Tratto da: Antiche e moderne vie di illuminazione n. 8, ASIA

Sommario

  1. Prologo: la musica esordisce nel Novecento con una radicale trasformazione. Crisi e dissolvimento della tonalità. Le dissonanze del primo Schönberg.
  2. Periodo di silenzio. Il contesto filosofico ed artistico. Smarrimenti esistenziali.
  3. Sullo spigolo dei mondi del silenzio. Il non-suono e il nulla. La forza che sostiene e la necessità interna della musica.
  4. Procurarsi gli strumenti di lavoro. Nascita della Dodecafonia. Lavoro febbrile per organizzare l’intraducibile. Le sorprendenti consonanze degli ultimi anni.
  5. La Scuola di Vienna. Rigore dell’insegnamento. I grandi allievi: Alban Berg e Anton Von Webern. La via di John Cage verso il nulla e lo Zen.
  6. Le reazioni delle platee di Vienna. Frattura tra Compositore e Uditori. La musica della suspence. Un suggerimento per l’ascolto.

 

Lo sgiairdo rosso di Schönberg

A. Schönberg: Lo sguardo rosso

1. Prologo: la musica esordisce nel Novecento con una radicale trasformazione. Crisi e dissolvimento della tonalità. Le dissonanze del primo Schönberg. – indice
Tra l’inizio del secolo e il 1914 , Arnold Schönberg compositore austriaco già noto e riconosciuto come un giovane talento emergente, si pose interrogativi fondamentali sulla natura del processo compositivo ed espressivo. La musica di fine Ottocento era arrivata al culmine di tre secoli di evoluzione della “tonalità”, la particolare costruzione che stabilisce un centro di gravitazione tonale attorno al quale si dispongono tutte le note della composizione, ognuno con il suo particolare ruolo e con specifiche relazioni con il centro tonale. Wagner, Mahler, Strauss gareggiavano in queste strutture, arrivando fino al limite delle possibilità dell’armonia tonale.
Su questo limite e nella grande complicazione dell’armonia tonale si erano evidenziate molte contraddizioni: i rapporti armonici diventavano ambigui e la sintassi, così libera e convoluta per cercare di esprimere i sentimenti romantici, si indeboliva nelle basi teoriche. Arnold Schönberg si pose il problema di semplificare, cogliere di nuovo l’essenza della musica.
Un parallelo interessante con quanto Schönberg fece per mettere in discussione la tonalità che era il centro di riferimento della musica fin dal XVII secolo, viene dalla fisica. Sempre nei primi due decenni del ‘900 Albert Einstein sviluppava la sua rivoluzionaria teoria della relatività, scoprendo che il tempo e lo spazio non sono riferimenti assoluti come si credeva da Newton in poi, ma “oggetti”, relativi alla velocità e al sistema di osservazione: un chilometro o un ora non sono più tali se vado alla velocità della luce.

Inizialmente questo giovane e promettente compositore inserì nelle sue composizione delle dissonanze – come già avevano fatto i musicisti della generazione precedente – ma senza risolverle poi in accordi di tonica. Si tratta di note simultanee o intervalli di note che causano all’ascoltatore senso di disagio e tensione, e che per la prima volta sopportano di non concludersi congradevoli “consonanti”. Dal punto di vista fisico-acustico le onde sonore di frequenze dissonanti si rinforzano in picchi di intensità e si indeboliscono in spazi di vuoto creando il fenomeno dei “battimenti”. Dal disordine delle frequenze nasce inquietudine ed un senso di angoscia.
Le dissonanze entrano nella struttura della musica come virus di stranezza: con Schönberg non sono più abbellimento o breve digressione come nella musica tonale, ma hanno una dignità a sé, che sopporta di non concludere, di non risolversi in modo rassicurante. Divengono persistenti e sistematiche, di durata tale da renderle sempre più estranee all’armonia e fanno crollare la struttura.
Scompare la preparazione, lo sviluppo e la risoluzione del brano intorno a un centro tonale, in favore di una tonalità scardinata. Oltre alla struttura delle composizioni, anche quella dei mezzi espressivi andò frantumandosi: Schönberg ridusse sempre più l’uso della grande orchestra sinfonica dell’800, in favore di organici ridotti, cameristici o addirittura solisti.
In una trasformazione drammatica le dissonanze dilagarono nelle opere di Schönberg, stupendo il loro suo stesso creatore. In pochi anni si ritrovò nella “atonalità”, un mondo di sonorità sconosciute che gli toglieva il terreno sotto i piedi. Ridusse le composizioni a pezzi per pianoforte di pochi minuti (Cinque pezzi per pianoforte, Opera 16), o sostenendole con recitazioni poetiche che fornissero una struttura alla musica (Pierrot Lunaire). E in breve si zittì del tutto.

