Una luminosa testimonianza di Paola Chini

La nostra ostetrica, Paola Chini, racconta il primo parto a domicilio che ha seguito e che ha dato il via a una lunga, bellissima storia professionale e umana.

Giugno 1984. Erano le ultime settimane di tirocinio in sala parto: di lì a un mese ci saremo finalmente diplomate. Le maestre ostetriche ci chiedevano dove avremmo voluto lavorare, se in consultorio o in ospedale; io risposi che avrei voluto assistere le donne a domicilio. Silenzio. Poi, pian piano, una mi fece notare che ormai non era più tempo, che partorire in ospedale era più sicuro; un’altra, che appena diplomata non era il caso: ci voleva esperienza, e poi sì, l’avevano capito che ero un po’ una testa calda, che avevo da ridire su questo e quello…

Se penso a quel che provavo in quel momento, mi torna in mente il verso di una canzone di Battiato: “le aquile non volano a stormi” – ma non nel senso che mi considerassi più in alto, bensì SOLA, fuori luogo e fuori tempo rispetto al sentire comune. Dovevo trovare degli alleati. E già nei giorni successivi alcune ostetriche mi vennero in aiuto: “Vai tranquilla, è più facile che sfugga qualcosa a me durante il travaglio, che lavoro da quarant’anni e ho visto di tutto, che a te che sei all’inizio! Vedrai, avrai tutte le antenne all’erta, noterai anche il più piccolo segnale”; “Ce la puoi fare, ma comincia con le donne al secondo figlio: se il primo parto è andato bene è già una garanzia”.

Passarono due anni. Lavoravo in consultorio famigliare affiancando un ginecologo davvero speciale: era accogliente, metteva le donne a loro agio, spiegava ogni cosa con calma. Anche lui mi chiese dove volessi lavorare e non si scompose affatto quando gli dissi: “A domicilio”. Aveva incontrato, nella sua carriera, delle ostetriche condotte e le stimava.

Un giorno venne una studentessa per un colloquio per IVG. La ascoltammo, rispondemmo alle sue domande e, alla fine, le consegnammo la richiesta per la prenotazione in ospedale. Tornò dopo due settimane dicendo che non se la sentiva di abortire, che quel bambino sarebbe nato e che voleva partorire in casa: poche parole, chiara e determinata. Il ginecologo mi guardò, guardò lei con un sorriso e disse: “Sei nel posto giusto. Paola vuole assistere a domicilio”. Ero titubante. “E se travaglia di giorno come faccio? Mica posso sparire dal consultorio!” e la risposta fu: “Tranquilla, ci penso io”. Grande! Non potevo essergli più riconoscente.

Iniziò la ricerca di una seconda ostetrica: fra tutte quelle che si erano dichiarate disponibili mesi prima, alla resa dei conti nessuna se la sentiva di affiancarmi. Ero delusa e anche preoccupata. Mancava un mese al parto; parlando con una collega che si era diplomata l’anno prima di me, le buttai lì la proposta: “Ci verresti ad assistere un parto in casa con me ?”, “Si,certo!”. Non ci potevo credere, non me lo aspettavo. Allora era vero: chi cerca trova! Coincidenza su coincidenza, il mio sogno si stava realizzando.

La sera in cui D. iniziò il travaglio, chiamai il ginecologo: “Ci siamo!”, “Hai il mio numero: per qualsiasi problema a qualunque ora chiamami, anche solo per dare dei punti, se non te la senti.” In quel momento ho sentito con chiarezza che tutto sarebbe andato bene: non avrei avuto bisogno di chiamarlo, ma le sue parole erano come un lasciapassare, una benedizione, “sono con voi”.

Entrai a casa di D. C’era silenzio e penombra, solo qualche candela accesa qua e là. Aveva ventun anni, era sana, sportiva, abituata a mangiare bene: la gravidanza era andata benissimo, il bimbo era bello vitale, lei tranquilla, consapevole. In quelle sei ore di travaglio non ricordo un lamento: era concentrata, quasi sempre ad occhi chiusi. Passò un’oretta nella vasca, ogni tanto un sorso di tisana. Quando uscì dall’acqua si sedette a loto sul letto, le mani rilassate sul pancione a contenere il piccolo. Io e la mia collega, sedute in un angolo della stanza mute, stupite, anche noi in una bolla senza tempo. Il suo compagno entrava nella stanza ogni tanto, molto discreto, la guardava un po’ e tornava in cucina. Diceva che non se la sentiva di esserci per il parto.

