Il 3 Giugno si è spento il fondatore, Kazuo Ohno.

“Che significa esistere? Cos’è corpo? Cos’è mente?”

E’ nel luogo più prossimo a questo domandare che affonda le radici la danza butô[1].

Le radici in quanto pratica e veicolo di trasmissione di un nocciolo artistico affondano invece nell’antichità, mentre la modalità espressiva e l’impatto ad “urto” con gli spettatori furono la rivoluzione nella tradizione della danza e del teatro giapponesi.

Anticamente denominato Buyo, riuniva in sé le due principali espressioni di movimento codificate in danza: la danza Mai, che non lascia il corpo libero nell’articolazione e l’Odori, che persegue la libertà del corpo. Fine è in entrambi i casi l’unificazione mente e corpo. Per questo sorse la parola Buyo (Bu=Mai e Yo=Odori).

Questa nuova parola venne coniata nel periodo Meiji (1868-1911) durante il quale si costruiva l’unità del Paese e della sua cultura, inoltre sorgeva l’esigenza di difendere la tradizione di fronte all’arrivo dell’impetuosa civiltà occidentale. La nuova parola è impregnata anche da un altro tipo di pensiero, si fonda sulla radice comune delle due danze che vedeva “l’edificazione di quest’arte come una via per la ricerca della liberazione”[2].

Il kanji[3] per la parola butô è comprensivo di mau, ovvero danzare e denota una danza raffinata eseguita con le mani, e fumu che indica calpestare con i piedi, sbatterli a terra.

La parola -a cui fa’ seguito il modo di intendere la- “danza” in Giappone è indicata con due nomi: precisa la necessaria unione di parte superiore ed inferiore del corpo, necessaria unione tra due principi del movimento contrapposti (mau e fumu), necessaria unione che non prevede dualità tra chi danza e luogo in cui avviene la danza[4].

Questa unione ha sede nel corpo dove la necessità diventa evidenza e ricerca; ricerca che in ogni pratica tradizionale giapponese aveva l’intenzione (e talvolta ha tutt’oggi) di porsi là dove il domandare umano si ripiega su se stesso.

Inizialmente le performance non avvenivano solo nei luoghi ad esse deputati (dopo il debutto nel 1959 di Kinjiki, Colori Proibiti, Hijikata[5] e Ôno Yoshito vennero espulsi dall’Ajada, l’Associazione Giapponese di Danza Moderna), ma in luoghi occasionali e per le strade, vere improvvisazioni per mostrare le possibilità recondite e l’inaspettato coinvolgimento che la danza poteva generare.

Solo dopo molti anni, uno dei due fondatori della danza butô, Ôno Kazuo ed il Maestro di teatro Nô[6], Hideo Kanze, si esibirono insieme in una performance chiamata Mu[7], nel giungo 1998, nel Giorno Internazionale della Danza, a Tokyo.

La proposta del butô e del Nô ha una concordanza radicale: chi pratica queste vie si interroga sulla costrizione del presente. Di istante in istante ad occhi aperti mette in scena l’ineluttabile: una mano, un uomo, una donna, una storia, la vita. Un gesto solo. E la scintilla che di questo è cosciente.

Ôno dice al riguardo: “come danzatori noi non possiamo non porci la questione: cosa sia la realtà?”

Hijikata Tatsumi[8] ripeteva più volte a cosa il butô doveva tendere: “Persino le vostre stesse braccia, profondamente ancorate nel vostro corpo, le sentite estranee a voi stessi, sentite che non dipendono da voi. Qui giace un importante segreto. L’essenza radicale del butô è nascosta qui.”[9]

Senso di questo domandare profondo è il luogo in cui originariamente si è posta anche, con tutt’altri percorsi e sviluppi, la filosofia greca: cos’è ciò che è?[10] Cos’è un braccio?

Un braccio può bastare, per dire tutto.

Questo stesso stare in piedi diviene non scontato, si vede nella ferma ieraticità dell’attore Nô, si vede nei movimenti lenti, quasi impercettibili e negli slanci rapidi della figura di Ôno Yoshito (figlio del Maestro Kazuo) che si sposta nello spazio, riempendolo con un solo gesto.

Ma per cogliere cosa indica bisogna essere educati a danzare e a vedere nella danza.

Oggi nel butô, alla scuola degli Ôno, chi vuol diventare danzatore si esercita cinque anni solo per imparare a camminare: seguono anni per imparare a compiere una forma e anni per dimenticarla, anni per imparare a stare fermi.

Da qui deve emergere una qualità del gesto che lo riveli come non prodotto da un soggetto, sebbene un attore lo stia compiendo.

Riguardo all’argomento trattato, per cercare un approfondimento sulla scia delle performance qui non riproducibili, sono state rivolte alcune domande al Maestro Ôno Yoshito, che da più di quarant’anni porta avanti gli insegnamenti del padre, dopo un’interruzione sugli studi di danza avvenuta intorno ai trent’anni.

