Prende il via con questo numero della rivista Chora la collaborazione tra il CentroStudiAsia e l’editore AlboVersorio.
Il nostro comune interesse è rivolto a quella zona di confine della ricerca dove scienza, filosofia ed esperienza in prima persona si incontrano e cercano di dialogare. Tanto più riusciremo a trovare un terreno comune di dialogo tra queste discipline, quanto più andremo all’origine di ciò che già ci precede e che costituisce la possibilità stessa del domandarsi e del conoscere.

Il corpo tra neuroscienze e fenomenologia
Dove risiede e come si produce ciò che intendiamo con la parola “coscienza”? Le neuroscienze e la fenomenologia continentale rappresentano due modi assai lontani, e per certi versi incompatibili, di costruire una conoscenza rigorosa dei fondamenti della nostra esperienza cosciente. Attraverso un confronto con la proposta teorica e metodologica di Francisco Varela, questa monografia, curata da Massimiliano Cappuccio, cerca di introdurre alcune
promettenti proposte di integrazione tra scienza e filosofia.

Il numero 9 di Chora contiene un’intervista con Roberta De Monticelli sull’individuo e la naturalizzazione della coscienza, un articolo di Bertossa e Ferrari sulla filosofia sperimentale e la pratica del corpo, contributi di Mauro Carbone, Dino Formaggio, Elio Franzini.

 

Un approccio buddhista alle scienze cognitive. Filosofia sperimentale e pratica del corpo

di Franco Bertossa e Roberto Ferrari 

 

La meditazione […] è il tranquillo abbandono
a ciò che è più degno di essere domandato.
M. Heidegger 1

Il problema che più ci interessa nell’ambito delle scienze cognitive è quello dell’esperienza cosciente dal punto di vista del corpo, intesa quindi in associazione con le sensazioni qualitative in prima persona (qualia) percepite e significative. Per prendere in considerazione questa tematica bisogna che almeno una volta nella vostra vita abbiate colto, in modo del tutto singolare, di essere coscienti. In genere questo accade in uno spazio di estraniamento in cui
essere coscienti non appare come il solito fatto abituale, ma “è sorprendente che io stia guardando, sentendo, sapendo di guardare”. I momenti in cui si vive la non scontatezza del “fatto d’essere mente cosciente”, sono in realtà un fenomeno molto diffuso ma esaminato solo in modo vago e superficiale, incapace di competere con la raffinatezza dell’analisi scientifica. Possono essere invece l’inizio di un interessante percorso di ricerca sperimentale in prima persona che qui proponiamo a partire non da principi filosofici teorici ma dall’esperienza individuale di chi si interroga, attraverso l’immobilità del corpo e l’atteggiamento proprio della disciplina meditativa e fenomenologica.

