Il presente scritto trae profonda ispirazione da contenuti e riferimenti storico-filosofici presenti negli scritti e negli insegnamenti orali del M.° Franco Bertossa, del quale l’Autore è allievo diretto dal 2003.

 

1 – DELLA PRESENZA DELL’ESPERIENZA

Dopo il crisantemo
oltre la rapa lunga
nulla. 
[1]

Il mondo di rugiada
è il mondo di rugiada.
Eppure… [2]

«Interpretare lo zen come un vangelo della contemplazione è del tutto sbagliato, né è il modo giusto per leggere lo haiku di Bashō, ben lontano dall’essere una esaltazione della tranquillità. Si commette in questo modo un duplice errore […] Innanzitutto bisogna sapere che uno haiku non esprime idee, ma propone immagini che riflettono intuizioni. Tali immagini non sono però rappresentazioni figurative utilizzate dalla mente poetica: rimandano piuttosto a intuizioni originali, anzi sono intuizioni esse stesse.» [3]

Leggo le suddette righe sull’haiku di D.T Suzuki, circa un anno dopo il mio precedente articolo Haiku tra tradizione ed originarietà [4], in cui scrivevo: «La forma che l’haiku assume è assolutamente consona al significato dell’esperienza (o intuizione direbbe Suzuki) di cui si fa voce anzi di più, è esso stesso esperienza in atto, al contempo eco e ri-attuazione dell’esperienza stessa», trovandovi precisa aderenza. 

Lungi dal volermi paragonare all’uomo, al praticante e allo studioso che forse più di ogni altro ha contribuito a far conoscere l’essenza dello Zen in Occidente, provo per quanto possibile a riportare il sentimento e i significati di un’esperienza di fondo, trasversalmente umana, la quale, almeno per barlumi, riconosco essere la stessa. Parlo del risveglio al mistero dell’esistenza dei fenomeni nella loro vacuità e impermanenza, un’esperienza che meriterebbe un approfondimento a parte – che qui cito solo in riferimento allo haiku – e che per sua stessa natura si manifesta improvvisamente, rapidamente ed intensamente, caratteri che ritroviamo essenzialmente trasposti nella nota forma poetica di origine giapponese. Un’esperienza della quale si possono riconoscere i prodromi nella meraviglia nei bambini, talvolta nella crisi in età adolescenziale e, sempre più spesso, negli attacchi di panico degli adulti [5].

Ho sentito l’esigenza di scrivere questo articolo tenendo sempre a cuore/mente che tali significati possono maturare solo a seguito di questa precisa esperienza e mai possono essere estrapolati dal puro esercizio letterario, e che, di conseguenza, lo haiku non può considerarsi una forma poetica tale quale quella che in Occidente siamo spesso consoni considerare la poesia. Ne consegue che ciò non solamente ci rende oscuro lo haiku, ma pure ci induce, oggi come ieri, a credere ancora nelle distinzioni tra tradizione e contemporaneità, umanizzazione e naturalizzazione, realtà oggettiva e realtà verosimile, tutti aspetti di cui lo haiku, nella sua essenza, non s’è mai occupato. Lo haiku, infatti, riflette quella Realtà che non solamente contempla l’esperienza di unificazione spirituale di tutte le cose con e nello spirito religioso [6], bensì – più radicalmente – esso disvela che tale unità, nel proprio stesso esistere, è priva di essenza intrinseca ed impermanente: Śūnyatā [7] e Anitya [8], vacuità e co-produzione condizionata, direbbe il Buddhismo, il nienteggiare dell’ente nella sua interezza, direbbe Heiddeger [9] in quel mirabile sūtra occidentale che è Che cos’è metafisica?