2. Periodo di silenzio. Il contesto filosofico ed artistico. Smarrimenti esistenziali. indice
Privata del suo centro, denudata, la musica non era più bellezza dispiegata, la descrizione di romantici slanci dell’anima; ma solo suoni incomprensibili, arbitrari, gettati nell’orecchio del compositore. La perplessità di Schönberg crebbe fino al totale silenzio: per dieci anni non scrisse più nulla, si arrestò come smarrito, chiedendosi se non si era spinto troppo in là.
Come resistere alla tentazione di tornare al terreno stabile di pochi anni prima? Solo la innata musicalità di un grandissimo artista poté dominare –vedremo come – un mondo di sonorità così disarticolate. Ciò fu possibile grazie ad una capacità unica di scomporre e analizzare, con uno stile breve e conciso che va direttamente all’essenziale, a ciò che è necessario.
Ma prima di analizzare e da origine al nuovo, si trattò per Schönberg di reggere la sensazione che alla sua arte mancasse un senso compiuto, il dubbio che fino a quel momento si fosse solo “inventato” la compiutezza in musica. Diverso fu il percorso di Strawinsky, l’altro grandissimo compositore del Novecento (il quale pure percepì il crollo per saturazione del linguaggio musicale dell’Ottocento): per lui il campo di attrazione tonale è una caratteristica della natura, la conformazione assoluta e fondante della percezione uditiva.
A Schönberg invece la musica si rivelò come presenza sconcertante: un “suono in sé”, non veicolo di significati, ma presenza intraducibile che chiede la ragione, il senso del suo apparire.
Simili domande si posero lucidamente anche in ambito filosofico nel mondo tedesco dell’inizio del ‘900: Husserl ricondusse l’attenzione alle “cose in sé”, fenomeni puri. Attraverso la “sospensione del giudizio”, delle convinzioni e delle idee preconcette egli si propose la ricerca del “a priori che si affaccia sul contesto del sensibile”, dalla cui percezione dipendono tutte le cose.
Alla base vi è la stessa perplessità di fronte al carattere inafferrabile e intraducibile della esperienza, anche sonora: spogliato di riconoscimenti e giudizi, cos’è un suono? Cos’è ciò che sente?
Questa ricerca filosofica si slancerà poi con Heidegger fino alla straordinaria domanda filosofica: quale è la causa, la giustificazione della esperienza più totale e generale, l’esperienza di Essere e di saperlo? Perché non, piuttosto, il nulla?
Ma anche prima della sua lucida formulazione filosofica, questa domanda premeva nella sensibilità del Novecento artistico. Nello stesso periodo storico e soprattutto in Nord Europa tutte le arti ripiegavano la loro attenzione sul mondo delle esperienze dirette. L’Espressionismo con il suo punto di partenza soggettivo, dall’interno dell’esperienza umana, descrive l’uomo solo, smarrito dalla mancanza di senso, angosciato per essere preda di forze incomprensibili. Un urlo di consapevolezza e di insopportazione attraversa la pittura, come nel celebre quadro del norvegese Munch “Il Grido – 1893”.
Ma che tipo di esperienze erano? E quale era l’esperienza guida del nostro – per ora silenzioso – compositore?