1. New stream

Quanto andremo a discutere non fa ancora parte del main stream delle Scienze Cognitive, ma rappresenta un’avanguardia nata da pochi anni, che conquista sempre più visibilità anche alla luce di ricerche neurologiche ad essa ispirate(2). È ormai da più di un ventennio che nel vasto panorama delle scienze cognitive gli studi sulla coscienza – che qui preferiamo chiamare esperienza cosciente – si sono sviluppati in molte e diverse impostazioni come il cognitivismo, il connessionismo dell’emergenza, le neuroscienze, e varie forme di anti-riduzionismo di stampo filosofico.
A fianco di questa corrente ormai consolidata si va delineando la necessità, promossa da alcuni scienziati e filosofi della mente, di approfondire metodi pragmatici per ottenere conoscenza in prima persona, relativa all’esperienza cosciente che ciascuno fa. Ha ormai piena dignità l’esigenza di un accesso all’esperienza privata che abbia le caratteristiche di rigore, precisione e conferma da parte di più ricercatori. Superato il discredito da parte delle scienze cognitive più positiviste e oggettiviste – che continuano a ritenere l’unico accesso alla conoscenza quello in terza persona – questo nuovo corso inizia a concretizzarsi in proposte pratiche di grande spessore. Esse partono da diverse “scienze dell’esperienza cosciente” (neurofenomenologia, neointrospezionismo, tradizioni meditative) introdotte dalla metà degli anni ‘90 del ‘900 da una serie di ricercatori e filosofi, come Varela, Depraz, Shear, Vermersh, Thompson, Hut, Gallagher ed altri. In questo new stream si inserisce anche il nostro contributo denominato cognitivismo buddhista, che dopo una ricerca ventennale ha raggiunto la piena coerenza metodologica necessaria per la trasmissione e la verifica. Queste nuove vie di esperienza esaminata in prima persona hanno diversi approcci di ricerca, ma sono accomunate da due caratteristiche: il particolare ruolo riservato al corpo nei processi di conoscenza cosciente, e l’attenzione per le procedure operative e le fasi di addestramento; si tratta quindi di un approccio pratico, che non vuole teorizzare e descrivere fenomeni ma intende farli sperimentare in prima persona al ricercatore.
Crediamo che questa nuova impostazione possa portare un preciso contributo alle Scienze Cognitive. Da un lato, per produrre dati giustificati di esperienze in prima persona da confrontare con le teorie filosofiche sulla coscienza e i dati neurologici in terza persona; dall’altro, per introdurre a fianco degli aspetti epistemologici della ricerca anche quelli etico-trasformativi relativi all’educazione, alla terapia, ma anche alla realizzazione intuitiva: nella meditazione buddhista la ricerca sulla mente cosciente si traduce non in teorie ma in intuizioni radicali e trasformanti sulla conoscenza e la natura umana, a cui personalmente siamo interessati in uno spirito completamente non dogmatico e a-confessionale. Crediamo che le scienze cognitive non possano più sottrarsi al confronto sia con altre tradizioni epistemologiche consolidate, sia con le domande relative alla natura e alla condizione esistenziale di ogni uomo; per questo occorre tradurre in modo operativo le discipline orientali di indagine e trasformazione dell’esperienza quotidiana, in termini accessibili alla nostra mente scientifica.
Il ruolo del corpo in questo tipo di impostazione è innovativo rispetto alla tradizione occidentale. Nei prossimi due paragrafi esamineremo come nelle Scienze Cognitive sia stato eliminato il corpo, o come si sia tornati ad esso in modo incompleto.