Qui [10] la rana, Bashō, lo stagno e noi stessi, rimaniamo sospesi, per così dire, nella visione della non-essenza intrinseca dei fenomeni, cogliendoci improvvisamente slegati dai nessi narranti della logica discorsiva, come spesso accade ai bambini nelle esperienze di rapimento estatico o in taluni eventi scioccanti ed improvvisi. Esemplare, a tal riguardo, il lavoro svolto dal Conte Karl von Dürckheim (1896-1988), forse uno dei primi occidentali in assoluto a inquadrare lucidamente le esperienze di risveglio spontaneo, sottraendole al campo della psicopatologia psichiatrica [11]. E cosa rimane dunque, ci chiederemo, dell’ente così rivelato talvolta nella sua cruda interezza? Non un utilizzo, non la sua narrabilità, seppure possiamo ancora riconoscere che lo stagno “stagneggia” così come la rana “raneggia”. Questo è il non-tempo in cui le montagne per un attimo sono non-montagne: non dicono altro di sé, sebbene non divengano altro dalla montagna, mostrando in uno col tutto l’innegabilità del nostro stesso esistere: che siamo e non piuttosto niente.

2 – UN HAIKU, UNA VIA

Nel niente c’è una via
che conduce lontano
dalla polvere del mondo. [12]

«Lo haiku giapponese non ha bisogno di essere lungo, elaborato e intellettuale [13]: rifugge una costruzione fondata su concetti o idee. Se ricorre alle idee, il suo legame diretto con l’Inconscio [14] viene tarpato, guastato, interrotto: la sua vitalità rigenerante [15] si perde per sempre. Lo haiku cerca pertanto di presentare le immagini più appropriate per richiamare nel modo più vivido possibile l’intuizione originaria.» [16]

Vorrei qui indicare ancora una volta come lo haiku, al pari dell’ikebana, il sumi-e, lo shodō, il chano no yu ed il bushidō [17], trasversalmente a uomini e culture di appartenenza, si fondi su quell’esperienza comune di risveglio o «illuminazione momentanea nella quale riusciamo a cogliere l’esistenza delle cose (nella loro vacuità)». [18] In quanto tali, queste arti non possono né debbono prescindere dalla pratica, sia essa meramente tecnica (l’esercizio) che visceralmente incarnata (l’indagine domandante), per la schiusura di tale momento intuitivo. [19] Separare i due aspetti privilegiando il mero esercizio letterario – soprattutto in Occidente, dove la Via non passa più culturalmente per il corpo – non può che precludere, nella maggior parte dei casi, la schiusura di tale esperienza spirituale.

Da praticante occidentale di arti marziali, posso comprendere la difficoltà a reintegrare quel rapporto tra corpo e mente unificati che è l’essenza stessa delle discipline estremo orientali. Un Giapponese si muove e pensa, culturalmente, a partire dal tanden [20] ed è quindi comprensibile che lo haiku, al di fuor di tale contesto culturale di riferimento, rischi costantemente una ricaduta dall’ambito metafisico a quello psichico della speculazione logico-discorsiva e una confusione sull’esperienza stessa della visione. Sarà un caso che la schiusura del nienteggiamento sia stata individuata da Heiddeger nell’Angst? [21] Quell’angoscia esistenziale incarnata che passa per il corpo e che a Est del mondo, da tremila anni, si indaga lungo una Via? [22] Alla luce della pratica sotto la guida del M.° Bertossa, il cui insegnamento riconosce e propone il significato della vacuità orientale come sovrapponibile a quello dell’infondatezza heideggeriana, sono persuaso del fatto che quello stesso duhkha [23], il patimento che spinse il Buddha, Dōgen e Hui Neng a meditare sul e nel corpo, sia un’intuizione comune alla spiritualità e alla filosofia occidentali e orientali, smarrita con la Gnosi, la filocalía e gli ultimi mistici di Monte Athos [24], e che oggi prova ad essere recuperata, perlopiù banalmente, nel calderone delle molteplici proposte new age.

Tornando allo haiku, dunque, dovremmo chiederci: quale Via per un haijin trasversale non necessariamente giapponese? E soprattutto come è da intendersi la Via in un contesto socio-culturale che non la prevede? Manifestarsi al mondo a partire da una Via di pratica, la quale peraltro non contempli una indagine sul e nel corpo è forse la più ardua delle sfide al quale non solo un haijin deve sottoporsi ma tutti coloro che aspirano realizzare uno sguardo originario, fermo, consapevole e sveglio, innanzi alla tabula rasa del post-nihilismo nella “era di mezzo” del dominio della tecnica. Un haijin o un praticante trasversale non solo dovrebbe ritenere imprescindibile l’adottare gli strumenti del proprio contesto culturale – primo tra tutti la capacità di discriminazione logico-discorsiva ereditata dai Greci, almeno fino al limite del suo utilizzo, come sostiene Wittgenstein –, ma anche porli in stretta concomitanza con le vie del corpo orientali, di modo da relazionare entrambi a quella esperienza e a quella significazione che ci rendono fratelli nell’umana gettatezza dell’esistenza. E forse, quel male dell’anima che il Buddha nominò duhkha e che oggi pare piagare pandemicamente e senza una voce le nuove generazioni, potrà essere incanalato in quella Via che conduce via dalla polvere del mondo.

