La fenomenologia è una pagina capitale della filosofia di tutti i tempi che appare sulla scena del Novecento con la pubblicazione, ad opera di Edmund Husserl, delle Ricerche Logiche. La sua importanza consiste nell’aver riquestionato in maniera radicale l’esperienza umana senza appoggiarsi su alcun sapere già acquisito ma partendo dal soggetto e da ciò che gli è possibile descrivere in maniera immediata ed evidente. Un simile obiettivo è tutt’altro che semplice, come dice Husserl raggiungerlo “esige studi speciali e faticosi”. Questa nuova corrente di pensiero fu il risultato di una ricerca iniziata in campo matematico e logico nel tentativo di giustificare la costituzione dei significati, ossia ciò che dà valore alla nostra conoscenza. Osservando che la loro validità è ideale e universale, Husserl capì che essi non sono esauribili nella sfera bio-psicologica a cui qualcuno – anche allora! – tentava di ridurli. Partendo dalla necessità di fondare rigorosamente la conoscenza, radicalmente minata dalle scoperte rivoluzionarie (teoria quantistica, principio di indeterminazione, teoria della relatività, psicoanalisi) avvenute all’epoca in diversi campi del sapere, egli dà vita ad un metodo che porta alla luce la struttura stessa del fare esperienza, offrendo così uno strumento di chiarificazione e scoperta valido ancora oggi a patto, però, che venga messo in pratica e non ridotto ad oggetto di conoscenza teorica.

Parlare di “esperienza” equivale però a parlare di tutto, perché non possiamo menzionare alcunché se non in quanto ne stiamo facendo una qualche esperienza. Il problema sorge in quanto non esiste un’esperienza che sia in sé autotrasparente e che riveli il proprio significato in modo univoco ed inequivocabile, ma si dà sempre un nostro intendimento su di essa, ed è proprio in questo che si annida la possibilità dell’illusione. La compresenza di diverse visioni riguardo alla stessa cosa, o il susseguirsi nel tempo di teorie che si contraddicono e si invalidano l’un l’altra, pone la questione di cosa sia affermabile veramente da quel procedimento incessantemente in atto chiamato conoscenza. Rivedere qual è il nostro intendimento sulla realtà è importante perché è sulla base dell’immagine, del concetto che ce ne siamo fatti che emergono i nostri comportamenti a riguardo. Siamo ad esempio convinti che esiste un mondo che contiene innumerevoli oggetti, che esistono indipendentemente dal nostro percepirli, e pensiamo di essere noi stessi contenuti nel mondo allo stesso modo. Ma è veramente così? Cosa possiamo affermare che non sia frutto di pre-supposizioni e credenze infondate? Il motto di Husserl “alle cose stesse!” esprime il proposito di pervenire ad una visione basata su evidenze inconfutabili e scevra dalla ingenuità caratteristica di quell’atteggiamento che egli chiama “naturale” perché incapace della problematicità che deriva dal vedere il reale intessuto delle costruzioni spesso fallaci della mente.

Uno dei dispositivi messi in atto dalla fenomenologia è l’epochè, o sospensione del giudizio, riguardo tutto ciò che presumiamo di sapere sulle cose. Questo non significa negare e azzerare completamente i dati dell’esperienza ma prenderli in considerazione in quanto oggetti di un “puro guardare”, senza aggiungere nient’altro.