2. Menti senza corpi e corpi con menti emergenti

Il cognitivismo classico ha avuto il suo massimo sviluppo tra gli anni ‘0 e ‘ 5 80 del ‘900; sopravvive in modo esteso soprattutto nel senso comune grazie alla fortunata metafora della mente come software, come programma da computer. Si tratta di un cognitivismo funzionalista che identifica la mente con le sue funzioni logiche astratte, quali ricordare, progettare, calcolare, riconoscere, che operano su rappresentazioni, e nel farlo elimina sia il soggetto conoscente sia il corpo vissuto.
Queste semplificazioni logico-funzionali hanno rivoluzionato la nostra vita sviluppando la prima tecnologia cognitiva nella storia dell’uomo, dai computer portatili ai “sistemi esperti” in grado di gestire il traffico aereo. Aver ridotto l’esperienza al solo polo oggettivo ha reso possibile “operare su”, mentre una parte, il polo soggettivo esperienziale dello star-conoscendo in prima persona, è rimasta obliata o è stata rimossa. Ma il cognitivismo classico non sembra in grado di indagare la mente umana, perché la riduce a informazioni e rappresentazioni che si formano, in realtà, a posteriori dell’atto cognitivo. La mente è considerata un processo logico senza corpo (da cui potrebbe scollegarsi completamente(3)), senza mondo (inteso come relazioni ambientali e sociali), senza tempo (inteso come evoluzione) e senza significati esistenziali. È una mente senza esperienza cosciente, in cui le sensazioni qualitative e fenomeniche (qualia) sono “rilevamenti ambientali”, che sono “conscie” grazie a un “auto-monitoraggio interno”: una rappresentazione che dà informazioni su altre rappresentazioni (4).
Questo modello tuttavia è entrato in crisi, non per la sua incongruità con la reale mente vissuta ma per motivi molto più tecnici: come può un modello così rigido e programmato, interagire in modo efficace con un mondo variabile e non sempre facilmente riducibile a processi logici? Per esempio, come può una mente artificiale guidare o camminare nel traffico cittadino?
Questo problema ha spostato la ricerca degli ultimi 20 anni verso modelli cognitivi che tenessero più conto della biologia e della struttura fisica del conoscitore: ciò che conosce è un organismo dotato di un sistema nervoso centrale composto di connessioni tra miliardi di subunità semplici, come i neuroni, da cui la mente emerge.
Il connessionismo ha quindi preso come modello non la mente dell’“esperto” ma quella del bambino: la sua flessibilità e capacità di imparare è molto più adatta al mondo reale che non è fatto di schemi logici generali classificabili in toto, ma di milioni di singoli casi particolari e sempre nuovi. Non si tratta di una mente istruita, programmata di informazioni calate in essa “dall’alto” di una mente umana di programmatore. Piuttosto, partendo dal supporto fisicocorporeo, si mettono in rete molti elementi cognitivi semplici (come un interruttore sì/no) con poche istruzioni iniziali e milioni di connessioni tra loro: questi sono in grado di far emergere menti formate “dal basso”, da questi milioni di interazioni. I computer a reti neurali e gli studi di neuroscienze(5) sono ormai fondati in modo generalizzato sul concetto di emergenza, e in termini empirici i ricercatori sono impegnati nel sondare come dalle attività della rete di neuroni emergano tutti i fenomeni mentali: atti e funzioni cognitive, logica e significati, apprendimento e creatività, sensazioni qualitative e fenomeniche.
L’emergenza è un autentico cambio di paradigma che sembra rimediare alle principali carenze del cognitivismo classico: inserisce la mente in un corpo reale (rete cerebrale e dell’organismo); fornisce la mente di un mondo da sperimentare, compresa la manipolazione di oggetti fisici, linguistici o informatici (6); considera il tempo necessario per imparare e per far evolvere le connessioni; riconosce la percezione qualitativa e il sentire fenomenico come elementi intrecciati a ogni processo cognitivo, e ammette l’esistenza della coscienza come emergenza dal fisico. Le rappresentazioni mentali e i significati logici che costituivano il perno del cognitivismo classico sono ridotti a momentanee emersioni caratterizzate da funzionalità ed efficacia, ma non da realtà; il livello “reale” è solo quello sottostante delle complesse configurazioni operative della rete che continuamente sorgono e scompaiono, con significati privi di sostanza.
Il connessionismo fornisce ancora e solo rappresentazioni teoriche di come dalla materia emerge la mente cosciente. Ma star conoscendo e star comprendendo tutto questo non avviene attraverso le operazioni di una configurazione di rete: è un’esperienza im-mediata e prerappresentativa. Come indagarla?

3. Un approccio buddhista teorico: la messa in scena dell’enazione

Francisco Varela nei primi anni ‘90 ha proposto un modello teorico di emergenza chiamato enazione, basato sull’esperienza corporea pre-concettuale: la conoscenza nasce dallo sperimentare con il corpo da parte di un organismo in un mondo, e questo sperimentare può essere esaminato scientificamente in terza persona. L’enazione abbandona ogni forma di rappresentazione come “mondo materiale” o “mente”, e fa risalire tutta la conoscenza a una “messa in scena” (enaction) da “percezioni-azioni incarnate” che sono milioni di microcicli co-determinati di sentire-agire nel corpo.
Si tratta di una proposta fortemente ispirata alla filosofia buddhista, nella quale la sostanza del mondo e della mente umana è formata da aggregati illusori (skandha(7)) che vengono messi in scena dall’insieme di inafferrabili e irriducibili atomi di esperienza (dharma (8)). Per Varela la rete cognitiva è una rete di esperienze corporee interdipendenti, interne ed esterne al corpo; non si possono quindi localizzare nel cervello i correlati neurali delle esperienze di un organismo, perché esse sono decentrate in una rete non solo nervosa, ma di relazioni esperite tra organismo e ambiente.
L’enazione si distingue dall’emergenza anche per il grande rilievo che dà all’autonomia di ogni organismo, che ha come riferimento solo il suo sentire e agire e in base ad essi crea la sua mente e il suo mondo. Pur essendo una visione naturalistica della mente, è molto particolare perché il mondo preesistente all’esperienza cognitiva si dissolve in uno sfondo di perturbazioni non rappresentabile, intrecciato a una mente pure dissolta9. Si dissolve anche l’Io o il sé, che è solo un costrutto virtuale generato dalla rete, mentre l’unico principio reale resta la rete di cicli di esperienze nel corpo (“sentire-agire incarnati”) che “mette in scena” gli aggregati della mente e del mondo.
L’enazione è uno dei modelli più innovativi e ancora inesplorati della mente, per il suo modo di sottolineare insistentemente il carattere pre-rappresentativo dell’esperienza nel corpo; tuttavia, nel farlo, ancora la rappresenta. Così come rappresenta un modello in cui l’Io è eliminato come illusione virtuale (ma a questo punto non c’è nessuno? E chi lo affermerebbe?). Quindi anche questo secondo ritorno al corpo, seppure si proponga di essere più concreto di quello connessionista, resta un modello astratto (10).
Il problema di fondo di ogni conoscenza rappresentativa è un preciso limite epistemologico, una circolarità tipica di ogni modello transitivo e oggettivo che voglia rappresentare la mente in-atto. Vediamo quale.