Ma prima d’ogni ulteriore passo, sarebbe bene spazzare un po’ di quella polvere con la quale l’essere, nel suo lila [25], ha ricoperto una Via tutta da riscoprire.

3 – UN HAIJIN TRASVERSALE

Ho chiamato Han Shan
nella nebbia.
Silenzio, ha risposto quella. [25]

Lo haiku è la forma poetica più naturale, appropriata e vitale per il genio giapponese che desidera manifestare i propri impulsi artistici: forse per questa ragione ci vuole la mente di un giapponese per apprezzare fino in fondo il valore di uno haiku. È probabile che i critici europei – il cui sentire non concorda con quello giapponese, essendo nati e cresciuti in una diversa atmosfera e tradizione culturale – non riescano a entrare nello spirito di un haiku. Per comprendere lo spirito dello zen e quindi di un haiku, è essenziale una conoscenza profonda della psicologia e del contesto giapponesi. [26]

Se quindi, apparentemente, nello haiku pare essere esclusa la priorità del corpo non si sta considerando, come ben sostiene Suzuki, il contesto di riferimento. Non v’è dubbio, come già accennato sopra, che Giappone è cultura del corpo a partire dal seiza [27] adottato sin da bambini, all’inchino rituale, alla consapevolezza ed esperienza dal tanden [28], alle arti marziali insegnate dalla più tenera infanzia, dal rapporto col suolo nel futon e nel tatami e da quello radicale con gli elementi della natura. Poi ancora il Kabuki, il controllo assoluto dello spazio nel teatro Nō e l’estrema fisicità del Butoh. [29]

Tuttavia metterò a repentaglio il mio karma – e che il Signore Buddha abbia compassione se non sono del tutto in accordo col venerabile Suzuki, circa la questione se l’haiku sia intelligibile solo in un contesto giapponese da un autore o lettore giapponese – poiché essenzialmente, ossia prima ed al di là del contesto culturale, lo haiku riflette quella visione di intuizione cosmica che il vuoto ci impone e che il Giappone ha saputo celebrare con sacralità, significazione, estetica ritualizzata, sebbene essa concerna trasversalmente tutti gli esseri umani avendo nulla a che fare con la “religione dello zen”. Nello haiku contemporaneo occidentale lo shin 心 pare, come già sostenuto, minato dalla mancanza di una pratica incarnata, lì dove i fraintendimenti nascono da:

  • credere che lo haijin sia colui che “prende visione”, invece di essere egli stesso incluso nella Visione, la quale implica tutt’altro che la serena e tranquilla contemplazione silente che gli si vuole attribuire, quanto piuttosto è la eco consapevole di tale abisso a colmare il cuore di commozione e devota gratitudine per quel “Miracolo di nessun Dio di tutte le cose”; [30]
  • un costante rischio di psicologizzazione, effetto diretto della con-fusa visione.

L’assenza di una pratica sul e nel corpo, laboratorio di indagine per l’intuizione spirituale, preclude, generalmente, l’esperienza della visione non duale, favorendo un ricadimento nell’ambito della speculazione intellettuale. Essendo incluso in tale visione altresì, lo haijin, scrittore di haiku, viene rivelato come ferita aperta (d)al mistero dell’essere, come contemplatore silente, come un traduttore in eterna attesa che il petalo cada, che la foglia si posi, che il fiume scorra tra gli argini della vita, senza mai cadere, posarsi, sgorgare del tutto. Tale è dunque, il senso del suo riflettere lo haiku in parole.

Ma come orientarsi oggi, nel panorama livellato e livellante del post-nihilismo? A quale visione trasversale fare riferimento?