Husserl mostra, e la cosa è verificabile anche adesso, che ad ogni istante non avviene altro che un incontro tra un nostro atto percettivo (pensare, vedere, ricordare, udire) e un oggetto colto secondo la modalità specifica di quell’atto (pensiero, percezione visiva, ricordo, suono). In questo modo l’esperienza viene ridotta ad una struttura bipolare nella quale il soggetto con i suoi atti e gli oggetti sono realtà distinguibili ma non separabili. Costituiscono quella che egli chiama una correlazione intenzionale, intendendo con questo che la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa, è sempre diretta a cogliere un qualche oggetto, e che qualsiasi oggetto è sempre colto in qualche modo dalla coscienza. La fenomenologia offre così l’opportunità di superare l’antica questione del dualismo fra fenomeno e cosa in sé: non possiamo parlare infatti di alcunché indipendentemente da un nostro atto intenzionale. La “cosa in sé” non essendo sperimentabile se non come oggetto di presupposizione e credenza, non è indipendente dal soggetto che la ipotizza o che la ritiene esistente. Tutto ciò che abbiamo, insomma, è il fenomeno, ciò che appare. Ma, inteso come apparenza soggettiva, esso ha sempre avuto carattere di dubitabilità e fallacia: come non arenarsi a questo punto in quello scetticismo che fin dall’antichità ha determinato la paralisi della conoscenza? Se poniamo in dubbio l’esistenza degli oggetti, del mondo intero, cosa ci resta? Riprendendo la strada aperta magistralmente da Cartesio, Husserl mostra che l’approdo di questo dubitare è un terreno di certezza: l’atto di dubitare pone in questione l’oggetto del quale dubito, ma cosa accade se dubito di dubitare? “Ripiegato” su stesso il dubbio produce l’evidenza innegabile del proprio darsi, della propria esistenza. La riflessività, ossia la capacità di rivolgersi verso se stessa e non solo verso oggetti “esterni” è una prerogativa della coscienza, la quale coglie i propri atti e in questo modo, rendendoli oggetto del proprio sapere, non “esce” da se stessa. La fenomenologia, insomma, riapre allo sguardo una zona sfuggente, quella degli atti e della coscienza a cui essi ineriscono, che nel nostro occuparci degli oggetti del mondo ci resta invisibile. L’indagine non deve però limitarsi alla rappresentazione di questi atti e di questa coscienza, come accadrebbe se riguardo ad essi ci rifacessimo alle conoscenze che ce ne offrono le varie scienze. E’ dunque necessaria una rigorosa educazione che permetta all’attenzione di ripiegarsi su se stessa in quella attualità che si sta dando anche ora. Nel leggere, ad esempio, ordinariamente presteremmo attenzione solo a queste righe e a queste parole, mentre, adottando il metodo fenomenologico, possiamo divenire consapevoli dell’atto di leggere e, in un ulteriore ripiegamento, del sapere di questo atto. A questo punto  si pone la domanda su chi sia il soggetto di questo sapere e, per rispondere, non sarebbe sufficiente riferirsi ad alcun contenuto psico-emozionale, perché anche di quello saprei e la domanda si riproporrebbe.

La domanda che porta verso l’io è l’ultima tappa della cosiddetta riduzione trascendentale, che Husserl compì per la necessità di giustificare ulteriormente la sfera degli atti che, pur differenziandosi ed essendo molteplici, sentiamo appartenere ad un unico io. Come entrare in contatto con questo particolare dato primo, non oggettivo e non oggettivabile, che è il soggetto, ciò che ognuno sente come me stesso?

Nel testo del 1913 Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica il filosofo vi perviene osservando che nel flusso mutevole degli atti, ognuno dei quali sorge e poi svanisce, permane qualcosa di identico, una continuità che costituisce una sfera d’essere particolare, trascendentale nel senso che costituisce la condizione di possibilità di qualunque atto e del manifestarsi di qualunque oggetto:

…tutto ciò che è oggettivo in un senso ampio è pensabile soltanto come correlato di una coscienza possibile, più precisamente: di un possibile “io penso” e così è pensabile soltanto in quanto relazionabile con un io puro. Ciò vale anche per lo stesso io puro. L’io puro può essere posto oggettivamente attraverso l’io puro che è identicamente lo stesso.

(Ideen, p.498)

Alla coscienza è cioè possibile un auto-afferramento originario in cui l’essere della coscienza diventa apoditticamente evidente perché l’atto di aver coscienza implica l’essere di ciò di cui si è consapevoli con quell’atto: si dà una sorta di coincidenza di soggetto e oggetto e si approda ad una certezza d’esistenza “granitica”: questa realtà è un a priori, per cui, paradossalmente, è anche la condizione dell’atto di negarla.

Ma come va intesa? Cosa possiamo sapere di essa, e cioè di noi stessi? Per Husserl questo principio, che rappresenta il fondamento ultimo della vita cosciente e conoscitiva, non va confuso con l’io empirico, con il soggetto studiato dalla psicologia o dalle altre scienze. Ma occupandosi di quello che egli considera il compimento del suo percorso, egli perse gran parte dei suoi allievi, che lo accusano di essere regredito verso posizioni idealistiche.

