Tesi di Dottorato in Entomologia Agraria XVI ciclo Università di Bologna di Gianumberto Accinelli

Introduzione 

La caratteristica principale del mondo occidentale è la sua grande efficacia scientifico-tecnica. Per tale motivo il filosofo tedesco Martin Heidegger descrive la nostra società come la società della Tecnica o “era atomica” (Heidegger, 1980) sottolineando come essa influenzi ogni ambito della vita. Col termine “Tecnica” però egli non si riferisce a un insieme di tecnologie e di strumenti utilizzabili dall’uomo secondo i suoi bisogni e progetti, ma piuttosto indica il tipo di rapporto attraverso cui l’uomo contemporaneo si relaziona a tutto ciò che esiste. La “Tecnica” quindi, è un modo di rapportarsi con la natura e con la vita basato sull’utilizzo e sullo sfruttamento; è il modo in cui la società contemporanea occidentale si affaccia sul mondo e attraverso cui ogni individuo si relaziona a se stesso e a ciò che lo circonda. Il filosofo porta l’esempio del rapporto che l’uomo contemporaneo ha con la natura: essa non è più altro che una immensa “risorsa”, una grande centrale da cui ricavare energia. Fiumi, mari, montagne, cielo, ognuno di questi elementi acquista un senso solo in quanto “serve” a qualche progetto dell’uomo: i fiumi sono fonti di acqua ed elettricità, i mari sono spazi di comunicazione e fonte di cibo e le montagne sono aree di villeggiatura dove sciare e passeggiare o ostacoli per il transito di una strada. «La terra si disvela ora come bacino carbonifero, il suolo come riserva di minerali. In modo diverso appare adesso il terreno che un tempo il contadino coltivava, quando coltivare voleva ancora dire accudire e curare. L’opera del contadino non provoca la terra del campo. Nel seminare il grano essa affida le sementi alle forze di crescita della natura e veglia sul loro sviluppo. Intanto però anche la coltivazione nei campi è stata presa nel vortice di un diverso tipo di coltivazione che richiede la natura. Essa la richiede nel senso della provocazione. L’agricoltura è diventata industria meccanica dell’alimentazione. L’aria è richiesta per fornire azoto, il suolo per la fornitura di minerali […]» (Heidegger, 1980).

Nel campo dell’agricoltura, in particolare, questo tipo di visione ha portato al massiccio impiego di insetticidi, diserbanti, concimi chimici, macchine agricole sempre più sofisticate, ecc. e ha acceso l’entusiasmo di tutti coloro che si occupavano di tale settore. Si pensava, infatti, che i problemi legati, per esempio, agli insetti fitofagi fossero ormai solo un ricordo e che una nuova era di perfetta agricoltura industrializzata fosse iniziata. E invece tale approccio, in breve tempo, ha disilluso le aspettative: gravi e nuovi problemi hanno iniziato ad emergere e a tutt’oggi ne paghiamo le conseguenze. L’elenco potrebbe essere lunghissimo e andrebbe dal drastico aumento di tumori nelle zone ad agricoltura intensiva, passando per i casi di resistenza agli insetticidi da parte di numerose specie di insetti, per finire con la scomparsa, in alcune zone, di specie di fauna selvatica (molte delle quali insettivore). Inoltre il livello dell’inquinamento ambientale, causato da prodotti utilizzati in agricoltura, è ancora elevatissimo. A tutt’oggi ci sono molti dubbi riguardanti anche la tanto decantata efficacia dell’agricoltura. Si pensi che Pimentel (1985) ha preso in considerazione le perdite provocate da avversità biotiche nell’agricoltura statunitense. Nella sua pubblicazione egli fa notare che dal 1945 al 1984 le percentuali di perdita agricola causata da insetti sono cresciute di circa il doppio (dal 7% al 13%), mentre, per converso, e paradossalmente, è aumentato di 10 volte l’impiego di molecole entomocide.

