Interdipendenza nelle isole oceaniche ed esperienza della finitezza*

Leggi il sesto capitolo: come riusciamo a “distrarci” dal problema ambientale

7. Campi di protezione reciproca: il legame di vulnerabilità

 

Dobbiamo sviluppare la nostra capacità
di sentire le nostre emozioni e quelle degli altri
di percepire la bellezza del mondo,
e di pensare nel modo giusto.

Pierre Lévi[1]

Nei capitoli precedenti abbiamo introdotto l’esperienza di sentire la finitezza della nostra condizione umana ed ecologica come la base della possibilità di svuotare le rappresentazioni del mondo e di noi stessi, e di aprirci all’instabilità dei fenomeni e alla consapevolezza del pericolo di distruzione che corre tutto il pianeta.

Questo sentire è certamente un’esperienza in prima persona, localizzata solo nel cuore e nelle viscere del singolo. Ma è vivo e pulsante anche negli altri viventi, come un fluido che ci permea e ci mette in sintonia. Percepiamo di vivere in un campo magnetico fatto di esperienze intrecciate, un campo di sentire condiviso.

L’empatia è proprio la facoltà di connettersi con questo campo, rendendo presente in noi l’esperienza degli altri: non solo la materia, le fisiologie e le ecologie sono co-emergenti, ma anche le fenomenologie dipendono le une dalle altre come indicano gli studi sui neuroni specchio[i]. E ciò che sentiamo è un comune destino, non tanto di “armonia universale”, quanto piuttosto relativo al mistero della comune finitezza e fragilità. La filosofa americana Cora Diamond parla di un “legame di vulnerabilità” che ci accomuna con tutti i viventi[ii].

Il fatto straordinario – e del quale per chi scrive non è facile dare giustificazione – è che questo legame porta dentro di sé vincoli morali originari: nasce tenerezza e un senso di protezione per gli altri “gettati” siano essi genitori, figli, animali o ecosistemi. I contenuti specifici restano indeterminati e prendono le forme che conferisce loro il terreno culturale e le diverse civiltà, ma da questo campo di sentire condiviso sorge in modo spontaneo l’impulso a vigilare e sostenere reciprocamente.

Se non la anestetizziamo, l’empatia ci fa percepire l’interdipendenza nella carne. È un senso di dipendenza particolarmente intenso nella specie umana, i cui cuccioli dipendono totalmente da altri per 7-8 anni (un decimo della vita!)[iii]. Per noi è immediato come genitori e figli provare empatia e prenderci cura dei più deboli, dei più smarriti. Perché nella loro dipendenza riconosciamo la nostra dipendenza dagli altri umani.

Le specie dipendono le une dalle altre e si scambiano una spontanea protezione. Secondo Peter Raven, uno dei maggiori botanici viventi, due piante offrono oggi i principi attivi più promettenti come farmaci contro il cancro: il tasso del Pacifico (Taxus brevifolia), e la vinca (Catharanthus roseus) che dà già ottimi risultati contro la leucemia infantile[iv]. Non sono forse ottime ragioni per proteggere a nostra volta queste e altre specie viventi, e i loro ecosistemi?

Per concludere, l’interdipendenza “sentita” non è quindi una legge morale “in più” da imparare, ma un dato costitutivo dell’esistenza situata. Il percorso di apprendimento sarà piuttosto relativo a come manifestarla e testimoniare questa “moralità intrinseca” nella nostra cultura.

Per partire, possiamo imparare ad ascoltare e indagare, con curiosità, il senso di finitezza; a vivere senza inutili paure l’instabilità delle rappresentazioni del mondo, senza doverci buttare alla ricerca di sollievi (consumo, controllo, dominio, sfruttamento) e sicurezze irrealizzabili.

Possiamo connetterci in un campo di empatia, offrirci reciproca protezione, perché è evidente che il riscaldamento globale, la carenza di acqua, i migranti ambientali, i parassiti e le malattie tropicali non si fermeranno davanti alla recinzione della nostra villetta: soffriremo e gioiremo sempre insieme.

Questa esperienza circolare, consapevole e sentita, è quindi pervasa di un aspetto etico. Nei termini dell’insegnamento di Franco Bertossa, essa è un essere in rapporto il più possibile onesto con il fatto di essere[v]. Il Maestro Bertossa ha approfondito le vie meditative a indirizzo buddhista per esplorare e approfondire questa dimensione etica relativa al rapporto con l’esistenza, e insegna a restare in rapporto con il sapore del  “senza radici” e “senza definizioni”, evitando che la paura lo trasformi in difesa di sé e fame di profitto.

Questo atteggiamento potrebbe dare un nuovo significato all’ecologia e far nascere la creatività e l’innovazione oggi necessaria. Tutti abbiamo questa energia instabile della finitezza: invece di anestetizzarla con individualismo o visioni metafisiche, possiamo incanalarla in progetti che manifestino l’etica naturale che ci pervade. Ad esempio progetti di coltivazione, di commercio, di gastronomia, di comunicazione, di espressione artistica, di ricerca scientifica e filosofica, di cura, di educazione… non ci sono limiti alle dimensioni in cui muoversi, perché la materia principale del sentire – senso di finitezza e percezione del limite – è distribuito ovunque, e così pure il nostro inevitabile agire.  Anche nel campo della relazione con la morte[vi], così problematica nel nostro mondo, si può manifestare questa etica naturale.

