Non è certo se la pratica di Dhyana, dell’assorbimento nel Sé più profondo, risalga alla cultura Arya o addirittura sia pre-ariana.
Oltre ad essere descritta nei testi sacri Veda, i più antichi testi sapienziali dell’India ariana, si sono trovate statuine di uomini in meditazione negli scavi della valle dell’Indo, sede di civiltà pre-ariane. Ciò significa che nell’area culturale proto-ariana qualcuno ebbe l’esperienza del “divino dentro se stessi”:
Dhyana è perciò la via per identificarsi col vero Sé.
Venivano usati molteplici mezzi per indurre l’assorbimento: mantra, sacrifici, riti vari, droghe.
Nacque probabilmente come ausilio alla immersione in sé: quindi è una via per la ricerca del “divino”.
In che modo dobbiamo riformulare la domanda perché il termine “divino” abbia un senso per noi? L’antico messaggio vedico pare conservare un nucleo tuttora valido. Infatti non ci induce a cercare fuori di noi una risposta al problema esistenziale, ma nella concretezza di esistere in quanto persone, identità.
Lo Hatha Yoga può aiutarci ad approfondire la coscienza di noi stessi.

Ramana Maharshi ad ogni domanda rispondeva: “Chi sta domandando?”. Ossia stimolava a prendere coscienza di chi si è, prima di fare altri passi.
In realtà “Chi sono io?” è domanda fondamentale obbligatoria per un uomo che aspiri ad essere più consapevole.
Lo Hatha Yoga parte dalla concretezza di esserci.
La via dello Hatha Yoga passa attraverso la coscienza del corpo e porta alla sua immobilità, Asana che porta alla coscienza del respiro e alla non dispersione dell’energia vitale: Pranayama, che a sua volta porta a rallentare il flusso mentale e agli spazi che evidenziano un centro immobile silenzioso e cosciente.
Quindi è una via per la coscienza, coscienza precedente il pensiero.
Ci serviamo di una particolare visione per muoverci nello Yoga:
Vi è un centro cosciente che percepisce attraverso i sensi.
Attraverso una pratica progressiva si va verso l’assottigliarsi degli stimoli. A questo corrisponde un amplificarsi della percezione attenta, in un primo tempo e della coscienza-in-sé, in meditazione: Dhyana. Lo Hatha Yoga conduce ad uno stato quieto, luogo di visione interiore, di evidenziazione del fondo di sé, eterna presenza.
Sorge ora una domanda affascinante: come approfondire la coscienza?
In quali particolari condizioni la coscienza può divenire più profonda?

Noi ci riconosciamo in quanto esseri coscienti. La coscienza ha diversi gradi cui corrispondono parole diverse: coscienza, attenzione, consapevolezza. L’esser coscienti significa che qualcosa in noi è in grado di percepire. Dirigere questo qualcosa vuol dire essere attenti. Quando, attraverso un particolare stupore ci accorgiamo profondamente di qualcosa che così viene a far parte di noi , diveniamo consapevoli.
Perciò occorre costruire una pratica con caratteristiche tali da risvegliare un interesse e perciò guidare l’attenzione verso le profondità di noi stessi ove, eventualmente, si possa divenire consapevoli di qualcosa. Lo Hatha Yoga parte dalla concretezza della persona umana, dal corpo e dalla sua coscienza.

Una sequenza parte sempre da un profondo rilassamento in Shavasana, posizione di grande immobilità, in cui lentamente tutte le parti del corpo cedono completamente alla gravità.

PESO, BASE D’APPOGGIO, COSCIENZA DELLA RELAZIONE TRA ESSI, EQUILIBRIO

Il peso è una caratteristica della materia. Si sa che anche la luce è pesante. La gravità è una caratteristica dell’universo. Che ne siamo coscienti o meno, ci muoviamo nella gravità. Il nostro corpo è stato modellato nella gravità, per poter agire nonostante la gravità.
Il primo e più importante passo nella pratica è stabilire una relazione cosciente con la gravità.
Il punto di partenza è perciò prendere coscienza della base su cui si scarica il peso del nostro corpo.
Che noi si dorma o si corra, ci si poggia sul suolo attraverso una più o meno estesa area.
Esiste una qualità del poggiare per terra e dipende dalla ricerca dell’equilibrio, dell’uso essenziale dei muscoli, e tutto ciò dall’attenzione nel processo di tale ricerca. Perciò la coscienza nel processo di ricerca dell’ottimale distribuzione dei pesi è una via, un mezzo idoneo per un centramento psichico.