Mi alzavo solo per sentire il battito del bambino: forte e chiaro – anche lì dentro tutto bene. Non ricordo di averla più visitata da quando era nella vasca. Questo me lo avevano insegnato le mie maestre: “Qui la vagina sembra un’acquasantiera: chiunque passi [sottointendendo i medici] si sente autorizzato a intingere le mani, ma non c’è bisogno di tutte ste visite. Lo vedi da come va il travaglio, da come cambia atteggiamento la donna che sta progredendo.” Parole sante, e lì stava andando tutto perfettamente e anche in fretta.

D. inizia a sentire il premito: anche il piccolo è arrivato quasi al traguardo. Per un po’ resta seduta. Guardo la collega ci capiamo: prepariamo con calma, per non disturbarla, lenzuola, traverse assorbenti, panni caldi per il bimbo; dalla borsa tiriamo fuori la spassetta dei ferri, la clip per il cordone. Siamo pronte. Anche D. si alza: è nuda, si butta sulle spalle l’accappatoio, a gambe un po’ divaricate appoggia le mani sulle cosce inclinando il busto in avanti e comincia a spingere. Guardiamo ammirate e incredule questa ragazza: quale sapienza detta il suo fare, quanta fede e abbandono alla forza potente che la sta attraversando! Durante le pause si raddrizza, il respiro si fa lento e profondo; quando sente arrivare la contrazione si rimette in posizione, occhi chiusi. Non un urlo, suda. Affiora la testina: mi avvicino e sottovoce le dico “D., coraggio, ancora poche spinte e il tuo bimbo nasce”. Non riesco a trattenere un: “Sei bravissima!”.

Ho ancora la foto di lei in piedi, accappatoio sulle spalle e bimbo in braccio, col cordone ancora attaccato. Già, perché eravamo così concentrate che nessuna di noi si era accorta che il suo compagno era con noi e scattava delle foto…

Il bimbo sta bene, piange poco e, come D. si sdraia sul letto e lo appoggia al seno, si calma e dopo un po’ comincia a succhiare. Li lasciamo da soli col papà: noi andiamo in cucina a farci un caffè. Ci guardiamo incredule, rallentate anche noi, ma con un’emozione che tracima: allora è vero, adesso ne abbiamo la prova, le donne sanno cosa fare! Assistere senza invadere la loro competenza e quella del nascituro è possibile, esserci in modo rispettoso, accogliere il bambino con la dignità che gli spetta… allora sì che emerge il mistero, il rito, il sacro della nascita! Ci sentiamo immensamente grate. Ma dobbiamo tornare coi piedi per terra: abbiamo da compilare la cartella, la denuncia di nascita. Che emozione scrivere per la prima volta “nato a domicilio per scelta”!

D. si è lavata, ha messo la camicia pulita e ora è al telefono. “Avviso i miei… Ciao Mami, anzi: ciao Nonna! Eh sì, è nato, tutto bene. Sì, è un maschietto. No, non ho avuto punti. È iniziato ieri sera verso le dieci ed è nato alle quattro, è stato veloce. Ma ora ti devo salutare, ci sono altre mamme che aspettano di telefonare, ci sentiamo quando torno a casa.” La guardiamo basite, e lei: “Mah, insomma, era inutile metterla in ansia: se le dicevo che ho partorito a casa si preoccupava, la conosco. Invece, così…” Piena di sorprese, questa ragazza, ma assennata e risoluta.
Ora chiamo io il ginecologo: sono le sette, sarà sveglio. “Non mi sono fatta sentire perché è andato tutto a meraviglia, poi ti racconto”, “Ok, va’ a casa a dormire”, “A casa? Ma va’, ci vediamo tra un po’ in consultorio!”. Non sarei mai riuscita a dormire: avevo una tale energia addosso…

Quando entrai in ambulatorio ci abbracciammo: “Grazie, il tuo supporto è stato importante.”, “Complimenti a te, sei stata in gamba.”, “Veramente ha fatto tutto lei: ora ti racconto…”.

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