Di recente i biologi dello Scripps Research Institute in California hanno creato il primo batterio di Escherichia coli con DNA espanso, denominato XenoDNA (X-DNA) (1). Si tratta di un codice genetico al quale sono state aggiunte, alle quattro basi presenti in natura in tutti gli organismi viventi (ACGT), due basi sintetiche chiamate X e Y – da non confondere con gli omonimi cromosomi umani, portatori anche dell’informazione sul genere sessuale. Le basi sintetiche sono state inserite e il nuovo batterio si è replicato trasferendo alla sua progenie le nuove lettere. Per ora l’X-DNA è stato inserito in porzioni inattive del DNA batterico, ma molto presto potrebbe essere introdotto in parti attive del genoma e permetterà di produrre nuove proteine mai esistite prima.
È un passo fondamentale verso la Xenobiologia (XB), la biologia di sintesi che non modifica, ma produce ex-novo organismi che non si trovano in natura. I passi precedenti sono stati gli studi sulla “minimal cell” condotti all’ETH di Zurigo da Luigi Luisi, e i cromosomi sintetici prodotti da Craig Venter. Più di recente, nel 2010 lo stesso Venter ha selezionato quello che potremmo chiamare un “minimal genome”, smontando il materiale genetico di un microrganismo monocellulare e poi rimontandolo inserendo solo geni strettamente necessari, con un Dna sintetico simile a quello naturale.
Ora però cambiano proprio le basi del DNA, le lettere del codice genetico, e questo esperimento pone nuove interrogativi, di natura etica ed epistemologica, che vi proponiamo di esaminare insieme. Si tratta di riflessioni maturate e dibattute all’interno della scuola filosofica del Centro Studi Asia (Bologna) diretto da Franco Bertossa (2). Sono mosse da un grande interesse e rispetto per l’indagine scientifica e i suoi protagonisti, senza tuttavia un acritico affidamento al dogma riduzionista.
Questioni di xeno-bioetica
A prima vista il nuovo X-DNA ha molti vantaggi, anche se su tempi necessariamente lunghi: potrebbe formare geni destinati a produrre proteine mai neppure pensate prima, capaci di disinquinare, produrre carburante, inventare nuove sostanze chimiche etc.. Il tutto senza complesse tecnologie o investimenti ma solo progettando e allevando X-batteri.
Inoltre l’X-DNA soddisfa un importante requisito: gli organismi che lo incorporano e lo trasmettono alla discendenza non sarebbero organismi OGM (con Geni Modificati) ma GRO (con Genoma Ricodificato). Sarebbero quindi più facili da controllare perchè manipolati in ogni dettaglio dai ricercatori, e più facili da brevettare come “opera d’ingegno” sfuggendo a tutte le normative che faticosamente si vanno formando in questi anni per regolamentare il campo degli OGM. Inoltre – si dice – saranno anche molto più sicuri, esenti dai problemi di inquinamento genetico degli OGM che possono diffondersi nell’ambiente e incrociarsi con le popolazioni naturali contagiandole con i loro geni modificati: l’X-DNA a 6 basi essendo radicalmente diverso dal DNA naturale a 4 basi funzionerebbe infatto da “firewall genetico”, una barriera che impedisce ad ogni organismo naturale di incrociarsi con gli X-organismi.
Tuttavia questo “contenimento semantico” non è detto che funzioni: possiamo pensare che il materiale genetico salti da organismo a organismo anche senza accoppiamento, attraverso plasmidi. Oppure che gli stessi X-organismi possano incrociarsi tra loro con conseguenze imprevedibili: xenotossine e xenoallergeni.
Nella scienza sperimentale l’imprevisto è la regola e più il sistema diventa complesso più diminuisce il grado di previsione. Come possiamo prevedere quali cambiamenti collaterali l’X-genotipo imporrà all’X-fenotipo (ovvero alla “manifestazione esteriore”, il corpo dell’organismo) e come prevedere le variazioni che il nuovo fenotipo imporrà all’ambiente? Stiamo ricombinando solo delle basi chimiche, oppure – visto che si tratta di strutture capaci di auto-replicarsi – tutto il sistema di relazioni organismo-ambiente?