3. Sullo spigolo dei mondi del silenzio. Il non-suono e il nulla. La forza che sostiene e la necessità interna della musica – indice
Gli artisti operano sul sentire estetico, si nutrono di sorpresa. Ognuno viene colpito nella sua specifica sensibilità, ma sempre è un sobbalzo, un tuffo al cuore.
Il sobbalzo che visse Arnold Schönberg fu quello di veder risaltare il materiale sonoro come se provenisse dai mondi del silenzio. Come una vibrazione inquietante invece del silenzio, della semplice totale assenza di suono. Su questo sfondo muto e vuoto si staglia improvviso il suono, sempre stridente al suo primo apparire, come la luce per un neonato è sempre troppa.
Cos’è? Per dirlo bisognerebbe usare altri suoni, altri brandelli di non-silenzio. Perché è apparsa quella musica, quel suono? Cosa ne giustifica l’esistenza? Da dove viene?
Quella di Schönberg fu una discesa verticale nell’assurdità e nel mistero del suono, da cui riemerse ammutolito.
Possiamo pensare che il fenomeno del suono gli apparve come un atomo di presenza, non più in relazione preferenziale e “armonica” con le altre note. Un suono evidente ma spogliato e scarnificato: ripulito da ogni struttura musicale arbitraria: è solamente così come è, ma nello stesso tempo è dinamico, implacato, vibrante di stranezza.
Da questo spigolo affacciato sui mondi del silenzio, il suono si svuota delle sue qualità senza assumerne altre, si presenta come … non-suono. E permette il passaggio cardinale, raramente espresso a parole ma precisamente sentito, dell’imbattersi in un non-qualcosa invece che il niente. Invece del “non c’è” di ogni evento. Non una nota su uno sfondo bianco e silente, ma una nota senza sfondo. Provate a immaginarla e avrete la prova che non è qualcosa che si può pensare o rappresentare, ma solo vivere e sentire.
Fu un momento di passaggio fondamentale per tutta la musica del Novecento: pur senza riuscire a dirselo, l’artista si imbatté nell’esistenza del suono invece che nulla!

Da questo tipo di esperienza nasce un problema assai serio: quale senso dare alla musica, una volta tolta alla vibrazione sonora quella vernice di normalità che tre secoli di convenzioni musicali vi avevano dipinto sopra? Una volta che ci appare solo come una presenza inquietante, senza provenienza e sfondo che risalta in una luce esasperata. Innanzi tutto occorre un grande animo che abbia la forza di sostenerla, e che possa quindi guardarla a fondo e sviluppare, senza nulla voler mai perdere della sua radicale intuizione.
Un suo allievo, Wellesz, scrisse che “la sua vita era difficile, piena di tensione e dell’angoscia che traspare nei suoi quadri (Schönberg dipinse per un lungo periodo), una angoscia così intensa che sfonda le barriere della tonalità; e gli era necessaria un’energia sovrumana…”
Questo tipo di percezione toglieva anche al compositore la sua posizione di “libero creatore” romantico di stampo ottocentesco, che reinventava l’opera d’arte con ricchezza di mezzi e operando su un vastissimo materiale musicale. Riportando l’esperienza al “soggetto”, alla prima persona costretta a reggere l’urto della rivelazione della totale assurdità e a trasformarla in espressione artistica, Schönberg stesso disse:
“L’arte non nasce dal posso ma dal devo”
Non c’è libera scelta nell’interiorità, ma constatazione delle forze che ci muovono. Questo constatare non è inventare, ma osservare ciò che è già così e si muove da sè.
Il “soggetto” stesso del compositore è condizionato dal sentire che si ritrova, ed è questo che cerca di fissare, di riportare nell’opera. Ciò che è essenziale, è necessario e quindi non-libero ma completamente determinato da un sentire dominate e inflessibile, anche se imprevedibile negli sviluppi. Spogliata dalle illusioni di sentimenti, libertà, oggettività, per Schönberg
“la musica non deve ornare, deve essere vera”.
La musica così ripulita, rivela il suo carattere enigmatico, di mistero abissale.
La lettura che il Maestro fece di questo mistero è riportata nella sua geniale produzione compositiva, tra le pagine più inquietanti e significative dell’arte del ‘900. Un percorso immenso condotto nell’arco di più di 50 anni, di cui tracceremo pochi segni.