4. Conoscenze circolari

I modelli scientifici di mente emergente e connessa con il corpo sono completamente descrittivi: chi li propone indica la via per verificarli in procedure in terza persona su animali e artefatti.
Proprio qui si ripropone il problema della circolarità della conoscenza (11): se il conoscitore (la mente) è una rappresentazione che dipende ed emerge dalle reti cerebrali e cognitive, a loro volta le reti cognitive materiali dipendono dal loro prodotto, dal conoscitore e dal suo specifico modo, in questo caso scientifico, di indagare e rappresentare. Manca allora ogni fondamento per sostenere che lo stesso modello rappresentato di mente sia autentico. Anche l’enazione, seppure si proponga di superare il rappresentazionismo nei processi di conoscenza, fissa ancora una rappresentazione (mente-mondo) di una rappresentazione (microcicli di esperienze) che dipende dalla prima rappresentazione.
Unico criterio verificabile – appunto con esperimenti di neurofisiologia o costruzione di robot – sarà la funzionalità oggettiva del modello: se è capace di spiegare il comportamento cognitivo logico (come faceva il cognitivismo), di trovare soluzioni efficaci a problemi (come nei modelli dell’emergenza), o di generare menti e mondi adeguati gli uni agli altri (nel modello dell’enazione).
Questi modelli fissano la mente cosciente oggettivamente, come un paesaggio o una ecologia, ma noi siamo l’esperienza della rappresentazione. Nelle parole con cui il pittore belga René Magritte commenta il suo quadro La
condizione umana: “È così che vediamo il mondo: lo vediamo come fuori di noi, anche se è solo d’una rappresentazione mentale di esso che facciamo esperienza dentro di noi”.
Allora dove sta l’esperienza cosciente che coglie ogni rappresentazione? Non nei paesaggi del mondo, dell’esperienza corporea, della co-determinazione organismo-ambiente, della rete cognitiva; essa resta un fatto im-mediato che precede tutte queste parole, “fuori” da ogni modello teorico (12).
Questo è un limite filosofico notevole che le scienze cognitive devono poter superare se vogliono indagare la coscienza umana.
Diventa quindi necessario un accesso all’esperienza cosciente che sia realmente non-rappresentativo e che possa quindi considerare la mente umana arricchita degli aspetti fenomenologici (e non solo cognitivo-funzionali) di corpo, spazio, tempo e significati:

– il corpo inteso come sentire qualitativo im-mediato, non teorico ma vissuto;
– lo spazio inteso come sorgente dell’esperienza cosciente e non solo come sua estensione nell’ambiente; infatti lo spazio in cui avviene l’esperienza cosciente non è omogeneo, vi è un “qui” sorgente che ha rilevanza centrale;
– il tempo inteso come temporalità dell’esperienza, una struttura che pulsa ciclicamente in atti iniziali e nel loro perdurare, riempiendosi di contenuti diversi;
– i significati intesi come il fatto che intuiamo e capiamo in prima persona, il divenire consapevoli accompagnato da un correlato fenomenico-corporeo.