4 – DELLA PRESENZA DELL’ASSENZA

Oh Shariputra,
l
a forma non è altro che vuoto,
il vuoto non è altro che forma;
ciò che è forma è vuoto,
ciò che è vuoto è forma. [31]

Magnifico! Magnifico!
Nessuno conosce il piano finale.
Il letto dell’oceano è in fiamme
Dal nulla balzano fuori agnelli di legno. [32]

Detto ciò, il processo di “democratizzazione” e livellamento orizzontale al quale l’haiku, come pressoché tutte le forme d’arte sottostanno nell’era del post nihilismo, finisce per provocarne un impoverimento tale da non renderne più riconoscibile e quindi valorizzabile, l’essenza. Non si tratta di stabilire quale sia un buon haiku e quale no, né tantomeno disquisire sulla sua purezza tale o presunta. Ad oggi, dove spesso l’educazione alla tradizione finisce per coincidere con le tradizionali regole letterarie, e dove la semplicità e la mancanza di elaborazioni intellettuali viene malamente scambiata per faciloneria – un bambino può scrivere meravigliosi haiku, ma il Cuore bambino di Ryōkan [33], diciamolo pure, è ben altra cosa! – ebbene il criterio di discernimento nello haiku è a mio avviso ben più radicale e di certo non può esclusivamente situarsi, come già accennato, nelle differenza tra verosimiglianza o presunta realtà oggettiva, naturalismo o umanismo, intimismo o sentire cosmico o nelle estenuanti disquisizioni sugli aspetti formali, tutte questioni che di volta in volta possono fungere da sfumature armoniche sulla eco di ritorno della Visione, nei tempi, nei luoghi e nelle culture di ricadimento. Si tratta di vedere e sentire se quella eco ri-torna dal quel niente che nemmeno l’ha generata. Si tratta di cogliere l’haiku e di cogliersi nell’haiku, lì dove non può accadere, sebbene stia accadendo: nella sua assenza.

Poiché l’haiku è quella esperienza di unificazione, vuota nella sua in-essenza e impermanente nella sua non-fondatezza, la quale solo trova piena significazione tra la “eco letteraria” ed appunto, la sua assenza. Lo haiku non immagina e nemmeno ha mai avuto a che fare con realtà oggettiva poiché, appunto, tale realtà fa riferimento è ciò che al di là di ogni immaginazione si svela. Intesa in tal senso questa Realtà è una al contempo con quella dell’immaginazione stessa, internamente vissuta o presuntamente “oggettiva” che sia.

Potremmo affermare quindi, che l’essenza dello haiku, si dia nella sua assenza. Un’assenza di contenuto, poiché nell’unificazione cosmica v’è un tutt’uno col contenitore, ed un’assenza di fondamento del Cosmo stesso nella sua totalità: vacuità e impermanenza. [34] Tuttavia se l’esperienza della Visione precede la sua traduzione in parola, al contempo converremo che quest’ultima non potendo rimanere al di fuori della totalità di tutte le cose è al contempo e la parola e il vuoto a cui essa ri-manda. È così che lo haiku rievoca e riattua, nel suo stesso poetare/mostrare, l’esperienza della visione, lì dove forma e vuoto sono lo stesso. Prima dell’haiku diciamo, viene la visione, prima dell’haiku viene l’esperienza e, per restare in termini di paradossi tetralemmici [35], prima dell’haiku viene l’Haiku.

«Pertanto, se si può notare che il poeta (Bashō) si fa vuoto per accogliere pienamente l’evento oggettivo, si deve notare che, facendo ciò – ossia rendendosi vuoto di intenzioni, di memorie, di attese e di attaccamenti – il poeta rende “vuoti” i propri versi, li trasforma cioè in eventi naturali, li immette nell’ordine della “genuinità della natura delle cose” (zōka no makoto): li rende, in definitiva, equivalenti all’evento che essi descrivono. D’altra parte non è da dimenticare che la capacità (di Bashō) di rendersi vuoto non appartiene a lui in quanto individuo, in quanto persona specifica, ma gli deriva dal fatto che anch’egli, al pari dell’evento, non è che un modo particolare (fūga no makoto) della universale “genuinità della natura delle cose”». [36]

Quella genuinità della natura delle cose che parla della non-dualità e della vacuità dei vasi di Morandi come di questo stesso raggio di primo sole primaverile sulla tastiera del mio computer e le stesse parole che ad esso rimandano.

