Filosofia, religione e arte sono i temi che Ryosuke Ohashi ha trattato
nel seminario che ha tenuto presso ASIA. Tre grandi temi che il prof.
Ohashi ha affrontato riferendosi in particolare allo zen giapponese,
alla filosofia occidentale e all'arte pittorica di due importanti
esponenti delle due culture a confronto, Sesshū Tōyō e Albrecht Dürer.
Un altro interessante e parallelo è stato quello tra Martin Heidegger e
Dōgen, monaco zen del XIII secolo, la cui famosa opera Shōbōgenzō è
stata commentata in alcune importanti parti.
27 Aprile sera
Il tema di oggi sarà incentrato intorno alla comprensione.
Quando diciamo capire, cosa intendiamo? In altri termini, che significa capire?
Nell’antica Grecia si delineò la distinzione tra i sophos, i colti, che conoscevano ciò che le persone comuni ignorano. Ad esempio, i sofisti conoscevano le eclissi, riuscivano a prevedere certi eventi naturali. La loro era una conoscenza utile a qualcosa, una conoscenza pratica.
I philosophos erano quelli che erano alla ricerca della sapienza, della sophia, ma si trattava di una conoscenza che non poteva ridursi alla pratica, alla immediata utilità. Questo spiega anche l’impossibilità di passare da una ricerca della sophia ad una sapienza stessa. Infatti, spesso i temi della ricerca sono questioni inattingibili ai sapienti. Ad esempio, la morte è qualcosa che ci riguarda tutti, ma non è necessario alla vita sapere cosa sia la morte. Si può vivere ignorando completamente il problema della morte. Ecco che qui si vede bene la differenza tra una conoscenza finalizzata all’utilità e la conoscenza che viene dalla richiesta di senso che eventi come la morte risvegliano.
La mente (in greco nous)
pone il problema del senso. Se non ci fosse mente, non ci sarebbe problema.
Nello zen esiste un racconto in cui il discepolo chiede al
maestro: Come pensare? (How to think?)
Il maestro risponde: Non pensare, o non pensiero. (Not to
think.)
A questo punto c’è una difficile traduzione di non pensiero: Si deve distinguere tra Not-thinking e no-thinking.
Il no-pensiero dello zen deve contenere un qualche tipo di
pensiero. Non è semplicemente assenza di pensiero.
Dōgen nasce nel 1200, quando in Europa si assiste al massimo
sviluppo della scolastica. Ma spesso l’apice di una tradizione o di un filone
culturale è anche il segno dell’inizio della decadenza o crisi del pensiero
stesso.
Dōgen, che ha avuto un lutto grave quando ancora era
bambino, la morte della madre, all’età di quattordici anni matura una domanda
che lo porta a recarsi come monaco presso un tempio buddista, per intraprendere
la vita monastica.
La sua domanda è: “Ma se possediamo già tutti la natura di
Buddha, perché praticare?”
Il maestro a cui pone questa domanda risponde che i Buddha
del presente e del passato non sanno, mentre i tassi e le vacche lo sanno. Ad esempio, sanno di dover mangiare, sanno quando devono
mangiare, ecc.
I tassi, tuttavia, non sanno di dover morire. Potremmo dire
che sanno, ma in fondo non sanno. I Buddha non sanno, ma in che senso?
I tassi non sanno né il senso né lo scopo della loro
esistenza. Gli animali non sanno nulla. Chi sa, potremmo dire che non sa.
A questo punto possiamo introdurre l’elemento centrale
dell’insegnamento di Dōgen, ossia che corpo-mente cadono giù.
Possiamo individuare tre stadi (o stati) della conoscenza.
Il primo è la conoscenza del tasso. La seconda è la
conoscenza intellettuale. Nel terzo stadio si recupera la spontaneità iniziale, ma
passando dal secondo stadio. Facendo un parallelo con l’Aikido, all’inizio non
si è consapevoli, quindi ci si muove spontaneamente. Poi si inizia a vedere che
ci sono istruzioni da seguire, postura da correggere, abitudini da cambiare. Ad
un certo punto ciò che sembrava naturale, applicando il pensiero, non lo è più.
Quando si arriva ad un livello di maestria come quella del
Maestro Bertossa nell’Aikido, si può dire che ritorna la naturalezza del tasso,
ma essendo passati dal secondo stadio.
