Scienze della coscienza e pratica fenomenologica: strumenti e metodi tra occidente e oriente

Domanda: Che cosa significa studiare la coscienza?

RF : Solo negli ultimi venti anni la coscienza è al centro del dibattito e della ricerca scientifica. Tale ricerca è stata portata avanti con gli strumenti delle scienze naturali, a partire dagli studi di cibernetica e sulle menti artificiali  fino ai modelli biologici delle neuroscienze. Sono strumenti per indagare in “terza persona”: per essi la coscienza è un oggetto che possiamo stendere sul tavolo di laboratorio, sul quale è possibile operare sezioni ed esperimenti mirati a comprendere che tipo di oggetto naturale si tratti. Questo campo di ricerca è sicuramente promettente e ha portato dei grandi risultati per quanto riguarda sostanzialmente tre scopi: conoscere le funzioni e le caratteristiche della mente; curare la fisiologia della mente; riprodurne alcune facoltà attraverso tecnologie cognitive.
Tengo  però a sottolineare che non a caso ho utilizzato il termine “mente” e non ancora quello di “coscienza”, in quanto a mio avviso rappresentano due  concetti molto diversi. Con il termine “mente” possiamo intendere tutto ciò che è capace di una attività cognitiva, che può essere studiata in terza persona in quanto risiede in uno speciale organo o rappresenta una speciale funzione; così come alcuni animali, possono correre molto velocemente, altri animali (noi) possono conoscere molto velocemente. Coscienza è ciò che “in prima persona” sa,  ovvero fa esperienza cognitiva e fenomenica,  di quell’organo o di quella funzione.
La sfida oggi per le scienze della coscienza è quella di spostare il fuoco della ricerca dalla terza alla prima persona. Significa sostanzialmente superare questa difficoltà, significa non più studiare una funzione ma il campo dell’esperienza in cui questa funzione opera. Il grande assente nel campo delle  scienze cognitive resta ancora l’esperienza stessa, e l’esperienza è solo ed esclusivamente in prima persona. Se la si ricerca in terza persona, si sta ponendo la domanda sbagliata nel posto sbagliato. Spostare il fuoco della ricerca sulla prima persona implica assumersi una grande responsabilità e permettersi un grande coinvolgimento, perché significa prima di tutto essere quella “prima persona”. Infatti l’esperienza è, in un certo senso, quel particolare tipo di esperimento che si compie in prima persona. Anche quello che viviamo in questo preciso momento è esperienza, ma assai raramente ne facciamo uno studio metodico, un atto esaminato. Per giungere a vivere e a studiare una esperienza, la propria esperienza, è necessario un addestramento.
Questo addestramento dovrebbe essere sia di tipo filosofico e discriminante, come propone appunto la fenomenologia, sia di tipo psico-fisico come propongono le discipline meditative delle tradizioni orientali, attraverso stati mentali approfonditi e ripuliti che ci mettano in contatto con il nostro sentire e ci facciano capire che le nostre discriminazioni ci riguardano. È importante un percorso rigoroso, che  renda i nostri dati affidabili e falsificabili. Ciò che manca all’interno di una possibile ricerca che abbia come oggetto l’esperienza in prima persona, sono appunto strumenti di analisi che siano abbastanza sottili da permetterci di raggiungere certezze indubitabili e replicabili su più soggetti; proprio questi strumenti sono il patrimonio della fenomenologia e delle discipline meditative,  strumenti sviluppati indipendentemente dalla filosofia occidentale ed orientale per rispondere alla eterna domanda: cosa sono? Di che cosa sono fatto? Oppure: che cosa significa fare esperienza? All’interno di questo campo della ricerca in prima persona è fondamentale sottolineare che la visione in “terza persona” è proprio ciò che non esiste nel campo dell’esperienza. Essa è una astrazione pura, nella quale non possiamo riconoscerci integralmente e  che ha l’unico pregio di essere efficace per la cura, la tecnologia e la funzionalità; ma non ha nulla da dire sulla natura della coscienza e sulla sua (la nostra) condizione.

Domanda: Secondo lei è quindi possibile istituire un confronto tra i concetti chiave del metodo descrittivo della fenomenologia e del metodo pratico-esperienziale della meditazione?