Ma perché la concezione della natura unicamente come risorsa da sfruttare ha creato tanti problemi? Prima di tutto potremmo analizzare qualche vantaggio. Il primo e sicuramente il più evidente è che la grande efficacia di tale approccio ha portato a un drastico aumento del nostro tenore di vita. Da sottolineare inoltre la vera e proprio eradicazione di numerose malattie che infestavano intere aree del mondo (malaria, ecc.).

Ma il grande limite di tale visione, è che essa risponde più a regole dettate dall’uomo piuttosto che alle regole della natura. Esistono, infatti, dei principi intrinseci nella natura che dobbiamo assolutamente rispettare, pena gravi ripercussioni. Uno di questi principi ecologici è il cosiddetto “potere tampone” o omeostasi che ogni ecosistema (e quindi anche ogni agroecosistema) possiede. Il potere tampone di un ecosistema aumenta all’aumentare della biodiversità, cioè maggiore è il grado di complicazione di un sistema e maggiore è la sua capacità di ripristinare il suo assetto funzionale quando questo viene per qualche motivo alterato. In poche parole, maggiore è la biodiversità di un ecosistema e maggiore è la sua stabilità. Uno dei motivi di questa capacità di ripristinare il suo assetto è da ricercare nella maggiore complessità delle reti trofiche e in un allungamento delle stesse. Questo presuppone maggiori possibilità di feed-back che portano alla stabilità demografica dell’insieme (Odum, 1980).

Nonostante i numerosi problemi causati dall’agricoltura industriale e nonostante la conoscenza dei principi ecologici e lo sviluppo di tecnologie a basso impatto ambientale, un’agricoltura sostenibile stenta ancora ad attecchire. A tutt’oggi la visione dominante in agricoltura è quella che considera il campo coltivato come una macchina da far produrre al massimo.

Perché, nonostante i suoi limiti, l’approccio “tecnico” è così difficile da cambiare? È solo per una questione economica? È solo perché l’agricoltura industriale produce di più? Nel suo libro Gliessman (1999) analizza in dettaglio gli aspetti economici di una agricoltura sostenibile e conclude che, cambiando alcune regole dell’odierno mercato dei prodotti alimentari, tale agricoltura è sostenibile anche a livello economico. Nonostante questi studi gli investimenti nel campo della ricerca in agricoltura sono prevalentemente a favore dello sviluppo di nuovi insetticidi o di nuove biotecnologie, metodologie appartenenti alla visione “tecnica” del mondo. E nonostante gli innumerevoli successi ecologici e pratici della lotta biologica, gli investimenti in tale direzione sono relativamente pochi. Se quindi un’agricoltura sostenibile è adeguata anche a livello economico e se esistono numerose tecnologie a basso impatto ambientale efficaci, perché l’agricoltura moderna è ancora di tipo industriale?

Secondo Heidegger la filosofia, cioè il nostro modo di intendere il mondo, non comincia con dei pensieri, bensì nasce da “tonalità emotive” che egli identifica con la meraviglia, l’angoscia, la “cura”, la curiosità e il giubilo (Safranski, 1996). Prima del pensiero razionale – egli sostiene – c’è un’emozione che ci porta ad avere quel determinato pensiero. La medesima cosa viene affermata dalla filosofia indiana che, al pari della nostra fenomenologia, parte da un’osservazione esperienziale di ciò che accade. In ambito filosofico indiano è famoso l’esempio sull’origine della guerra, partendo su questa visione.

Da cosa nasce la guerra?

La sensazione è origine di sete
la sete è origine della ricerca,
la ricerca è origine dell’assunzione,
l’assunzione è origine del gradimento,
il gradimento è origine del desiderio turbante,
il desiderio turbante è origine del possesso,
il possesso è origine della proprietà,
la proprietà è origine dell’avarizia,
l’avarizia è origine della tesaurizzazione,
a scopo di tesaurizzare l’armarsi di mazza, di spada, guerra, conquista, litigio, discussione, calunnia, menzogna…

(Maha Nidana Suttana)

Se quindi è vero che il nostro approccio con il mondo inizia con una tonalità emotiva, che tipo di sensazione farebbe nascere la vigente visione della natura di tipo industriale?