Francisco Varela era acutamente consapevole della circolarità della conoscenza (13) e si rese conto del fatto che considerando l’esperienza solo in modo teorico-oggettivo era possibile occuparsi solo della sua parte “rappresentabile”, senza poter accedere alla mente cosciente, perché essa è la capacità stessa di rappresentare: “Il mentale non ha alcuna maniera evidente di studiare se stesso, e perciò rimaniamo con una conclusione chiara dal punto di vista logico, ma in un limbo dal punto di vista pragmatico e metodologico”(14). Negli ultimi anni della sua vita (1996-2001) Varela ha proposto un programma basato su metodi e strategie di indagine in prima persona, che ha chiamato Neurofenomenologia – un nom de guerre scelto in opposizione alla eurofilosofia di Churchland e altri riduzionisti. Da tale programma, che abbiamo avuto occasione di discutere estesamente con lo stesso Varela, si sviluppa anche il particolare approccio che di seguito illustriamo, che attinge alla tradizione buddhista della meditazione di presenza mentale in modo a-confessionale ed euristico.

5. Un approccio buddhista sperimentale: la pratica del corpo

Lo scopo dell’approccio in prima persona è quello di affiancare e dialogare con i dati in terza persona, e non di sostituirsi ad essi. In Occidente inizia ora a proporsi in modo strutturato e aspira a raggiungere la stessa ricchezza epistemica e robustezza metodologica della scienza oggettiva. Come il brain imaging ha fornito una nuova via di accesso all’attività del cervello ad alto contenuto di informazioni, allo stesso modo è possibile raggiungere un elevato livello di competenza e coerenza anche per analizzare l’esperienza cosciente. Ovviamente a tali procedure non si deve richiedere una modalità visiva e rappresentativa, bensì percorsi cognitivi che permettano di condurre esperienze esaminate in modo non arbitrario, aperte alle convalide o confutazioni di altri ricercatori.
Un passo fondamentale è tematizzare in modo preciso il ruolo del corpo e quello del respiro. Questo elemento concreto e pragmatico è necessario per diversi motivi.
Il primo è di dare una impostazione non-rappresentativa. Nella nostra cultura sembra assente la relazione tra corpo
e conoscenza e l’icona classica dell’erudito occidentale mostra un forte distacco tra questi due elementi: l’intellettuale è un uomo ingobbito da ore di scrivania e dal peso dei libri, magro o obeso e pallido per le notti di studio o di laboratorio, con un corpo piccolo e rigido rispetto ad una testa voluminosa. Concentrati nella sola mente, siamo prigionieri dell’abitudine concettuale che di ogni fatto ci fa subito costruire un’idea, una rappresentazione, perdendo così il rapporto con il “vissuto interiore”, o meglio relegandolo all’ambito dell’ispirazione e dei sentimenti. Per noi “corpo” non corrisponde al sapore della nostra carne, e un cuscino zen non corrisponde all’atto fisico di sedersi, ma sono concetti rappresentati che solo talvolta e in modo inconsapevole diventano anche fisicità. Tuttavia non possiamo studiare in modo rappresentativo la mente cosciente senza cadere nella circolarità su esposta e questa esigenza ha già portato l’Occidente a sviluppare specifiche vie di studio dell’esperienza cosciente come la fenomenologia e l’introspezionismo. Pur essendo dotate di principi filosofici rigorosi, esse mancano spesso di reali procedure operative, e questo è un problema perché in ogni indagine sperimentale occorre mettere altri ricercatori nelle migliori condizioni metodologiche per verificare le asserzioni proposte. Sono discipline di conoscenza da fare, non da studiare, e il fare passa attraverso il corpo. Per cui ci dobbiamo impegnare in una disciplina del corpo concreta e rigorosa, non concettualizzabile (ed è sintomatico della difficoltà che questo comporta, il fatto che siamo qui costretti a parlarne con questo articolo per “tradurlo” nel modo occidentale).
Certamente a posteriori la si potrà tradurre in parole per arricchire il dialogo teorico, fornendo così un riferimento concreto sul quale argomentare e comunicare.
Inoltre il corpo è fondamentale per radicare la conoscenza nelle domande individuali. Procedere in un percorso cognitivo con il corpo è garanzia di non partire mai da teorie filosofiche e categorie di fenomeni a priori, ma di adattare il percorso alla situazione, alle domande “sentite nel corpo” di colui che viene chiamato, in quasi tutte le tradizioni meditative, “praticante”.
Praticare “in prima persona” significa non partire dalle risposte, dai risultati statici di precedenti indagini, ma ripartire ogni volta da ciò che si sente; il cammino è da tracciare interamente di nuovo, da verificare e da rilanciare. Poi, con l’acquisizione di competenze e soprattutto di esperienze specifiche, il percorso cognitivo riguardo a un particolare tema può divenire sempre più breve, ma è importante che venga adattato e convalidato da ogni singolo ricercatore, e questo ogni volta.
Un ulteriore motivo per tematizzare il ruolo del corpo è quello di acquisire fedelmente i fatti fenomenici vissuti.
Nella fase di raccolta dei dati fenomenici e cognitivi la disciplina del corpo fornisce il massimo ordine e focalizzazione del sentire, necessario perché ogni conoscenza passa attraverso sensazioni significative. Le nuove scoperte possono venire solo da nuove domande, e le domande vengono da osservazioni non-rappresentative fedeli ai fenomeni; per accedere a queste osservazioni occorre una apertura calma e lucida, che nasce da uno stato semplificato del corpo. Al contrario, eliminare il corpo dal processo di conoscenza – che è l’insieme di osservazioni, domande, intuizioni, interessi “sentiti” – significa non rendersi vulnerabili ai dati e ridurre la pratica meditativa a “tecnica”, un processo cognitivo formale sterilizzato dai dati fenomenici e da ogni coinvolgimento viscerale, in cui ne va di chi compie l’indagine.