Sulla tastiera
Raggio di primo sole
È primavera?
[37]

Nello haiku, espressione della visione buddhista di impermanenza e vacuità, non si tratta di eliminare l’io, quanto piuttosto di vederlo essere: la mostrazione dell’io sullo sfondo impossibile della non-creazione, anātman. La forma è il vuoto, l’io e il non-io, il fiore e il non-fiore sono, come recita il Mahaprajñāpāramitā Hrdaya sūtra, lo stesso. Forse che il primo haiku della storia sia proprio quel fiore che il Signore Buddha offrì al sangha e che Mahakasyapa colse con un sorriso? Chi pensa di scorgere un kigo primaverile in ciò si inganna, sebbene la Primavera sbocci ad ogni Risveglio.

Riassumendo ancora una volta, lo haiku è quella peculiare forma poetica che riattua e rievoca l’esperienza del mistero dell’essere, vuoto ed impermanente, rispecchiandone i caratteri specifici di subitaneità, intensità e brevità. Il kireji è, in tal senso, da intendersi come l’espressione della “cesura” tra il piano dell’essere ed il mondo della realtà quotidiana, narrativa, storico/temporale. La metrica ferrea, lungi dall’essere esclusivamente una pratica (auto)disciplinatoria in senso stretto, riattua e rievoca il senso della gettatezza esistenziale, della costrizione all’esistere del Tutto in quanto Ab Solutum, sciolto da cause e condizioni originanti. Il fiore proprio in quanto tale e un non-fiore? Perché mai? Giusta risposta, direbbe Joshū!

La vita è come la troviamo
la morte pure.
Una poesia di congedo?

Perché insistere? [38]

Per quanto concerne il kigo vorrei qui riassumere brevemente quel che ho già accennato altrove e più volte: la sua (presunta) imprescindibilità nell’haiku tradizionale non dovrebbe poter condizionare l’haijin trasversale a discapito di quegli elementi davvero indispensabili per l’haiku. Come giustamente scrive Suzuki, il rapporto di un giapponese con gli elementi della natura è un fattore peculiarmente culturale e tentare di scimmiottarlo, al pari di altri aspetti specifici, fa spesso di noi occidentali delle macchiette poco riuscite dagli occhi a mandorla [39]. Sarebbe meglio piuttosto per noi preparare il terreno idoneo ad accogliere la Visione ustionante di vacuità ed impermanenza, nell’abbandono costante al Richiamo dell’Essere, lungo una Via che contempli un serio e prolungato lavoro sul e nel corpo/mente. Lo zen didattico, letterario, di importazione esotica, di welnessiana attitudine, non può e non potrà mai rendere l’intuizione talvolta gelida, talaltra bollente, persino pacatamente sottile della vacuità. Potrà meglio la vita altresì, saggia e spietata dispensatrice di negazioni, depuratrice di illusioni, sterminatrice di pretese.

E forse la Via per l’haijin trasversale (occidentale o meno che sia) sarà quella di riscoprire quanti, tra i nostri Maestri, hanno saputo tracciare il percorso per la Visione: De Chirico in Piazza Santa Croce a Firenze, Morandi e i suoi vasi, Carlo Scarpa e il Tempio Briòn, Giacometti e il non-volto di suo fratello, John Cage e i suoi non-pianoforti e i suoi “silenzi”, Montale ed i suoi Ossi di seppia, Ungaretti ed i suoi “naufragi”, Pessoa ed il suo nulla, Jack Kerouac è la sua Dorata Eternità [40], Allen Ginsberg, Gary Snyder, ed i loro “risvegli beat”, Walt Whitman ed i suoi “fili d’erba” visti come forse li vide Sen no Rikyū [41], e da qui lasciarsi rilanciare dal campo aperto della contemplazione, coltivarlo fino allo spasmo, penetrare qualsivoglia senso d’unità ed ancora, lasciarsi penetrare.

E in quel calderone ustionante che è il Sacro Dubbio, ritrovare il Senso per la mancanza di senso, ridare un valore alla ricerca del Valore, pensare alla fonte stessa del pensare, lì dove l’haiku ha già da sempre gettato il suo non-seme e nient’altro rimane.