4. Procurarsi gli strumenti di lavoro. Nascita della Dodecafonia. Lavoro febbrile per organizzare l’intraducibile. Le sorprendenti consonanze degli ultimi anni. – indice
Lo spazio di silenzio artistico di Schönberg, durò dal 1914 al 1924. In dieci anni cercò di organizzare il mondo della dissonanza e della tonalità sospesa che aveva scoperto, e di dargli un senso logico. Possiamo immaginarlo alle prese con queste domande:
Un paesaggio così strano e ignoto, apre tante prospettive …. l’una vale l’altra?
C’è una via alternativa al silenzio?
Quale linguaggio per tradurre questo sentire?
Se la musica ora non è più “sentimento” ma “oggetto” incomprensibile, come renderlo organizzato e intelleggibile?
Alla fine le sue intenzioni presero forma nella Dodecafonia: un metodo di composizione con ” una serie di 12 suoni in relazione solo con sé stessi”.
I dodici suoni erano privi di qualunque gerarchia tra loro (tonica, dominante, etc.), o di alcuna relazione privilegiata.
Egli utilizzò una semplice logica matematica per dominare lo sviluppo delle serie, un binario sotteso che guida la composizione. Uno schema, iperdefinito e conciso, in cui i suoni si propongono isolati, sostenuti da relazioni fittizie ma ancora più abbaglianti e stridenti.
Nonostante le feroci critiche di freddezza, intellettualismo, schematismo alle sue prime composizioni (ma chi si sentiva costretto da queste “nuove regole artificiali” non era allo stesso modo costretto dalle vecchie?) egli raggiunse il suo obiettivo: una solidità della forma che lo sostenesse nel mare della dissonanza permettendogli di esprimere così il suo sentire. Con fortissimo senso della logica musicale, si procurò una zattera consapevolmente arbitraria, uno straordinario strumento per esplorare: più che cercare la pace, la composizione “seriale” rilancia la perplessità in modo sempre più profondo. Restando sospesa al filo di 12 note intraducibili, senza ruoli o significati ma organizzate in serie, comunica sconcerto e perplessità. Una intuizione potente.

L’energia che Schönberg riversò nelle prime composizioni dodecafoniche fu rilevantissima, producendo in pochi anni autentici capolavori (Variazioni per orchestra, Op.31). Lo colse il fervore per l’aver trovato uno sbocco, un canale espressivo, arginato da norme precise e numeri affascinanti: in esso poteva far scorrere quella energia della stranezza, della incompiutezza, della sospensione. Tuttavia non lo rivendicava come strumento assoluto, era solo un mezzo, una guida per la sua creatività.
La teoria della dodecafonia fu il suo modo di trovare la lucidità che non aveva più, per resistere al senso di vulnerabilità quell’essere “senza pelle” al contatto con l’assurdo che precipitava nel suo orecchio. Non una vera domanda filosofica, non un capire… Schönberg continua a subire la sua condizione di estrema sensibilità, ma trova la strada per rilanciarla nell’orecchio del suo secolo, come a dire: “…ma nessuno di voi sa più di questo sconcerto!”.
Certamente il metodo seriale è troppo rigido e schematico, ma bisogna considerare la tremenda energia di sfondamento che dovette contenere, e che fu il primo tentativo formale di capacitarsi ed esprimere questi “strani suoni”: ha aperto la via a tutta la musica del Novecento.
Schönberg riuscì ad organizzare l’intraducibile, senza cercare di tradurlo. Il suo scopo era restituirlo all’ascoltatore riproponendo, attraverso la mancanza di relazione armonica con altri suoni, una presenza non connotabile – sia del suono che dell’ascoltatore – ma con tutta la sua incomprensibile dignità e densità di esistente senza sfondo.
Le ultime opere di Schönberg sono fortemente influenzate dal dramma della seconda guerra mondiale e dall’Olocausto. In quanto ebreo fu costretto a fuggire dall’Austria nazificata e a rifugiarsi come profugo negli Stati Uniti e dalla forzata riscoperta delle sue radici (da giovane si era convertito al protestantesimo) ricevette l’ispirazione per drammatiche opere brevi (Kol Nidre; Un sopravvissuto di Varsavia). Oltre alla loro profonda bellezza, sono significative perché in esse riaffiorano inaspettati alcuni elementi tonali ma non si tratta di una attenuazione del rigore compositivo; Schönberg stesso ebbe a dire:
“una mente allenata alla logica musicale non fa errori anche se non è conscia di tutto ciò che compie: la comparsa di armonie consonanti nelle serie sorprende anche me”.
Pur senza cercare di tornare a qualche centro di riferimento, è possibile che si formi un centro armonico di derivazione seriale! La organizzazione della serie senza relazioni privilegiate arriva qui a non preferire neppure il suo stesso non preferire: se emerge un centro tonale lo si espone liberamente. Forse per questo il centro non ha quel carattere risolutivo dei secoli precedenti. Esiste realmente, si presenta ed è effettivamente una funzione centrale, ma non è il senso di tutto. Ascoltando questi canti, il senso di inquietudine e di assurdo rimane straordinario, difficile a sostenersi.

