertossa cos’è l’illuminazione, e lui risponde che è uno stato di stranimento costante, tutto è strano perché impossibile, tutto ciò che esiste brilla di miracolo, miracolo perché non ha fondamento, però accade.

Infine condivido con voi dei racconti dei relatori (non totalmente fedeli all’originale, solo ciò che ne ricordo!) che mi hanno affascinata.

Franco Bertossa racconta che sua figlia, all’età di cinque anni, gli chiede: “Papà, che significa Buddha?”, lui la guarda e le dice: “Vuoi davvero saperlo?”, “Sì”, risponde la bambina. Allora lui la fa sedere, chiude la porta, spegne la luce e le dice di chiudere gli occhi. Poi le chiede: “Cosa vedi?”, la bambina dice: “Buio”, allora lui le chiede: “Chi sta vedendo il buio?”. La bambina rimane un attimo in silenzio, con gli occhi chiusi, poi dice: “Ah, ho capito!”, ed esce dalla stanza.

Roberto Ferrari racconta che quando stava per partire per il Cile sua figlia Sofia di undici anni gli chiede perché andasse in Cile. Lui le dice che ci va per incontrarsi con alcune persone per parlare della mente. Lei gli dice: “Papà, io so cos’è la mente: è una bolla che fluttua in uno spazio buio, che si muove e a volte è sul punto di esplodere. Quando è sul punto di esplodere appaiono colori di arcobaleno in lei”. Lui le chiede: “Tu sei quella mente?”, lei risponde: “No, io sono il buio attorno ad essa”.

Ferrari ci ha raccontato anche che ad un convegno di neuroscienze una persona del pubblico ha espresso la sua perplessità per il fatto che la sua coscienza non sia che un evento neurologico, dicendo: “Mi perplime profondamente il fatto che tutto ciò che sperimentiamo non sia in ultimo che un processo cerebrale…”. E un neuroscienziato gli ha risposto: “Ma non è meraviglioso il fatto che tutto ciò accada nel nostro cervello?”.  “Sì, il problema è che, in base a quello che avete detto, anche la sensazione di meraviglia sta accadendo solo nel cervello…”.

Sono stati giorni moto stimolanti, mi ha fatto molto piacere vedere che questi spazi relativamente nuovi di pensiero ed esperienza, che pongono un ponte fra la conoscenza occidentale e orientale, si aprano in Cile. È stato un privilegio assistere alle conferenze di questi uomini che hanno testimoniato una esperienza autentica e una amorevole motivazione a volerla condividere. Spero che continueremo a sforzarci affinché questi spazi continuino ad aprirsi in modo rispettoso e responsabile.

Mille grazie a tutti coloro che hanno partecipato e che hanno organizzato questo evento.

A cura di Alessandra Vitale