RF : Sicuramente sì. Questo confronto può essere introdotto in questa sede, ma prima di tutto ha almeno due debiti da pagare. Nei confronti del neurobiologo di origine cilena Francisco Varela, che ha per la prima volta proposto il metodo di ricerca della neuro-fenomenologia; negli anni ’90 prima della scomparsa di Francisco abbiamo avuto modo di discutere con lui le basi esperienziali della sua proposta e nel CSA (Centro Studi Asia) abbiamo studiato con grande attenzione questo metodo di ricerca  (è appena uscito, per la prima volta in Italia un testo specifico, a cui abbiamo collaborato, dal  titolo Neurofenomenologia, a cura di Massimiliano Cappuccio, ed. Bruno Mondatori, Milano 2006) L’altro debito da pagare è con Franco Bertossa, direttore del CSA e maestro di meditazione e di arti marziali, primo autore insieme a me del libro Lo sguardo senza occhio (ed. Alboversorio, Milano 2005). Franco Bertossa ha sviluppato un efficace percorso di addestramento per muoversi e disegnare mappe interne della propria esperienza, al quale ha introdotto me ed altre decine di ricercatori del CSA. Grazie a queste mappe è possibile giungere ad una lettura dei significati che ci permette di andare al di la di una semplice descrittiva per domandarci di fatto: che cosa significa essere cosciente, per me, ora, qui, così attento? Cosa significa ciò che sento? In questo percorso l’indagine sulla coscienza può portare, se la motivazione è compatta, ad esperienze di pregnante valore cognitivo ma anche e soprattutto esistenziale. Pagati questi debiti cercherò di rispondere per quanto mi è possibile. Prima di tutto possiamo notare che la fenomenologia, con la sua proposta dell’epochè, opera la stessa mossa che il meditante opera nel momento in cui inizia la propria esperienza di risalita alla origine dell’atto di esperienza. L’epochè è come noto, una messa tra parentesi di ogni giudizio e valutazione, di ogni interpretazione ed intendimento; in altri termini, l’eliminazione di ogni scatola in cui inserire l’esperienza, per restare con il dato nudo e crudo, ed uso questa espressione con lo stesso significato che essa ha all’interno delle scienze. L’epochè si può sovrapporre direttamente con il percorso di “ritorno all’origine” della meditazione; Husserl ha descritto nel dettaglio i passaggi della riduzione eidetica e della riduzione trascendentale e d’altro canto le discipline meditative ci hanno lasciato molte istruzioni operative e pratiche al riguardo.
Tornare all’origine, secondo la meditazione ha un significato molto specifico: lasciare da parte tutto ciò che non è certo per dirigere l’attenzione sulla semplice esperienza dell’essere qui-adesso, aperto, acceso. Per esempio, ora c’è un pensiero, questo pensiero può essere ripiegato su se stesso e riportato alla propria origine: chi/cosa pensa? Da dove viene? Perché nasce pensiero?
Questa però non è una teoria che può essere spiegata, ma una esperienza che si deve fare. È  un poco come andare in bicicletta: io posso spiegarti tante volte come si fa, ma devi farlo tu per poter capire che cosa significa per te nei termini di sensazioni motorie di equilibrio, perché non hanno nulla a che fare con una teoria esplicativa. Un corso di genetica o una lezione universitaria di fenomenologia hanno a che fare con le parole: per meditare, per fare fenomenologia applicata,  non bastano le parole. È un lavoro incarnato nella persona, nel soggetto. Sono un biologo e non un filosofo, ma dall’esterno è stupefacente osservare quanto nell’Università si parli di fenomenologia e di quanto poco la si pratichi.
Un altro punto in comune tra le due discipline riguarda la convinzione, tanto del fenomenologo che del meditante, che ci siano delle esperienze e dei significati (essenze) delle esperienze: i significati vengono mostrati dalle esperienze ma non dipendono da esse, valgono sempre (senza per questo assumere la valenza di idee platoniche, come risulta poi approfondendo l’indagine). Il fenomenologo e il meditante cercano di non perdere il contatto che sempre lega le esperienze ai significati, cercando di evitare la caduta sia nelle esperienze di sensazioni suggestive sia nella astrazione senza connessione con la vita sentita.

Domanda: Se l’esperienza si fa solo in prima persona, se essa può essere solo descritta e compresa nel momento in cui essa è vissuta, in che modo avviene la trasmissione delle esperienze tra la prima e la seconda persona?