5. La Scuola di Vienna. Rigore dell’insegnamento. I grandi allievi: Alban Berg e Anton Von Webern. La via di John Cage verso il nulla e lo Zen. – indice
Il personalissimo stile espressivo di Schönberg era così controllato e rigoroso da fare di lui un caposcuola. Anche se non si ritenne mai un teorico musicale scrisse opere di armonia fondamentali e diede sempre grande importanza all’insegnamento. Richiedeva totale dedizione ai suoi allievi, ponendosi in modo autoritario e magnetico.
Di fatto Schönberg fu radicale per tutta la vita, sia nella produzione artica che nell’insegnamento. Rifiutò i compromessi andando incontro a perenni difficoltà economiche, sia da giovane sia quando fu famoso e riconosciuto. Era straordinariamente severo ed intransigente con quei compositori che cercavano di prendere quanto di innovativo potevano adattare del suo stile per poi inserirlo in strutture fondamentalmente tonali, come dire mettendo “vino nuovo in otri vecchi”. Infatti quando il suo influsso sul mondo musicale divenne potente, come sempre accade diventò “di maniera” spiluzzicare dissonanze, inserire sospensioni e silenzi, selezionandole con buon gusto e inserendole in quelle forme e architetture tonali a cui non si sapeva rinunciare.
Forse fu per questo che sentì sempre il bisogno di insegnare personalmente ciò che aveva intuito. E lo fece con successo , visto che i suoi due principali allievi, Berg e Von Webern, entrambi austriaci, ebbero percorsi peculiari di altissimo valore.
L’opera di Alban Berg è più appassionata e lirica: egli utilizza con libertà e in modo personalissimo i metodi elaborati dal Maestro, scaldando la “tonalità dissolta” con il calore di una sensibilità romantica. E’ autore di “Wozzeck”, tra le più importanti opere liriche del ‘900 per il teatro, che narra i drammi della condizione di un povero soldato tormentato dalla sorte e da allucinazioni, costernato e costretto ad una esistenza tragica nel carnaio della guerra.
Nel “Concerto per violino” dedicato alla scomparsa della giovane figlia che l’amica Alma Mahler, vedova del compositore e ora moglie dell’architetto Walter Gropius, il dramma della morte prematura di un innocente trova in Berg una voce perplessa e profondamente commossa.
Forse questo senso di grande commozione ne è il tratto più peculiare: ascoltando la sua musica si ha la limpida impressione che da un lato gli eventi siano immobili e proprio-così, e che dall’altro questo non può lasciarci indifferenti, sempre muove uno struggimento insondabile. Perché ci riguarda: i personaggi, chi compone, chi ascolta sono della stessa natura di quei suoni sospesi. Ci si sente indicati, strani fantasmi.
L’altro grande allievo di Schönberg, Anton von Webern, va oltre il Maestro, liberando anche il ritmo e il timbro delle regolarità di forme. Riducendo tutto all’essenziale giunge a una fragilità lirica assoluta, concentrata e tagliente: poche decine di secondi per i “Cinque pezzi per pianoforte” e pochi minuti per le sinfonie (“Sinfonia” e “Quartetto per archi”).
Con Webern anche la melodia esplode come l’armonia, si disperde tra diversi strumenti dai timbri differenti ognuno dei quali recita una “costellazione” di poche note che rimane sospesa, solo per essere rilanciata da un evento simile ad opera di un altro strumento: l’effetto è una fragilità emozionata, smarrita, dotata della concisione stupita di un haiku, la brevissima forma di poesia giapponese in 17 sillabe.
La serie non serve più a dare una struttura, una fibra allo spazio sonoro. Von Webern raggiunge in altro modo lo spigolo sui mondi del silenzio, il limite estremo prima della disintegrazione di melodia, armonia, ritmo, timbro. Un limite dal quale immergersi in verticale nella semplice esistenza del suono, perché nella estrema rarefazione della composizione emerge ancora più potente il contrasto della musica destrutturata con il nulla che essa non è, ma che evoca nel nostro sentire.
Forse la più spudorata esposizione del nulla nella storia della musica fu quella di John Cage: il geniale musicista americano ( che studiò composizione anche con Schönberg stesso) incise nel 1954 il brano 4′ 33″, in cui la musica si dissolve completamente. La partitura richiede al pianista di sedere in silenzio davanti al suo strumento per quattro minuti e trentatre secondi. Vista dall’interno di quella assenza virtuale ma assoluta di suono, così semplice, piana, normale, ogni musica è una complicazione subito eccessiva, assordante. Il musicista si è definitivamente estraniato, resta il silenzio invece che nulla, resta energia straripante di mistero. Come si dice nel Buddismo Zen (dal quale Cage fu grandemente affascinato) si tratta di ascoltare “il suono di una mano sola” o, come indica questa antica poesia di una monaca buddista giapponese:

non domandare oltre
ma ascolta il canto dei cedri e dei pini
quando non c’è un alito di vento
(Ryonen, XVIII sec.)