6. Tre passi per esplorare la coscienza in prima persona

È ora necessario indicare in modo più pratico come avviene un percorso che riconosce il ruolo cognitivo fondamentale del corpo. Per farlo ripercorriamo tre passaggi già formalizzati in via teorica (15) e caratteristici della tradizione buddhista.
1. Nel primo ha un ruolo cruciale appunto l’ immobilità. Sono periodi prolungati di uno stato fermo e silenzioso del corpo, in cui anche la mente possa sospendere i suoi pre-giudizi e rompere le inerzie conoscitive che caratterizzano ogni specifica cultura e personalità. L’esempio più efficace di questo stato è quello di uno shock, una sorpresa o un evento esistenziale grave (abbandono, mancanza, lutto), che coinvolge integralmente il corpo e ci “ferma la mente” per un istante o un periodo. Per il carattere dispersivo delle abitudini mentali, l’addestramento a tale sospensione va condotto in sessioni strutturate che possono durare da 30-45 minuti a 2-3 ore, fino ad intere giornate e settimane per praticanti esperti.
2. Il secondo passaggio, di ri-direzione all’interno dell’attenzione, è più strettamente cognitivo, ma non disgiunto dal supporto corporeo. Si tratta di ruotare l’attenzione da sensazioni fenomeniche (respiro, cuore, pelle) e da oggetti mentali (ricordi, pensieri, immagini) alla sorgente dell’attenzione che li illumina, approfondendo così il dominio non-rappresentativo. Per evitare che il “pensiero meditante”, secondo il bel termine di Heidegger, diventi un riflettere astratto, in alcune tradizioni meditative orientali si introducono elementi pre-concettuali di pratica, come i koan del buddhismo zen. Nella nostra proposta, si opera con elementi di autoreferenza estremamente iniziali.
3. La terza fase è quella di realizzazione di uno stato aperto e ricettivo, un’apertura silenziosa sul mondo fenomenico, una centralità con cui coincidiamo e in cui porre le nostre domande più rilevanti. Nei primi periodi di addestramento può apparire uno spazio vuoto, nebbioso e difficile a mantenersi in quanto la mente non è abituata ad ambiti non discorsivi. Quando questo stato si fa sempre più preciso e intenso, può allora accadere il momento della penetrazione  intuitiva (vipassana); momento che deve poi essere riesaminato con cura per non confonderlo con una suggestione o una vivida impressione.
Tuttavia, ci rendiamo conto che una comunicazione teorica su tutto ciò può essere solo un cenno introduttivo, p preludio a qualcosa che resta inaccessibile se non è accompagnato da un lavoro quotidiano protratto nel tempo (come del resto avviene in ogni formazione specialistica di tipo scientifico o filosofico, così come artistica o sportiva) e con almeno alcuni periodi di giorni o settimane completamente dedicati.