Niente.

Nemmeno un cane privo della natura di Buddha.

di Gianni Placido

NOTE

1 Matsuo Basho, in Sull’haiku, di Yves Bonnfoy O barra O edizioni, 2015, pag. 24
2 Kobayashi Issa, in Haiku Scelti, a cura di Luigi Soletta, La vita felice edizioni, 2008, pag. 75
3 D.T. Suzuki, Lo zen e la cultura giapponese, Adelphi.ed.2014, pag. 201, 202. Corsivo mio.
4 Gianni Placido, Haiku tra tradizione ed originarietà, Creative Commons license.
5 Franco Bertossa, Morire di vuoto, guarire col Vuoto.
6 Reginald Blyth, sulla decadenza dello haiku a seguito della riforma di Masahoka Shiki, in Il grande libro degli haiku, a cura di Irene Starace, Castelvecchi editore, 2007, Pag 14.
7 Sūnyatā, in sanscrito, la vacuità di tutti i fenomeni.
8 La co-produzione condizionata o Praītyasamutpāda, riassume in dodici passi o “anelli” la totalità dell’esperienza fenomenica nella sua impermanenza.
9 Martin Heiddeger, Che cos’è metafisica? Edizione a cura del Centro Studi ASIA, Bologna. Traduzione a cura di Manuela Ritte e Franco Bertossa. «Il nienteggiare non è un avvenimento qualsiasi, ma, in quanto respingente rinvio all’ente nella sua interezza che sta sfuggendo di mano, rivela questo ente nella sua piena, e fino ad ora nascosta, [e]straneità, come l’assolutamente altro – rispetto al niente.»
10 Il “qui” dell’esperienza dello haiku diremmo, e quindi della stessa nostra esperienza.
11 Karl von Dürckheim, in Alan Watts, In my own way: an autobiography 1915-1965, p. 321.
«A great deal of my present work is in helping people who underwent great spiritual crisis during the war. We know, of course, that sometimes, in extreme circumstances, people have a natural satori or spiritual awakening when it appears that all is finished for them–and they accept it. This happened often in the war, and when those who lived through it tried to tell the tale to their friends it was shrugged off as some kind of hallucination, a brief fit of insanity in a desperate situation. When these people come to me, as they often do, I have the happy opportunity of showing them that, for once in their lives, they were truly sane.»
12 Tung Shan (Dongshan Liangjie, 807-869), I cinque gradi dello zen. Terzo grado: L’apparente nel Reale.
13 Ho già avuto modo di esprimere il mio parere circa la forma e la struttura che l’haiku assume nel mio precedente articolo Haiku tra tradizione ed originarietà: «Risulterà quindi evidente considerare fin da subito la poetica dell’haiku non solo come una eco dell’esperienza di risveglio spirituale quanto come l’esperienza stessa in atto, la sua metabolizzazione ed integrazione, lì dove la stessa struttura ha assunto la forma più idonea per rendere il significato del risveglio».
14 Non si tratta qui di subconscio psicanaliticamente inteso, né tantomeno di inconscio collettivo junghiano, quanto di Inconscio Cosmico, la mente o volto originario prima che i nostri genitori ci concepissero, come si direbbe nello Zen.
15 Come da nota 9, la vitalità rigenerante si riferisce alla capacità dello haiku di rimanere in rapporto con quella mente originaria, lì dove la ri-generazione non è da intendersi come momento temporale.
16 D.T. Suzuki, Lo zen e la cultura giapponese. Adelphi edizioni 2014, pag. 204
17 L’arte della disposizione dei fiori, la pittura ad inchiostro, l’arte della calligrafia, la cerimonia del té e la Via del guerriero.
18 Reginald Blyth, in Lo Zen e la cultura giapponese, D.T Suzuki, pag.192. Corsivo mio.
19 Kenshō, termine giapponese che indica una prima intuizione di risveglio alla vacuità dei fenomeni e che solitamente precede il satori, il grande e definitivo risveglio.
20 Koichi Tohei (1920-2011), La coordinazione mente corpo Il ki nella vita quotidiana, Erga edizioni 2016.
Koichi Tohei fu il primo artista marziale a sistematizzare, nell’insegnamento dello Shin Shin Toitsu Aikido o Ki Aikido, i quattro principi dell’unificazione corpo/mente, di cui due mentali: “mantenere il punto” ed “inviare ki” e due fisici, “mantenere il peso sotto” e “rilassarsi completamente”.
21 Martin Heiddeger, Che cos’è metafisica? Edizione a cura del Centro Studi ASIA, Bologna. Traduzione a cura di Manuela Ritte e Franco Bertossa. «Accade nell’esserci dell’uomo una tale disposizione emozionale in cui egli viene portato davanti al niente stesso? Questo accadere è possibile ed anche reale – benché così raramente – solo per attimi nella disposizione fondamentale dell’angoscia (Angst). Con questa angoscia non intendiamo la abbastanza frequente ansietà (Ängstlichkeit), che in fondo pertiene a quel senso di paura che con fin troppa facilità insorge. Angoscia e fondamentalmente diversa da paura. Noi abbiamo sempre paura di questo o di o quell’ente determinato che, in questo o quel determinato riguardo ci minaccia. La paura di…teme anche, ogni volta, per qualcosa di determinato. Siccome è propria della paura questa delimitazione di ciò di cui e per cui proviamo paura, colui che è impaurito ed è pauroso viene trattenuto da ciò in cui si trova. Nella mira a salvarsi da ciò – da questo specifico – egli diventa insicuro in rapporto ad altro, cioè nell’insieme “perde la testa”. L’angoscia non lascia più insorgere questo stato di confusione. Piuttosto la pervade una singolare quiete. Certamente, l’angoscia è sempre angoscia di…,ma non di questo o di quello. L’angoscia di…è sempre angoscia per…, ma non per questo o per quello. Tuttavia l’indeterminatezza di ciò di cui e per cui ci angosciamo non è un mero mancare di determinatezza, ma l’essenziale impossibilità della determinabilità».