Quale metafisica sostiene l’X-DNA?
Non si può capire la portata degli interrogativi etici se non si cerca da dove nasce il pensiero che rende possibile questo tipo di interventi sul genoma. É lo stesso pensiero metafisico – nel senso di pensiero fondato su un particolare tipo di ente, sia esso l’Idea, Dio, o la materia – che sembra autorizzare la Scienza ad operare con la vita come una risorsa, a sezionarla, isolarne gli elementi essenziali, modificarli o ricombinarli o riprodurli in forma sintetica.
Per quanto riguarda lo studio della vita, la metafisica oramai diffusa e radicata nella mente di tanti è che la vita sia qualcosa (un ente) oggettivo e definibile, e che quel “qualcosa” sia informazione.
L’informazione è un ente più sofisticato della semplice materia, ma centrale per indagare il fenomeno vita dal punto di vista scientifico in quanto permette di rispondere a tre domande operative messe in luce da Franco Bertossa: come è strutturata? Come si comporta? A cosa serve?
Il pensiero metafisico che la vita sia principalmente informazione viene sostenuto da quella che potremmo definire – nei termini dei suoi stessi autori – “la Chiesa Alta dell’anglo-biologismo”, la quale trova in Richard Dawkins e Daniel Dennett i suoi vescovi più prestigiosi. Per essi l’informazione è portata dai geni, formati da molecole di DNA secondo una certa sintassi (certe lettere e regole) e dotati di un certo potere semantico (il complesso delle informazioni). Le informazioni possono essere replicate, trascritte, e tradotte in proteine, secondo quello che una volta era chiamato il “dogma centrale della biologia molecolare”.
Esperimento mentale: riproduzione in silico
Dennett sostiene che l’essenza della vita non sono le molecole di DNA ma quello che viene scritto attraverso di esse, quindi i geni, enti “informativi e astratti”. Sono “replicatori” che cercano – come agenti sottoposti a leggi darwiniane – di rendersi immortali saltando da un corpo all’altro. Nel suo ultimo libro (Strumenti per pensare, Cortina, 2014, p. 295-297) (3). Dennett affronta il tema della riproduzione umana con il seguente esperimento mentale:
Una coppia vuole avere un figlio e procede nel modo seguente:
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entrambi I genitori si fanno sequenziare il genoma (costa ormai poco) e ricevono per e-mail un file con tre miliardi di lettere ACGT.
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Scrivono un programma con un algoritmo di meiosi virtuale. Fanno girare il Dna sequenziato nel programma e creano in maniera casuale corredi genomici dimezzati e ricombinati, come avviene in natura per formare spermatozoi e ovuli. Poi questi spermi e ovuli virtuali vengono accoppiati in modo casuale e si giunge a un nuovo genoma in silico, una sequenza di tre miliardi di lettere del tutto nuova.
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Questo computo di stringhe di dati viene inviato via e-mail al laboratorio di Craig Venter, dove è già possibile costruire, codone dopo codone, un genoma vero e proprio a partire dal Dna sequenziato.
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Il genoma “figlio” viene poi inserito in un ovulo umano naturale, privato del suo Dna, per generare ovulo “fecondato in vitro”. Questo sarà poi impiantato in un utero come già si fa in molti laboratori e da esso si svilupperà un “bambino in provetta”.
Se si utilizzassero, aggiunge Dennett, altre strutture molecolari compatibili – e stabili quanto basta per memorizzare fedelmente dati, come X-DNA – non farebbe alcuna differenza: si tratterebbe solo di due sintassi diverse, ma la semantica (il complesso delle informazioni) resterebbero la stessa anche se tradotta in un altro linguaggio.
In conclusione, se ammettete che quello che nascerà è il figlio biologico della coppia di genitori, per Dennett state ammettendo che l’essenza della riproduzione è la trasmissione causale di informazioni.