Probabilmente l’accusa fu dovuta al fatto che quella che può essere esperita come realtà, come “fatto”, fu invece intesa come un’astrazione, come un concetto dedotto da quella sfera più visibile e tangibile che sono gli atti di coscienza.

Diversa e ricca di sviluppi in senso esistenziale fu invece la critica che all’io trascendentale fece Heidegger, il quale colse appieno la portata del metodo fenomenologico e lo adottò per indagare quella che egli indica come la questione fondamentale della filosofia, la questione dell’essere. Nella prospettiva di Heidegger, la coscienza, mai scissa dalla sua attività intenzionale, non è una realtà da privilegiare, ma costituisce l’accesso alla tematica ontologica, che giace sotto oblio in quanto il nostro sguardo non sa andare oltre gli enti e raramente ne coglie l’esistenza. Nel caso del soggetto non si tratta allora solo di descriverne le funzioni o di definirlo nel modo in cui si dà, ma di scavare a fondo sia in quella certezza di esistenza a cui esso perviene, sia nella sua caratteristica di essere aperto e non indifferente nell’incontrare gli oggetti.

Per Husserl nel momento in cui il raggio intenzionale della coscienza raggiunge un oggetto, ne afferra l’essenza, ciò che la fa essere quel che è. L’essenza in questo senso non coincide mai con l’oggetto specifico, ma è ciò che di universale, di non mutevole viene colto nel variare delle percezioni, ed è quel che le rende intelligibili. In questo senso la fenomenologia non è una scienza che si occupa di dati di fatto:

Un oggetto individuale non è qualcosa di semplicemente individuale, un effimero “questo qui”, ma, in quanto è “in se stesso” così e così costituito, possiede come propria caratteristica dei predicati essenziali che necessariamente gli competono (competono cioè “all’ente come è in se stesso”), oltre ai quali può ricevere poi altre determinazioni secondarie e casuali. Così ad esempio ogni suono in sé e per sé ha un’essenza, e anzitutto l’essenza di suono in generale, o meglio di acustico in generale – dove questa essenza è da intendere come un momento da cogliere intuitivamente nel suono individuale (considerato singolarmente o confrontato con altri, per quel che ha di “comune”).

(Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, p. 17)

Ciò a cui perviene lo sguardo di Husserl, atteggiato fenomenologicamente, sono gli elementi ultimi su cui si fonda la conoscenza. A questo punto è molto interessante osservare come, adottando il medesimo procedimento, il filosofo Sartre giunga ad un esito ben diverso. Ecco come descrive nel romanzo La nausea ciò che gli si svela incontrando fenomenologicamente gli oggetti:

Dunque poco fa ero al giardino pubblico. La radice del castagno s’affondava nella terra proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e con esse il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini han tracciato sulla loro superficie. Ero seduto, un po’ chino, a testa bassa, solo, di  fronte a quella massa nera e nodosa, del tutto bruta, che mi faceva paura. E poi ho avuto quel lampo d’illuminazione. Ne ho avuto il fiato mozzo.

(La nausea, p.193)

Ciò che emerge dalle parole di Sartre va oltre l’orizzonte gnoseologico nel quale permane l’indagine husserliana e non ha più a che fare con le qualità intelligibili degli oggetti. Nel guardarli senza il filtro dell’abitudine emerge una nuova consapevolezza:

Mai, prima di questi ultimi giorni, avevo presentito ciò che vuol dire “esistere”. Ero come gli altri, come quelli che passeggiano in riva al mare nei loro abiti primaverili. Dicevo come loro “il  mare è verde; quel punto bianco, lassù, è un gabbiano” ma non sentivo che ciò esisteva, che il gabbiano era un “gabbiano – esistente”; (…) Se mi avessero domandato che cosa era l’esistenza, avrei risposto in buona fede che non era niente, semplicemente era una forma vuota che veniva ad aggiungersi alle cose dal di fuori, senza nulla cambiare alla  loro natura. E poi, ecco: d’un tratto, era lì, chiaro come il giorno: l’esistenza s’era improvvisamente svelata. Aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta, era la materia stessa delle cose, quella radice era impastata nell’esistenza.