22 Dō, 道 dal giapponese e dal cinese Tao: via, percorso, cammino di pratica disciplinato.
23 Duhkka, dal sanscrito, difficile da sopportare, tradotto anche come patimento, esistenzialmente inteso.
24 Cito un testo tra tutti, The Cloude of Unknowyng – La nube della non conoscenza, anonimo inglese del XIV secolo. «Tutti hanno motivo di dolore, ma più di tutti colui che sa e sente che egli è. Tutti gli altri dolori sono, a paragone di questo, come giochi a paragone di cose serie. Perché sperimenta seriamente i dolore chi sa e sente non solo ciò che è, ma che egli è. E chiunque non abbia mai sentito questo dolore può in verità addolorarsi perché non ha mai sentito il dolore perfetto»
25 Jack Kerouac, Il libro degli Haiku, Piccola biblioteca Oscar Mondadori, 2007, Pag.69.
26 D.T. Suzuki, Lo zen e la cultura giapponese, Adelphi edizioni 2014, pag. 207. Qui Suzuki tralascia di esplicitare ciò che sa per cultura: che la “psicologia” dello zen non può prescindere da una pratica che passi per il corpo.
27 Dal giapponese sedersi correttamente. Indica la classica posizione seduta in ginocchio appoggiando i glutei sui talloni e che è tradizionalmente adottata in Giappone.
28 Il luogo dell’unificazione corpo/mente situato generalmente tre dita sotto l’ombelico.
29 «Come per il Nō, e del resto per tutta la cultura artistica giapponese, vale, anche per il Kabuki, il principio secondo cui non viene assegnata preponderanza, come in occidente, alla comunicazione verbale. E spesso ciò comporta una lettura più difficile e sottile (soprattutto per un occidentale) delle singole situazioni. Le vicende sono espresse attraverso l’emotività dei singoli personaggi, il particolare prevale sempre su considerazioni morali o politiche di carattere generale. Ma proprio per questo la tensione emotiva è altissima così come la comunicazione, spesso non verbale, di situazioni emotive forti.» Fonte wikipedia.
30 Franco Bertossa, La coscienza e il sapere dell’essere.
31 Mahaprañāpāramitā Hrdaya sūtra.
32 Fumon 1302-1369, in Poesie zen, a cura di Lucien Stryke e Takashi Ikemoto, Newton Compton editori, 2008. Pag. 65.
33 Ryōkan, Il cuore bambino. Acquaviva edizioni, 2004.
Sul ramo ancora
oggi – mai più domani
i fiori del susino
34 Anitya, termine sanscrito per impermanenza.
35 Il tetralemma nella scuola Prasangika del buddhismo Madhyamika: qualcosa è o non è, e è e non è, ne è ne non è.
36 Giangiorgio Pasqualotto, Estetica del vuoto, Marsilio Editori, 2007, Pag. 109 (Tra parentesi mio).
37 Un haiku dischiuso in tempo reale mentre sto scrivendo l’articolo: Pomaia, Centro Lama Tsong Khapa, ore 10.55.
38 Dahui Zonggao, 1089–1163.
39 D.T Suzuki, Lo Zen e la cultura giapponese, Adelphi edizioni 2014. «Per comprendere a fondo la poesia e la filosofia della pioggia primaverile, bisogna vivere in Giappone, in una casetta dal tetto di paglia, possibilmente con un piccolo prato e uno stagno accanto alla propria stanza di sei stuoie. “Ignoto all’umanità”, ma profondamente a suo agio nella natura era il poeta» (Qui si riferisce a Saygyō: «La pioggia primaverile mi tiene prigioniero, me ne sto tutto solo nella capanna solitaria, ignoto all’umanità»). Senza dubbio lo Shinto, l’adorazione delle divinità naturali e l’animismo hanno notevolmente contribuito a fertilizzare il terreno per lo zen e per lo haiku giapponese. Dall’altro lato del mondo invece, mi chiedo spesso e provocatoriamente: cosa ne è dello haiku e del suo kigo a Tenerife, in Groenlandia, in Sudafrica, all’Equatore o al centro commerciale? La questione rimane aperta a chi vorrà»e potrà coglierla.
40 Jack Kerouac, La scrittura dell’eternità dorata. «L’uomo paleolitico aspettava nelle caverne di realizzare il perché del suo esserci, e cacciava; i moderni aspettano in abbellite dimore cercando di dimenticare morte e vita. Noi aspettiamo di comprendere che questa è la dorata eternità.». Mondadori editore, 1997.
41 Sen no Rikyū, 1522 – 1591. Maestro della cerimonia del té giapponese. Nel bellissimo film Morte di un maestro del té di Kei Kumai (1989), si narrà che Rikyū entrò in conflitto col daimyō Toyotomi Hideyoshi, poiché aveva piantato alberi e fiori nel vuoto prato, dove il Maestro poteva vedere tutto l’Universo racchiuso in un solo filo d’erba.