Durante un’intervista precedente la performance “Eyes” (Bologna, 2006) ha definito questo momento di interruzione della carriera artistica come una crisi esistenziale: “Smisi di allenarmi con mio padre perché non capivo il senso della mia vita, il senso di tutto”.

Riporto qui le domande e le risposte del Maestro Ôno Yoshito.

Domande:

1- All’inizio del workshop le prime parole che ha pronunciato erano:

“Perché la verità è che c’è un mistero”. Come può un giovane capire queste parole, pensando al fatto che oggi la verità viene considerata solo una questione relativa?

2- In Giappone da millenni è conosciuto hsin[11] come luogo di indagine su di sé, mentre in Occidente non è stato così chiaramente indicato. Come può il butô aiutarci a indagare proprio quel domandare che sorge da hsin ?

3- Quale è il rapporto, o il passaggio, tra il vuoto nichilista, vissuto come problema ed il significato di vuoto vissuto come realizzazione?

4- Avrebbe un consiglio su come praticare la domanda di senso per i giovani di oggi, a cosa affidarsi nella loro ricerca?

La risposta è riferita al senso globale delle mie domande, la riporto interamente:
“E’ difficile parlare a proposito di Mu.

Ho diversi argomenti in termini di butô. Cosa posso fare con i miei occhi?

Come posso trattare (o donare) con le mie mani? Faccio di me stesso il più grande, il più piccolo, il più alto o il più basso?

Consapevolmente penso ancora ed ancora al fine di presentare in una performance migliore il mondo non-visto.

E’ il pensiero attuale, quando sono in scena provo a fare di me stesso (non nel senso di rendermi vuoto, ma di essere io) il vuoto, ma invano. Nella realtà è difficile realizzare la vacuità.

Provo a immergermi nell’Uno. Non a vivere nella relatività, ma essere Uno.

Tutto è vuoto (Ku). Una volta che diventi consapevole di questo, tale stato svanisce, anche se senti di conoscerlo o lo sperimenti nella vita quotidiana.
“La forma stessa è vacuità, la vacuità stessa è forma”.
Il mio concetto di Mu è lo stesso che troviamo citato in questa frase tratta da il Sutra del Cuore della Perfetta Conoscenza[12].

E’ essenziale vivere nell’estrema pienezza nella vita quotidiana. E’ essenziale frequentare “l’estrema pienezza” in ciò a cui stai lavorando (che stai portando avanti). Poi per la prima volta il vuoto universo si realizzerà.

L’unica via per essere (il) “vuoto” è vivere nell’estremo limite”[13].

Note:

[1] Cfr. l’intervista al critico di butoh Nario Goda in Fraleigh Sondra Horton, Dancing into darkness. Butoh, Zen and Japan, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh, 1999, p.173
[2] Cfr. Watanabe Tamotsu, La danza giapponese, pp.29, Ali&no Editrice, Perugia, 2001 [3] Ôno Kazuo, Kazuo Ôno ‘s world, from without and within, Endnotes, Tokyo, 1999, p. 303[4] Zeami Motokiyo, Il segreto del teatro Nô, Milano, Adelphi Edizioni, 1966
[5] D’Orazi, Maria Pia, Butô. La Nuova Danza Giapponese, Editori Associati, Roma, 1997
[6] Casari Matteo, La verità dello specchio, Cento giorni di teatro Nô con il Maestro Umewaka Makio, Il principe costante, Bologna, 2003[7] Ôno Kazuo, Kazuo Ôno’s world, from without and within, Chronology of his life, Tokyo, 1999, p. 313
[8] Salerno Giorgio, Suoni del corpo, segni del cuore. La danza butô tra Oriente e Occidente, Costa & Nolan, Genova-Milano, 1998
[9] corsivo mio
[10] Heidegger Martin, Domande fondamentali della filosofia, selezioni di “problemi” della “logica”, biblioteca di filosofia Mursia, Mursia Editore, Milano, 1988
[11] Suzuki Dai Setz Tei Taro, Zen and Japanese culture, Princeton University Press, New York, 1959
[12] Conze Edward, I libri buddhisti della sapienza, Ubaldini Editore, Roma, 1976
[13] “Utmost” è rimarcato più volte, ho tradotto come limite estremo, non come sforzo proteso verso il superamento di un ostacolo, piuttosto il senso include la “pienezza” ed il “massimo”, il “di più”. Interessante è ciò che Martin Heidegger (nel trattare la domanda “che cos’è lo spazio?”) scrive al riguardo, dove il significato della parola “limite” si coniuga con quello di “pienezza”: “…dobbiamo fare attenzione. Per i Greci il limite non è ciò in cui qualcosa termina e finisce, bensì ciò a partire da cui qualcosa comincia, ciò grazie a cui qualcosa ha il suo compimento”, in Heidegger Martin, Corpo e spazio, osservazioni su arte-scultura-spazio, edizioni il nuovo melangolo, Genova, 2000

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