7. Prospettive e case studies

Il metodo di filosofia sperimentale e “incarnata” qui introdotto fornisce condizioni concrete per esaminare e confrontare dati su specifiche esperienze cognitive e fenomeniche. Il valore epistemologico di tali ricerche è dato non da formalizzazioni matematiche dei risultati (definizioni logiche che ignorano il processo cognitivo fatto per costruirle) né da esperimenti in terza persona per verificarle, ma da mappe fenomenologiche tracciate con un linguaggio preciso, che possano portare a “esperienze cruciali” di valore intersoggettivo. Si possono così affrontare alcuni temi rilevanti per le Scienze Cognitive, tra cui:

– l’esistenza della coscienza o sua illusorietà: per una critica fenomenologica rigorosa all’eliminativismo;
– l’autocoscienza: il senso di Io e il suo confronto con i dati neurologici (16);
– il luogo della coscienza: collocazione spaziale in prima persona degli eventi percettivi (17);
– gli atti primi irriducibili dell’esperienza cosciente, la loro successione temporale (QTC) e il loro criterio di veritazione (auto-significati)(18);
– il libero arbitrio: argomenti scientifici deterministici e dati fenomenologici a confronto (19);
– il significato ontologico del primo sentire: etica ed estetica.

Crediamo che questo tipo di filosofia sperimentale consenta una indagine scevra da pregiudizi e in grado di accogliere tutte le domande dei ricercatori, richiedendo in cambio che essi siano disposti a verificare i loro stressi dubbi a partire dall’immobilità del corpo. È così possibile attingere ad analisi fenomenologiche rigorose degli atti mentali coscienti accompagnati dal sentire corporeo, per integrare in modo costruttivo la nostra tradizione epistemologica.
Questo sviluppo delle scienze cognitive è di importanza cruciale perché sono queste le discipline che fronteggiano oggi le domande sulla coscienza umana, su quale sia la vera natura dell’uomo e quale sia il significato di questa condizione in cui ci ritroviamo. Per domandarci in modo efficace sul senso della nostra esistenza dobbiamo poter capire meglio chi o cosa pone la domanda.

Note:

1. M. Heidegger, Scienza e Meditazione, p. 43; cit. in C. Saviani, L’Oriente di Heidegger, Il Melangolo, Genova 1998, p. 30.
2. E. Rodriguez, N. Gorge, J.-P. Lachaux, J. Martinerie, B. Renault, F.J. Varela, Perception’s Shadow: Long-Distance Syncronization in the Human Brain, in “Nature”, 397 (1999), pp. 340-43
3. Per questo il Cognitivismo classico è stato accusato di riproporre il dualismo tra mente (anima o res cogitans cartesiana) e materia come dualismo informazione-materia; in effetti è dualista a tal punto che cognitivisti estremi come Marvin Minsky e Hans Moravec sos tengono che potremo trasferire noi stessi su un CD, e ricaricarci su macchine cognitive più potenti e immortali.
4. Ma a chi le dà? Chi è il fruitore delle rappresentazioni? Come è possibile che a tutto ciò sia associato un evento sentito, fenomenico? Molti filosofi hanno cercato di giustificare l’evidenza dell’esperienza cosciente come un fatto reale e non riducibile a pura logica o pura materia, producendo una costellazione di approcci teorici estremamente interessanti (Davidson, Block, Searle, Chalmers, Velmans , ecc.) che non possiamo qui esaminare per il carattere pragmatico che intendiamo dare al nostro contributo.
5. Ferrari R. (2002), Biologia e Metabiologia. Io sono il mio cervello?, in www.centrostudiasia.org.
6. Recentemente Andy Clark ( Natural-Born Cyborgs, Oxford University Press 2003) ha teorizzato la “mente estesa” che nell’uomo include l’ambiente fisiologico, linguistico e sociale, e che si espande fin dove arriva la sua capacità di interazione.
7. Sono i cinque ambiti o campi di esperienza classificati dal buddhismo: uno relativo al mondo materiale e al corpo ( rupa), tre relativi alla mente: sensazioni e affezioni (vedana), idee e concezioni (samjna), volizioni e spinte inconsce (samskaras); il quinto è l’ambito della coscienza (vijnana) in cui tutto ciò avviene (cfr. E. Conze, Il pensiero del buddhismo indiano, Mediterranee, Roma 1988, pp. 103-13). Sono chiamati “aggregati” o “cumuli” dall’immagine tradizionale di un cumulo di tanti semi che ha forma conica, ma il cono è solo un miraggio; ed ogni seme è a sua volta un miraggio, perché composto da cause come terra, sole, acqua, stagioni e cicli cosmici. In termini temporali, il carattere momentaneo e transitorio della realtà emergente dalla rete viene espresso dal concetto, fondamentale per il buddismo, di impermanenza degli aggregati e delle percezioni.
8. I dharma (d minuscola, con la maiuscola si intende l’insegnamento del Buddha) o “elementi fondamentali” sono unità irriducibili di esperienza mentale; sono stati studiati in modo analitico dal buddhismo nell’Abhidharma, un testo che classifica migliaia di percezioni, di fattori e atti mentali: “Nessun’altra tradizione umana ha accumulato un corpo di descrizioni di prima mano per così lungo tempo, in modo così esplicito e chiaro” (N. Depraz, F. Varela, P. Vermersh, On Becoming Aware, John Benjamins, Amsterdam 2003, p. 224).
9. Il cognitivismo e il connessionismo danno realtà sostanziale al livello delle rappresentazioni (logiche o emergenti) di sé e del mondo: nell’aenazione invece sparisce il dualismo soggetto-oggetto in quanto manca sia un mondo oggettivo preesistente da cui ricevere inputs (realismo), sia una mente cognitiva che possa proiettare un mondo di rappresentazioni (solipsismo).
10. Il rischio di un approccio solo teorico al buddhismo è di giungere a farsi un’idea (rappresentazione) raffreddata della rete di esperienze e della sua “messa in scena” di eventi virtuali come Io e il mondo. In realtà tutto il pensiero buddhista è una visione che nasce da e riporta a pratiche meditative condotte nel sapore denso e sussultorio del corpo: nelle parole del grande orientalista inglese Edward Conze “a coloro che non praticano non posso in poche parole trasmettere la scossa che ciò provoca alla mente” (Conze, op. cit., p. 96).
11. Bertossa, Ferrari, Besa, Matrici senza uscita. Circolarità della conoscenza e prospettiva buddhista, in M. Cappuccio (a cura di), Dentro la Matrice, Alboversorio, Milano 2004, pp. 107-28.
12. Come fa notare anche il filosofo italiano Fabrizio Desideri: “Nei confronti del modello che assumiamo, la coscienza resta in qualche modo “fuori” […]. Gli stessi Varela, Thompson, Rosh intendono superare la dicotomia tra modello rappresentato e realtà, in virtù di un concetto di cognizione come “azione incarnata”. Ma così non fanno altro che indicare un ulteriore modello di coscienza”. (Desideri, cit., pp. 217-19).
13. Dagli anni ‘80 Varela considerò la circolarità, inizialmente in senso positivo, come limite etico contro la “tentazione del la certezza” scientifica o ideologica (Cfr. H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza, Garzanti 1987, pp. 192-200). Anche Hofstadter la considera come simbolo della intrinseca incompletezza della conoscenza (cfr. D.R. Hofstadter, Godel, Escher, Bach, Adelphi 1984, pp. 774-77).
14. F.J. Varela, Neurofenomenologia, in “Pluriverso”, anno II, n. 3/1997, p. 24.
15. Depraz et al., op. cit.; Bertossa et al., op. cit..
16. F. Bertossa, R. Ferrari, Cervello e autocoscienza. La mente tra neuroscienze e fenomenologia; in “Rivista di Estetica”, 21, n.s., 3 (2002), anno XLII.
17. F. Bertossa, M. Besa, R. Ferrari, Point Zero: the “seat” of consciousness, sottoposto per pubblicazione a “Journal of Counsciousness Studies” (2004).
18. Bertossa et al., cit., 2004.
19. F. Bertossa, 1999, Libertà, in www.centrostudiasia.org