BREVE BIOGRAFIA DELL’AUTORE

Gianni Placido nasce a Foggia nel 1976. Pratica arti marziali cinesi dal 1990, seguendo gli stili interni – tai chi chuan stile Chen – ed esterni – Shaolin chuan – della scuola del maestro Chang Dsu Yao. In seguito si trasferisce a Bologna dove si laurea in Storia del Teatro e dello Spettacolo con una tesi, prima in Italia sull’opera di Alejandro Jodorowsky. A Bologna segue gli insegnamenti del karate Kyokushinkai della scuola di Shihan Wakiuchi Tsumoto e contemporaneamente si avvicina al Ki Aikido della scuola del maestro Tohei Koichi e Maruyama Koretoshi. Sotto la guida del maestro Franco Bertossa prosegue la pratica del Ki-Aikido, dello yoga e della meditazione da oltre quattordici anni. Ha seguito inoltre seminari i intensivi di gheshe lharampa Thupten Jimpa, Ohashi Ryosuke e Shizuteru Ueda della scuola di Kyoto. É autore del libro Haiku del richiamo – ed altre fenditure dell’essere, Om edizioni, 2016. Vive e lavora a Bologna dove lavora come musicista ed operatore olistico.

BIBLIOGRAFIA

Bashō, Haiku e scritti poetici. A cura di Luigi Soletta. La vita felice edizioni, 2008.
Bertossa Franco, La coscienza e il sapere dell’essere.
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Pasqualotto Giangiorgio, Estetica del vuoto. Marsilio editori, 2007.
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Revisione del testo a cura di Linda Altomonte