Un esempio che si fa spesso è quello del millepiedi, che cammina senza pensare di avere mille piedi e lo fa con totale naturalezza. Quando qualcuno gli fa notare che è molto bravo a camminare con mille piedi senza mai inciampare, il millepiedi vuole fare ancora meglio e si mette a pensare a come cammina, col risultato di non riuscire più a camminare, in quanto inizia ad inciampare e ad arrotolarsi su se stesso.
Noi, come uomini, pensiamo. In altri termini c’è una mente. Non possiamo tornare allo stadio in cui non pensavamo, come il tasso. Ma non siamo ancora dei Buddha. Chi pone una domanda testimonia la capacità di poter diventare Buddha, ma anche che non lo è ancora.
Cartesio dice: Penso, quindi sono. Nella tradizione buddista questo verrebbe detto: Penso, quindi ho la possibilità di riscoprire la natura di Buddha.
28 aprile mattina
Nel novecento l’arte si libera dalla religione, diventa
“arte per l’arte”.
Tecnica e arte hanno la stessa radice greca, techné. Ma poi si sono separate. Negli ultimi duecento anni hanno vissuto separatamente.
L’arte contemporanea vive separata anche dalla religione.
Addirittura religione e arte sono spesso in contrap- posizione. Anche nell’ambito
buddista esiste questo problema.
Oggi parleremo di Sesshū, pittore, che si è occupato
dell’arte della pittura a inchiostro.
La pittura a inchiostro giapponese ha la caratteristica di
porre l’attenzione non sulla superficie, ma sulla linea. Più che una
sensibilità passiva, bisogna esprimere qualcosa, cioè la linea ha in sé una
forma espressiva più attiva. Questo porta a pensare che questo tipo di arte
abbia più a che fare con la spiritualità, con una attiva ricerca spirituale.
Questo spiegherebbe il motivo per cui la pittura ad inchiostro ha avuto una
grande diffusione tra i monaci zen.
Un’altra differenza occorrerebbe farla tra arte cinese e
giapponese. La pittura ad inchiostro, infatti, è stata importata dalla Cina.
In Giappone c’è una grande attenzione per quanto riguarda la
distinzione tra le varie stagioni dell’anno. Nella composizione di un Aiku,
forma artistica della composizione dei versi, ha grande importanza la presenza
di almeno un riferimento, che sia un uccello, un fiore o altro, alla stagione
in cui è stato composto. Ad esempio, il cervo sta ad indicare l’autunno, il
ciliegio la primavera e così via.
Nei dipinti cinesi non è presente questo vincolo artistico, che da un lato sta ad indicare lo scorrere delle stagioni, del tempo, e dall’altro pone attenzione alla stagione presente.
Pensiamo alla prima immagine dei dieci dipinti del bue,
quella più famosa, di un monaco di Kyoto, Shubun.
Sesshū era un allievo di Shubun, quindi probabilmente conosceva i dieci dipinti del suo maestro.
Rivediamo il percorso dei dieci dipinti del bue:
In giapponese, per dire tempio si usa l’ideogramma che
significa montagna. Quindi quando diciamo le porte della montagna, significa
l’ingresso del tempio.
All’inizio l’uomo è alla ricerca del bue. Non lo trova ed è
completamente perso, non sa dove cercare. Il secondo dipinto ci mostra che
l’uomo ha visto le tracce e quindi ha una direzione, inizia la ricerca in una
via. Il terzo dipinto significa che si ha una conoscenza intellettuale del
buddismo. La quarta rappresenta la lotta col bue, che rappresenta la verità. La
quinta indica il bue che si ammansisce. A livello del corpo, la natura di Buddha
è la propria natura. La sesta immagine rappresenta bue e cercatore che
diventano una cosa sola. Nella settima, l’uomo si dimentica del bue. C’è un
aspetto negativo ma ce n’è anche uno positivo in questa rappresentazione. Si
dimentica di iò che ha trovato, ma anche non si attacca a ciò che ha trovato.
Nella ottava, il quadro è semplicemente vuoto. Non c’è nulla. Ma il mondo invece c’è. Se dimentichiamo di mangiare o se smettiamo di avere rapporti con gli altri, rimaniamo con una conoscenza parziale. Nella nona, quindi, si torna a conoscere il mondo. Nella decima , l’uomo grosso è quello che all’inizio era alla ricerca del bue. Quindi la prima e la decima figura sono la stessa cosa.