Il regista spagnolo Alejandro Amenàbar, famoso per i suoi film di paura, ha dichiarato in un’intervista che ciò che veramente spaventa non sono le cose manifeste e le scene sanguinolente: quello che principalmente provoca tale sentimento è ciò che non si conosce, è l’incontrollato, l’ingestibile, è quello che sfugge al nostro controllo. Partendo da questa consapevolezza, il regista ha diretto film divenuti famosi perché inducono una grande tensione nello spettatore.

Può la natura suscitare emozioni simili a quelli che proviamo di fronte a un film di paura? Può la relazione dell’uomo con la natura essere caratterizzata da un sentimento simile all’angoscia? Se ciò che provoca angoscia è quello che sfugge al nostro controllo e quindi difficilmente prevedibile, allora la natura può effettivamente indurre tali sentimenti. Ma l’essenza di queste emozioni è la loro “instabilità”: nessuno riesce a stare per lungo tempo in una situazione in cui domina la paura; tale stato chiede una repentina risoluzione. Heidegger sostiene che la risoluzione degli “stati sospesi”, cioè quegli stati indotti da domande che non trovano risposte, è caratteristico di ogni cultura e prende il nome di “Pensiero Matrice”, cioè quel pensiero da cui si originano tutti gli altri pensieri. Nelle cultura animista, per esempio, la ricaduta dell’angoscia suscitata dalla natura è di tipo magico. Tali popolazioni riconducono l’imprevedibilità della natura alla magia e per risolvere tale sentimento compiono dei riti magici per propiziarsi le “forze misteriose”.

Il rapporto occidentale con questa imprevedibilità è, come dicevamo, di tipo “tecnico” e più che cercare di propiziarsi la natura la si cerca di controllare. La “Tecnica” è il nostro modo per risolvere il rapporto incompiuto che abbiamo con la natura. Il campo coltivato è, oltre che una fonte di sostentamento, un modo per togliere dalla natura la sua caratteristica di incontrollabilità e quindi un modo per placare l’angoscia che da essa deriva. Del campo coltivato noi controlliamo tutto: il tipo di terreno, come questo terreno deve essere lavorato, gli organismi che ci devono vivere, quando ci devono vivere, ecc.

Ma è possibile ricondurre la natura ad un controllo totale? Possiamo noi “possedere” totalmente la natura? Dopo circa cinquant’anni di agricoltura industriale la risposta è sicuramente no. Nessuno avrebbe mai potuto prevedere gli effetti catastrofici del massiccio spargimento di insetticidi. Chi avrebbe mai potuto immaginare, per esempio, che il DDT, essendo liposolubile, sarebbe passato da organismo a organismo tanto da essere addirittura ritrovato nei tessuti adiposi degli orsi polari?

Sembra quindi che la natura sia caratterizzata da una certa dose di imprevedibilità e che, forse, l’imprevedibilità sia intrinseca alla natura e alla vita e quindi non verrà mai colmata dalla conoscenza umana.

Ora, visti i problemi ecologici derivanti dall’agricoltura industriale, credo che serie domande sul tipo di rapporto che l’uomo occidentale ha con la natura siano necessarie. Sono necessarie sia per non perpetuare errori causati da una visione incompleta della natura, sia per non basare una agricoltura sostenibile solo su un ottuso entusiasmo. È infatti vero che, se da un lato l’imprevedibilità letta come minaccia provoca nell’uomo angoscia, dall’altro essa, se letta come qualcosa di più grande di noi e caratterizzato da bellezza, può suscitare gioia e meraviglia. Dalla meraviglia all’entusiasmo il passo è breve e, se tale entusiasmo non viene accompagnato da una conoscenza delle regole degli ecosistemi, può essere molto ingenuo e dare origine a un’agricoltura sostenibile senza adeguate basi scientifiche.

Lo scopo di questi tre anni di tesi è stato quello di cercare una risoluzione a problemi di ordine fitosanitario domandandomi, nel contempo, sulla possibilità di un rapporto con l’imprevedibilità della natura e della vita, libero da bisogni troppo umani.