Ci sono diverse critiche che si possono fare a questo esperimento mentale, di natura scientifica e filosofica.
Critiche biologiche
Manca qualcosa. Dal punto di vista scientifico c’è un enorme gap tra il modo in cui il genotipo viene trasmesso e il modo in cui si esprime nel fenotipo : mentre conosciamo bene il primo meccanismo, tanto da giocarci come in questo caso, non conosciamo il meccanismo generale – non abbiamo regole valide in ogni contesto e per ogni caso specifico – della attivazione e inattivazione dei geni, di come si esprimono e come vengono tradotti in organismi e corpi. É il problema della biologia dello sviluppo, un campo affascinante e ancora controverso. Dennett e Dawkins scelgono di ignorare la questione per occuparsi dei “meccanismi di base”, identificando di fatto in essi l’essenza della vita e gli agenti della sua evoluzione.
Un’altro punto critico è la riduzione del fenotipo (il corpo vivente) al genotipo (informazione). Così facendo si ignorano le tante influenze che interazioni ambientali, retrovirus e meccanismi epigenetici possono portare al fenotipo. Si tratta di meccanismi potenti che lo modificano non nella generazione successiva ma in quella in corso, pur operando con la stessa informazione genetica di base. Nel caso dell’esperimento mentale, è molto rilevante sia l’ovulo in cui viene inserito il Dna-calcolato, sia l’utero in cui crescerà, sia ciò che accade in ogni istante nell’ambiente. Il figlio della coppia sarà la risultante (il figlio biologico) anche di tutto questo.
Infine dal punto di vista evolutivo e storico, è errato considerare l’informazione (i geni) come agenti dell’evoluzione: i geni sono solo una possibilità, diffusa ma non obbligatoria, di fissare alcune informazioni. Le informazioni sono da inserire nella più vasta dinamica darwiniana degli “agenti evolutivi” che sono le popolazioni di fenotipi (i corpi degli organismi) ovvero gli individui nel loro complesso, e non i geni. (4)
Ma il dogma vita = informazione è molto più lontano dalla verità di quanto facciano credere queste mere considerazioni biologiche.
Critiche epistemologiche
Manca davvero qualcosa, o meglio qualcuno.
L’ informazione è sempre per qualcuno: oltre alla sintassi e alla semantica, il significato dell’informazione passa solo attraverso un vissuto in prima persona, un atto vissuto “dall’interno” che chiamiamo sentire e sapere.
Dennett in questo esperimento mentale procede così: ci pone fuori da noi stessi spingendoci ad adottare un punto di vista esterno sulla vita (sequenziare e mescolare Dna); ci pone un problema stringente dicendoci di cercare una soluzione dall’esterno; noi annaspiamo, lui ci presenta la teoria della vita come informazione, e noi l’accettiamo per uscire d’imbarazzo.
Ma è la premessa – adottare un punto di vista esterno sulla vita come unico punto di vista “valido” – a essere errata (anche perchè se affermi “che è valido”, lo affermi da un punto di vista interno; il primo passo di ogni esperienza è sempre un atto interiore di “sono convinto che…”, che precede ogni teoria).
Così come nel campo degli studi sulla coscienza Dennett ci ha voluto convincere del suo carattere illusorio (5) e della necessità di ridurla a configurazioni neurali (ma esser convinto è un’esperienza!) così nel campo degli studi sulla vita cerca di convincerci del suo carattere informazionale, tale che anche se cambiasse il supporto (geni di DNA o X-DNA) resterebbe invariato. Ma cogliere il significato di tutto questo sarebbe informazione invariata?
Se tuo figlio fosse una nuova specie? Sarebbe un’informazione su X-DNA?
La vita come informazione è una vita per nessuno, che non esiste. É solo la pretesa di gettare sulla vita uno “sguardo da nessun luogo” (6).