(Ivi, pp. 193-194)

Con la scoperta esperienziale dell’esistenza la fenomenologia sconfina in ambito ontologico conservando però intatto un metodo e un atteggiamento il cui perno inaggirabile resta il soggetto. Come è possibile che esso resti invisibile, che si trascorra un’intera vita senza occuparsene mai, se non in teoria? Ciò può dipendere da una difficoltà metodologica, dalla impostazione oggettivante dello sguardo che è abituato ad occuparsi di oggetti e a conoscere attraverso rappresentazioni concettuali. Questa impostazione risulta inadeguata a cogliere un principio che non si incontra direttamente, come una cosa, ma attraverso le tracce che costantemente rilascia. Non si tratta però di comprendere che esiste “qualcosa” come una coscienza, ma di realizzarlo nel solo ambito in cui questa consapevolezza può avere validità: in prima persona. Infatti, come riguardo a qualsiasi altro oggetto:

non è priva di senso l’ipotesi che un’altra coscienza, che io ponga nell’entropatia, non ci sia. Ma la mia entropatia, e la mia coscienza in generale, è data, in quanto presente fluente, assolutamente nell’originale, non solo nell’essenza ma anche nell’esistenza

(Ideen, p.100)

La propria esistenza, infatti, non soltanto è, ma si accorge che c’è e non lo fa in una fredda constatazione ma in una domanda, in una aspettativa più o meno soddisfatta di senso, di fine, di spiegabilità.

In questa prospettiva riacquista ruolo e attualità la filosofia intesa come ricerca sull’esserci umano e sulle domande che da esso scaturiscono. Come precisa Heidegger, non si tratta di fare filosofia sull’esistenza ma a partire da essa: la questione della filosofia è colui stesso che la fa e occorre essere disposti a mettersi in gioco rivolgendo lo sguardo verso se stessi e decifrando le voci che ne emergono.

Se vogliamo occuparci della fenomenologia come strumento d’indagine della nostra stessa esistenza e non ci basta  un’ottica di ricostruzione storico-filosofica, credo sia fondamentale la domanda su quale sia l’atteggiamento più idoneo nell’approcciarci ad essa. Per dare spazio alle sue potenzialità svelanti su ciò che massimamente ci riguarda, sarà bene tenere presente fin da subito che essa ha il potere di andare alle radici, e probabilmente di sovvertire, proprio ciò che intendiamo con conoscenza, con esperienza e con la nostra stessa identità. Non ne usciremo, insomma, uguali a prima. Questi presupposti chiedono una radicalità di domanda e una totale disponibilità ad essere investiti dalle evidenze che emergeranno nella ricerca.

In gioco c’è ben di più dell’acquisire concetti, dell’aumentare il proprio bagaglio culturale. Probabilmente occorrerà attraversare momenti in cui il fascino si tingerà di inquietudine. In questo senso la filosofia è una pratica “pericolosa”. Heidegger dice che essa:

è il contrario di ogni sorta di conforto e di consolazione. È il vortice nel quale l’uomo viene risucchiato, al fine di comprendere concettualmente l’esserci senza cadere in fantasticherie.

(Concetti fondamentali della metafisica, p.29)

Il suo unico vero compito:

è quello di sospingere il proprio esserci e quello degli altri nell’orizzonte di una fruttuosa problematicità

(Ivi, p.30)

Il rigore del procedere fenomenologico non andrà quindi mai disgiunto dalle tonalità emotive che accompagnano il nostro interrogare, ma verso dove? Il percorso del filosofo non può che essere mosso dal suo stesso bisogno di capire, verso un orizzonte che Heidegger profila così:

nel domandare filosofico ne va di una preparazione di un nuovo sapere, di un sapere dell’essere, e non di una conoscenza di questa o di quella regione dell’ente, oppure di una diretta formazione dell’ente.

(L’Europa e la filosofia, p.35)

 


Laura Podda, Fenomenologia, ovvero la filosofia a partire da chi la fa, in «A.S.I.A. Antiche e moderne vie all’Illuminazione», n. 19/2002, pagg. 7-8.


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