“Aspettare un bambino”, “il periodo dell’attesa”, sono frasi usate ormai comunemente il cui reale significato però a volte non viene completamente compreso.
Aspettare, attesa, evocano uno stato di sospensione, di attenta passività, di osservazione senza pretesa di azione, di rispetto di altri ritmi.
I ritmi di un bambino che si forma, i ritmi del corpo della donna che si modifica per accoglierlo, i ritmi del bambino che nasce, i ritmi del corpo della donna che si modifica per lasciarlo nascere, sono ritmi biologici, risultato di un concatenamento di eventi che chiamiamo evoluzione e che possiamo descrivere con sempre maggiore precisione, ma che siamo molto lontani dallo spiegare.
Ci sono situazioni problematiche in cui questi ritmi, se assecondati pienamente, porterebbero alla perdita del bambino o della donna; in questi casi ovviamente è indispensabile agire, aspettare diverrebbe pericoloso.

Una volta però udii a un convegno sulla nascita una ostetrica domandarsi e domandare agli operatori presenti: – Perché anche quando sta andando tutto bene, non riusciamo ad aspettare, non riusciamo a non intervenire? – E’ una domanda reale. E’ un problema reale che però credo non venga affrontato nei corsi di formazione per gli operatori. Mi pare che vengano molto ben preparati a “fare”, ma per niente a “lasciar fare”.
Si potrebbe obiettare: c’è forse da imparare qualcosa per essere capaci di “fare niente”?
Risponderei che, sì, al giorno d’oggi non siamo più capaci di “far niente” e dobbiamo re-impararlo.
Infatti, nei momenti di tempo libero, anche se molto brevi, non riusciamo a non accendere il televisore o la radio oppure la sigaretta o leggiamo un giornale, telefoniamo a qualcuno per fare quattro chiacchiere oppure, al limite, ci mettiamo a dormire.
Chi di noi si sofferma più semplicemente a guardare o meglio a guardarsi, ad ascoltarsi, a stare cioè semplicemente con se stesso?
Spesso agire è necessario, ma se, anche quando non lo è, in noi non c’è più la capacità di aspettare, di osservare, allora forse è il momento di cambiare qualcosa, di ri-educarci al piacere dell’ascolto.

Lo yoga è per questo un mezzo meraviglioso: attraverso sapienti concatenamenti di posizioni del corpo, si arriva a uno stato di rilassamento che calma il respiro; attraverso la calma del respiro si rallenta l’attività vorticosa della mente, che altrimenti tenderebbe alla dispersione. Con lo yoga invece la mente si raccoglie, non si disperde più e diviene capace di mettere attenzione, senza più il bisogno di intervenire.
Gérard Blitz ripeteva spesso che è necessario portare la mente, che tende all’accelerazione, ai ritmi lenti del corpo, così da poterli rispettare.
Solo una mente calma potrà “aspettare un bambino ” mentre nasce, senza sentire il bisogno di “farlo nascere”.
Durante quattordici anni di insegnamento di yoga prenatale, ho visto centinaia di donne divenire consapevoli del proprio corpo, del proprio respiro, dei propri ritmi, capaci di ascoltarsi con fiducia in sé, capaci di attendere.
Le ho sentite però spesso lamentare di avere trovato, al momento del parto, tensione e fretta intorno a sé, bisogno di fare, sempre e comunque, il contrario di tutto quello che, durante i mesi di yoga prenatale, con fatica erano riuscite a riscoprire.
Hanno sentito inoltre che questa fretta ha tolto loro la possibilità di vivere con consapevolezza il loro parto e i primi fondamentali momenti col bambino.
D’altra parte ho anche conosciuto operatori praticanti di yoga, rispettosi dei ritmi lenti della
nascita e del dopo parto, accusati da genitori, che ovviamente avevano fatto un altro tipo di percorso, di trascurare la donna, di non controllarla continuamente, di non fare nulla per far nascere prima il bambino e così via.
Credo quindi sia molto importante che entrambi, genitori e operatori, possano avere l’occasione di ritrovare un rapporto equilibrato coi ritmi del corpo, così che “attendere un bambino” ritrovi il suo vero e totale significato.