Da alcuni mesi c’è un grande fermento attorno all’epidurale e sul disegno di legge proposto dal Ministro Livia Turco e approvato recentemente dal consiglio dei Ministri, per inserire il “parto senza dolore con anestesia epidurale” nei LEA, i livelli essenziali di assistenza.
Molti gruppi formati da medici, ostetriche, operatori nel campo della nascita e genitori, pur concordi sul fatto che, in caso di reale necessità, sia giusto che ogni donna possa usufruire gratuitamente di questa pratica medica, hanno sentito il bisogno di scrivere al Ministro Turco per esprimere le proprie perplessità sulle conseguenze di diffonderla a tutte le donne in travaglio.

Vorrei, ispirandomi alla lettere inviate da questi gruppi e scaricabili da Internet, integrare con mie riflessioni.
Il tipo di attenzione che una cultura ha nei confronti sia della nascita che della morte ci dice molto sui valori sui quali essa si fonda.
Cosa significa in Occidente nascere e morire bene?
Il sentire intenso che accompagna entrambe le esperienze come è giudicato?
E’ da ascoltare o è da evitare?

La medicalizzazione di routine di entrambi questi momenti sembra dire che, secondo la nostra cultura, vada sempre evitato.
Occupandomi da oltre 25 anni di nascita e avendo io stessa partorito tre volte naturalmente in casa so per certo che il dolore del parto fa parte della fisiologia della nascita e non è da trattare sempre come patologico proponendo fin dalla gravidanza, alle donne, la superficiale domanda: “Signora lei vuole sentire male oppure no?”. O, come tante mamme mi hanno raccontato, una volta entrate in ospedale e avendo esse stesse richiesto che non venisse fatta loro l’epidurale, sentirsi rispondere: “Faccia pure, tanto alla fine la fanno tutte!”.
Perché indurre subito nella donna un senso di inadeguatezza e il successivo affidamento al medico?”.
Perché offenderla decidendo a priori che non sarà in grado di affrontare l’esperienza del parto?
Perché interrompere il contatto con la tradizione dove una volta, a casa, si veniva accompagnati da una persona capace, nelle esperienze di nascita e morte, considerate come momenti di contatto col sacro?
Come potrà, una donna che ha partorito con l’epidurale, trovare le parole e i gesti sapienti che non ha mai sentito né visto, per accompagnarne un’altra che vorrebbe partorire senza anestesia?

Questa interruzione nella tradizione ha già dato i suoi effetti negativi nell’allattamento al seno. Quasi nessuna neo mamma trova ormai nella propria madre una fonte dalla quale attingere nei momenti di dubbio sull’allattamento al seno, perché a queste ultime per diversi anni l’allattamento è stato “disturbato” da chi invece avrebbe dovuto crearne le condizioni migliori.
Il risultato è che ciò che veniva trasmesso in casa ora diventa problema da sottoporre all’esperto che, nelle situazioni migliori ma meno frequenti, è l’ostetrica, nelle peggiori ma purtroppo più frequenti, è il pediatra che è un esperto di patologia, ma l’allattamento al seno è fisiologico.
Come un pediatra neonatologo di Pescara scherzosamente ha scritto: “è come se, dovendo uscire, anziché chiamare la baby sitter chiamassimo il pediatra per occuparsi di nostro figlio”.
E’ strano che la parola nascita venga ormai associata solo alla parola salute (e quindi al medico) anziché alla parola esperienza e quindi al valore di avere vicino chi, in quella esperienza, c’è già stata e ti sa accompagnare.

Mi chiedo anche: l’epidurale è una conquista o una costrizione per le donne?
Hanno la possibilità di essere anestetizzate o sono costrette a farlo per sopportare, in qualche modo, l’assistenza non rispettosa e in alcuni casi purtroppo “violenta” che viene offerta troppo spesso nelle strutture dove partorisce?
Perché s’investe così poco nella riduzione naturale del dolore che può avvenire attraverso la partecipazione a corsi di accompagnamento alla nascita, la corretta informazione, il sostegno nel trovare la motivazione, la determinazione, la fiducia di essere in grado di affrontare questa prova; anche l’ambiente nel quale la donna affronta il travaglio può influire sul suo sentire, la continuità assistenziale da parte della stessa ostetrica durante la gravidanza e il parto, la possibilità di scegliere le posizioni più adatte, l’immersione in acqua…In Italia si partorisce molto male e questo crea sofferenza nella partoriente. Perché, anziché migliorare la qualità dell’assistenza, che già di per sé potrebbe rendere le contrazioni molto più sopportabili, si pensa invece di lasciare tutto così com’è e anestetizzare la donna?

Quale pensiero è presente e quale invece manca perché scaturisca un’attenzione di questo tipo?
Sicuramente non si considerano importanti le conseguenze derivanti dal separare la mente, che rimane vigile, da un corpo che diventa “muto”.
Il linguaggio del corpo non è più un valore, non ha valore neppure rapportarsi col proprio sentire, considerato evidentemente privo di significato.
Si ritiene che parto e sentire vadano separati.
Non ci si chiede degli effetti che seguono una tale separazione tra la donna e ciò che sta accadendo: la nascita di suo figlio.
Non si pensa neppure che potrebbe esserci una relazione tra la l’interruzione di rapporto tra la donna e il suo bambino che l’anestesia produce, e le successive difficoltà che sempre più madri hanno, nel dopo parto, dove la qualità della relazione col bambino ha un ruolo determinante e dove ancora i problemi creati farmacologicamente vengono troppo spesso risolti farmacologicamente.
Non vi sembra folle tutto questo?

Tratto dall’articolo Il sentire intenso che accompagna la nascita è da ascoltare o da evitare?, B. Benfenati comparso sulla rivista Antiche e moderne vie d’illuminazione, periodico dell’associazione ASIA, nel n. 27 Dicembre 2006