RF : Quello del rapporto tra la prima e la seconda persona è un problema molto differente rispetto alla relazione tra la prima e la terza persona. In quest’ ultimo caso abbiamo a che fare con una radicale distanza, anche ad un livello fisico, corporale, del sentire; la terza persona è una astrazione non-senziente: da una terza persona – un libro, una istruzione, un simbolo oggettivo – è molto difficile apprendere a fare fenomenologia applicata perché manca il primo presupposto della fenomenologia: la coscienza. La prima e la seconda persona hanno invece una caratteristica in comune, entrambe sentono; mettendo per un attimo da parte (ma senza poterlo escludere) il solipsismo radicale secondo il quale io non posso neanche sapere se tu sei cosciente, noi due nel momento in cui ci relazioniamo – in generale, ma qui ci interessa per quanto riguarda la pratica fenomenologica – entriamo in una sottile consonanza; è una consonanza empatica che deve essere sottoposta a vincoli di validità; questi vincoli sono da un lato il tempo, la durata del nostro rapporto, e dall’altro ciò che effettivamente possiamo trasmetterci nel tempo. Io potrei dirti: ho vissuto una esperienza radicale, che mi ha cambiato la vita: mi sono accorto di esistere; invece che il nulla,  esisto, esiste il mondo. Questa affermazione ha per me ha un significato molto chiaro e speciale, che cerco di comunicarti. Come faccio a sapere se sono riuscito a comunicarti una cosa del genere, solo usando l’espressione “mi sono accorto di esistere”? A questo riguardo l’indicazione che viene dalle discipline meditative è molto importante: serve una Via. Una Via non è qualcosa di già tracciato, è un cammino che la prima e la seconda persona intraprendono insieme, in cui ogni passo costruisce, sviluppa e ripulisce. In questo cammino la seconda persona, quella che nelle tradizioni orientali veniva chiamato maestro, ha un ruolo di trainer: deve dare indicazioni ed incoraggiare, ma anche  far passare una serie di prove, mettere in difficoltà. L’esperienza che viene trasmessa è vera quando ha il carattere di indubitabilità, vale a dire quando più viene negata e più si auto-conferma e nel rapporto a due l’unica verifica resta la risonanza empatica tra prima e seconda persona: abbiamo visitato lo stesso posto e ne parliamo raccontandoci particolari a vicenda. E se tu lo hai visto meglio, senti dove sono impreciso, mi fai notare dove posso acuire ancora la mia indagine; ed io sento che posso verificare, che ho gli strumenti. Su questo mistero della trasmissione e della risonanza empatica non direi molto di più, non ho dati oggettivi. Del resto nessuno li ha e nessuno li potrà mai avere, è piuttosto una questione di fiducia in ciò che io sento, e nell’altro. Non ci sono dati oggettivi perché nel rapporto io-tu, come ho già accennato, non posso avere neppure la certezza che tu sia cosciente di me o del mondo il solipsismo radicale non si dimostra, ma non può neanche essere smentito, e questo è realmente sconvolgente, se ci dedichiamo un poco di attenzione; l’unica coscienza che io posso avere con certezza è la mia, come diceva il poeta inglese Yeats: “L’unica cosa eternamente vergine è l’anima”. Due anime non si potranno mai accoppiare, rimarranno sempre vergini l’una per l’altra; se al livello della convenzione sociale e del linguaggio è possibile avere una certa sovrapposizione di orizzonti, questa sovrapposizione come sarebbe possibile nel campo dell’esperienza? Questa osservazione mette in luce la nostra totale solitudine ma anche la nostra totale unicità.

Domanda: quali sono invece le differenze tra il metodo della fenomenologia e il metodo della meditazione?

RF : In effetti nello spazio di congiunzione tra pratica meditativa e fenomenologia ci sono in elementi in comune – la pratica dell’epochè, e la trasmissione mediante un accoppiamento cognitivo ed empatico tra un  “io” e un “tu” – ma anche alcune differenze. Le vie meditative coltivano altri due passi, uno precedente all’epochè e l’altro successivo. Prima dell’epochè, qualunque disciplina meditativa prevede un attento lavoro sul corpo, cosa che in Occidente è quasi del tutto dimenticata. Questa attenzione verso il corpo è un esercizio di ascolto, di fusione della percezione con la fisiologia profonda per sensibilizzare e stabilizzare l’attenzione – lo si può paragonare alla taratura dello strumento da usare durante un esperimento scientifico, che verifica la sua funzionalità attraverso prove iniziali. Chi vuole fare fenomenologia deve farlo sul suo corpo perché il suo strumento per sentire è il corpo e non si fa fenomenologia senza il sentire perché il sentire è il dato fenomenico: “Che cosa si prova ad essere un pipistrello?” “Che cosa si prova ad essere una tèrmite?” “Che cosa si prova ad essere coscienti?”. Se questa fase di preparazione si adempie, allora è possibile accedere all’epochè, in quanto si è venuto a creare un campo di attenzione estremamente ridotto, molto calmo e lucido,  intenso ma senza agitazione, senza distrazione. Questo è il calibro necessario  per fare esperienza esaminata, rigorosa. Successivamente all’epochè c’è una terza fase che per le discipline orientali è fondamentale ed è il permanere nello stato di domanda, o comunque il lasciare andare il tentativo di dare una risposta. L’interesse del fenomenologo orientale non è solo di tipo descrittivo e cognitivo, ma di ricerca della verità.  Se vi è tale domanda di verità può avvenire una esperienza di svelamento, di  intuizione improvvisa dell’esistenza. Questa fase potrebbe essere paragonata in prima istanza all’insistenza quasi ossessiva con la quale Husserl rilanciava sempre, nuovamente tutte le sue ricerche e tutte le sue definizioni. Ma, nel suo sviluppo, è più vicina alla descrizione che Heidegger fornisce del soggetto nei termini dell’esser-sospeso. Restare sospesi non è esattamente piacevole perché si resta senza una determinazione, senza riferimenti; è la parte difficile di questo addestramento all’esperienza. È lo stato di attesa in cui tutto assume la stessa pregnanza, una pregnanza assoluta che elimina ogni altra possibilità. In quello stato niente, neppure la coscienza, è più se stessa, riconoscibile. E con la sua strana presenza impone la domanda fondamentale: perché esisto? Perché non il nulla?
Non bisognerebbe mai dimenticare che il fare esperienza è un fatto che è al di la di ogni spiegazione. Ma lo si  può vivere con una lucidità estrema e disvelante.

Intervista a cura di: Armando Canzonieri
Fonte: Biblioteca husserliana/Rubrica dei testi