Forse dobbiamo rassegnarci all’idea che è sbagliato porre la domanda sulla vita non solo a Daniel Dennett, ma in generale alla biologia. La biologia, per procedere nella sua utile indagine, deve ignorare l’atto vivente ed occuparsi solo del suo correlato oggettivo e osservabile: l’organismo. Ma l’organismo è vivo?
La vita che non esiste e la vita evidente
Come ha scritto Ferris Jabr sul Scientific American (7), probabilmente non siamo riusciti a definire la vita perché… non c’è nulla da definire. Non c’è “vita” come una proprietà intrinseca degli organismi, è solo un concetto che abbiamo inventato, immaginando poi linee di demarcazione tra vita e non vita. Per Jarb c’è solo materia e livelli di complessità (però dovremmo chiedere, magari a un fisico quantistico, se “materia” non sia un concetto altrettanto vuoto).
Dal punto di vista scientifico, “dall’esterno”, nessun organismo è vivo. Solamente ha o non ha delle caratteristiche in base alle quali abbiamo definito cosa vita sia – in una circolarità imbarazzante. Noi però diciamo che è “vivo” e immaginiamo che un giorno troveremo empiricamente il significato di questo termine. Ma ci sfuggirà sempre, perché il significato di vita risiede non là nelle molecole ma nel nostro atto di saperne, nel nostro sentire – prima che divenga percepire oggetti – e nel fatto d’essere qui a chiederci.
Come uscire dal dogma della biologia molecolare? Restando fedeli alla fenomenologia in atto, alla vita evidente che siamo, pur continuando per fini pratici ad occuparci di biologia e genetica. Lasciar perdere la metafisica dell’informazione e il concetto vuoto di “vita” e tornare – perché non possiamo smettere d’interrogarci sulla vita – a questa esperienza in prima persona. La vita è sentire. È saperne. O no? (Lo senti?)
“Come fai a sapere che sei vivo?” chiedevo poco tempo fa a un gruppo di bimbi di 10 anni: sento, hanno risposto. Giusto: non parlavano della funzione di percepire suoni, luci o il battito del cuore; vita in atto è la capacità di accogliere percezioni e pulsare con loro. Uno ha detto, con il viso serio di chi sa di dire davvero qualcosa di importante: “Perché sono qui!”. Ancora più giusto.
Chi sa dell’informazione?
Il mio sapere di me non è un’informazione, è sempre un significato a priori di ogni informazione. Poi diviene pensiero e viene tradotto in queste stringhe di lettere.
Chi vive – e muore, e fa figli – in terza persona?
La vita non si potrà ridurre a informazioni, neppure a quelle biochimiche – complicatissime – che controlleranno l’espressione genetica, lo sviluppo dell’uovo, la crescita in utero o in un ambiente. Semplicemente perché “ridurre” è un atto vivente, che non si può ridurre perché deve essere vissuto in prima persona, da qualcuno che gli dia significato.
La riproduzione di informazioni su Dna naturale o Xeno-Dna non è vita.
Ma la riproduzione di dubbi, di questi dubbi che spero le mie riflessioni abbiano suscitato, è vita evidente.
Note
1 Denis A. Malyshev, Kirandeep Dhami, Thomas Lavergne, Tingjian Chen, Nan Dai, Jeremy M. Foster, Ivan R. Corrêa & Floyd E. Romesberg, A semi-synthetic organism with an expanded genetic alphabet, Nature 509, 385–388, 15, Maggio 2014
2 Franco Bertossa, Le Quattro Nobili Verità e l’Occidente, Non credo n.° 28
3 Daniel Dennett, Strumenti per pensare, Cortina, 2014, p. 295-297
4 Peter Godfrey-Smith, Darwinian population and natural seletion, Oxford Univ. Press, 2009
5 Daniel Dennett, Coscienza, che cosa è, Rizzoli, 1993
6 Thomas Nagel, Uno sguardo da nessun luogo, Il Saggiatore, 1988
7 Ferris Jabr, Perché la vita, in realtà, non esiste, Le Scienze, Dicembre 2013
Un ringraziamento sentito a Francesca Ferri per la lettura critica e la revisione.