6. Le reazioni delle platee di Vienna. Frattura tra Compositore e Uditori. La musica della suspence. Un suggerimento per l’ascolto. – indice
Lo scandalo che il giovane Schönberg, già compositore affermato, pupillo di Strauss e Mahler, scatenò con i suoi concerti a “tonalità sospese” fu fin dall’inizio violentissimo con tumulti nei teatri e interventi della polizia: lo si accusò di distruggere la musica, di svilirla e svuotarla. Tanto più rilevante appare allora la sua forza nel proseguire la strada intrapresa senza condizionamenti e ferma fiducia nelle sue intuizioni: anche quando la teoria delle serie dodecafoniche (che tuttavia non è priva di punti deboli) e le prime opere furono presentate, furono aspramente criticate come cerebrali e incomprensibili, calcoli freddi e monotoni, e non furono mai accettate dal grande pubblico.
Con Schönberg si creò quella frattura tra compositore e pubblico le cui conseguenze sono rimaste in tutta la musica colta contemporanea che ha dovuto raccogliere e ampliare la sua profonda critica: la musica colta del Novecento rimane relegata a un campo da specialisti.
Non dimentichiamo che fino all’inizio del Novecento la musica che oggi chiamiamo “classica” restava ancorata a sistemi di riferimento culturali e sociali ben comprensibili. Invece la sensazione che coglie l’ascoltatore della musica dodecafonica e seriale è di repulsione per 4 elementi tecnici: 1) dissonanza; 2) assenza di centro tonale; 3) stile concentrato e frammentato; 4) mancanza di emotività.
Ma soprattutto per l’inquietudine che trasmette, recepita dalle viscere e dal cuore, ma a cui la mente si ribella: non accetta di restare senza riferimenti.
Il senso di stranezza che suscita viene in genere risolto e trasformato in emozioni più riconoscibili che vanno dal disgusto, all’orrore o alla nausea sartriana. La musica del nostro tempo non suscita affetto e ammirazione. Continuiamo a vivere in un bagno di tonalità, in cui l’armonia ci fornisce riferimenti precisi: non ci lasciamo disorientare senza reagire.
Come ci ricorda Glenn Gould nel suo libro “L’ala del Turbine Intelligente”, l’unico campo di pubblico dominio in cui la tonalità sospesa ha avuto una enorme diffusione sono le colonne sonore dei film dell’orrore di Hollywood e delle serial TV di avventure poliziesche o di fantascienza. La dissonanza si è integrata solo là dove sottolinea la bestialità, l’orrore, il terrificante insito nell’essere umano. Oppure dove domina la “suspense”: qualcosa non torna… sul filo delle domande:
Chi è l’assassino?
Perché l’avrà fatto?
Cosa sta succedendo?
Cosa sono?
In che mondo sono capitato?
Anche l’inquietudine è un genere di largo consumo: forse per la forte sensazione che procura, o per il sospetto che in fondo prometta un Significato?

Quella di Schönberg e dei suoi allievi non è musica da ascoltare quando si è occupati in qualche attività intellettiva o manuale. Questo è possibile e piacevole con quasi tutta la musica che ci sostiene… la musica seriale richiede tutto all’ascoltatore: la sua mancanza di fondamento, il senso di barcollamento che evoca è inconciliabile con la guida, il preparare la cena, il passeggiare. Chiede tutta l’attenzione, ma per poco tempo: bastano pochi minuti di ascolto assorto, ricettivo, per suscitare un effetto contagioso e salutare: ferma anche i pensieri e slancia fuori dall’ordinario e dello scontato. Se riusciamo a sospendere il giudizio ci dice qualcosa di noi e del nostro stesso sentire, questo evento miracoloso e ingiustificato, sospeso senza un centro.