Esperienza della base d’appoggio in Shavasana

SHAVA – cadavere. Shavasana è tradizionalmente la posizione supina, di massimo abbandono alla gravità.
Può essere utilizzata all’inizio della sequenza per creare uno stacco e calarsi in un nuovo stato di ascolto.
Shavasana permette alla gravità di ripulire il corpo e la mente. Ogni cosa cala nel suo stato più semplice e originario. Così le fibre muscolari si allentano e anche il cervello, la mente possono abbandonarsi e dar spazio a momenti di silenzio e calma profondi.Il respiro torna a pulsare con ritmi originari e semplici ed è l’occasione per entrare in relazione cosciente con esso.
Altresì Shavasana permette, dato che il rilassamento profondo cancella le sensazioni periferiche, di percepire, al risorgere del movimento, il lavoro muscolare con gran sottigliezza. Così si possono selezionare accuratamente le energie muscolari e mentali, cosa che favorisce la sensibilità.
A questo punto è indispensabile introdurre un principio di fisiologia; se, mentre sostengo sulle braccia una pesante valigia, vi si posasse una farfalla, non avvertirei il suo ulteriore peso. Se invece sul palmo della mia mano poggiasse un foglio di carta e ritornasse la farfalla, avvertirei la differenza di peso. Ciò significa che minore è l’impegno muscolare, maggiore è la sensibilità.
Da questo segue l’importanza dell’uso appropriato dei muscoli indispensabili.
Il rilassamento riduce le tensioni e ciò può indurre all’allentamento dell’attenzione.
Per la pratica è indispensabile il polo coscienza perciò Shavasana deve permetterci la coscienza del progressivo svanire delle sensazioni.
Per meglio giungere a questo occorre accompagnare la pratica di Shavasana coll’attenzione alle sensazioni causate dalla gravità fino alla totale immersione. Perciò occorre evitare il sonno.

Shavasana è un’esperienza di coscienza: è la lavagna pulita su cui cominciare a scrivere ed ogni segno sarà estremamente chiaro.

Riguardo alla sua durata il criterio è di seguire le indicazioni del profondo.
Senz’altro è necessario giungere ad uno stato di cancellazione delle sensazioni periferiche. Ad esempio se il rilassamento sarà profondo non si sarà più in grado di distinguere se le dita di una mano siano aperte o a contatto fra di esse. Così a partire da niente, qualcosa sarà molto distinto.
La pratica ci insegna a riconoscere l’aprirsi e il chiudersi di cicli. In ogni momento della seduta, ad esempio in Shavasana, o nelle varie asana, o nelle compensazione ecc. si presenta l’opportunità o il bisogno di iniziare e terminare.
Questi tempi scaturiscono dall’interno. Ecco un ulteriore motivo per essere coscienti nella pratica: cercare di cogliere le aperture per inoltrarsi al momento giusto in una posizione ed uscirne quando conviene.
Shavasana è anche la situazione che, dopo una posizione statica e la sua compensazione, permette di divenire coscienti degli effetti della pratica e nuovamente di tornare allo stato più profondo, più semplice, prima di inoltrarsi ulteriormente nella sequenza.
Se durante la pratica sentiamo che abbiamo perso il ritmo profondo perché, per esempio, abbiamo forzato l’intensità o la velocità o il respiro, o mal dosato l’impegno muscolare, Shavasana può riportarci all’origine. Shavasana ci permette di valutare lo stato delle nostre energie e se sia necessario continuare a bilanciare o stia evidenziandosi DHYANA.