Un ultimo importante aspetto: sarebbe un errore pensare che la consapevolezza dell’interdipendenza possa risolvere tutti i nostri problemi ecologici. Questo perché la co-produzione (tra terreno e foresta; tra popolazione ed ecosistema; tra senso di finitezza soggettivo e mondi-identità oggettivi) non prevede due enti, uno che sia il produttore e l’altro che sia il prodotto, e non prevede di ottenere un prodotto sempre migliore. Piuttosto è un flusso circolare senza enti stabili e senza inizio. Se la co-produzione è senza inizio, è anche senza fine: essa va da sé, e non necessariamente verso un miglioramento, o un ritorno al “giusto rapporto tra uomo e natura”.

Pur cercando progetti sostenibili e lottando per il meglio – e questa lotta non è un merito, è un dato di fatto cui siamo sottoposti – non ci facciamo illusioni e non pretendiamo soddisfazioni. Forse più che puntare a cambiare il mondo possiamo vederlo come un luogo di consapevolezza, da riconoscere, amare, proteggere.

Possiamo vederlo come un luogo dove imparare che dal senso di finitezza, e dal significato di infondatezza, nasce la spinta alla emersione dei fenomeni (predazione, consumo, disastri ecologici, ma anche empatia e protezione) e alla loro dissoluzione. Come insegna il Buddhismo:

“Ma cosa insegna il tuo maestro Buddha? Cosa proclama?”
“Io sono un novizio, amico mio, solo recentemente ho intrapreso questa dottrina e disciplina. Non posso spiegarti la dottrina in dettaglio, ma posso, in breve, riferirti l’essenza.”
Quindi Sariputta l’asceta errante così parlò al Ven. Assaji: Parla poco o molto, ma dimmi solo l’essenza. L’essenza voglio. A che mi serve la retorica?
Quindi il Ven. Assaji espose il Dhamma a Sariputta l’asceta errante: Tutti i fenomeni sorgono da una causa: hanno un’origine ed una cessazione. Tale è l’insegnamento del Tathagata, il Sommo Asceta[vii].

E possiamo vedere il mondo come un luogo dove imparare – o almeno sperare di esserne all’altezza – che c’è solo fenomeno, non c’è una realtà “altra” e migliore da raggiungere.

Resta la domanda su quale sia la verità sull’esistenza di tutti i fenomeni, e sulla relazione con essa.

 

Leggi il capitolo “Ecologia e finitezza”/1: perchè facciamo scelte eco-ambientali rovinose?

Leggi il capitolo “Ecologia e finitezza”/2: è possibile coniugare ecologia ed economia?

Leggi il capitolo “Ecologia e finitezza”/3: esiste davvero l’essenza di un fenomeno vivente?

Leggi il capitolo “Ecologia e finitezza”/4: perchè non crediamo ai dati sulla crisi ambientale?

Leggi il capitolo “Ecologia e finitezza”/5: qual è il legame tra la “fine” dell’ambiente e la nostra? 

Leggi il capitolo “Ecologia e finitezza”/6: come riusciamo a “distrarci” dal problema ambientale? 

 


[1] P. Lévi, Il fuoco liberatore, Ed. Luca Sossella, Roma, 2000.

[i] Rizzolatti, Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Cortina, 2006. I neuroni specchio sono cellule neuromotorie che si attivano sia per fare un movimento, sia quando questo movimento lo si vede eseguito da un altro. L’esperienza, la fenomenologia di un altro vivente è presente nel mio percepirla.

[ii] C. Diamond, Eating meat and eating people, Philosophy 53 (206): 465-479, 1978, p.194

[iii] Non è detto che questa sia la “causa evolutiva” della nostra elevata dipendenza dagli altri. Restando fedeli alla causalità circolare e senza origine della co-produzione, dobbiamo riconoscere che è anche grazie alla sua elevata capacità di percepire la finitezza che la nostra specie ha sentito la necessità di prolungare il periodo di cure parentali e di evolvere capacitò di apprendimento strordinarie se comparate a quelle di altre specie.

[iv] P. Raven, Sull’arca facciamo come Noè e l’uomo avrà futuro, intervista di Alix Van Buren, Repubblica, 5 giugno 2009.

[v] F. Bertossa, La meditazione: alle origini del domandare-8, Il mostrarsi del mondo. Dal soggetto alla Differenza ontologica e alla Vacuità, 2010, sito www.asia.it.

[vi] R. Ferrari, La morte estranea. Come rapportarsi con il limite?, 2009, sito www.asia.it.

[vii] Mahavagga 1.23.1-10: Upatissa-pasine – La domanda di Upatissa (Sariputta). Traduzione in Inglese dalla versione Pâli 
di 
Thanissaro Bhikkhu 
Fonte: That the Drue Dhamma Might Last a Long Time: readings Selected by King asoka – Thanissaro Bhikkhu. Tradotto in italiano da Enzo Alfano.