Partire da un “non so”

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– Chi è Buddha?
– La mente che non comprende è Buddha.
Non c’è altri.

Questa risposta, attribuita a Ma Tsu, uno dei pilastri del Chan, ci dà accesso diretto all’atteggiamento del praticante.
Ho conosciuto Francisco Varela e con lui ho potuto scambiare cruciali considerazioni sulla meditazione. Francisco era meditante di lungo corso, avendo avuto i primi approcci al Buddhismo con Chogyam Trungpa fin dai primi anni ’70 e frequentando poi, per oltre un decennio, Urgyen Tulku con regolari viaggi in Nepal.
Francisco mi chiese come io meditassi e, per illustrarglielo con un esempio, gli raccontai di mia figlia minore, Caterina la quale, all’età di cinque o sei anni, un giorno mi affrontò con sguardo deciso e occhi accesi di interesse.

–  Chi è Buddha?
–  Ti interessa davvero saperlo? – ribattei.
–  Certo
–  Allora siediti sul tuo lettino, resta immobile, chiudi gli occhi e dimmi cosa vedi
–  Vedo il buio…
–  Da dove vedi il buio?
–  …

Dopo una ventina di secondi, Caterina affiorò con sguardo intenso e vittorioso:

–  Ho capito!

Mi ringraziò e corse a giocare sul prato di fronte a casa nostra.

Francisco ascoltò con attenzione, poi con espressione intensissima osservò: “Very impressive!”. Egli poteva capire bene, perché le sue pratiche erano simili. Sono pratiche sulle fonti della coscienza, volte a riconoscerne livelli “estremamente sottili”, riconoscimento perseguibile attraverso il recupero della fonte del ‘vedere’, come, ad esempio, ho suggerito nella puntata 2 di questa serie.
Francisco visse un’esperienza di risveglio sul letto operatorio. Patì di una gravissima affezione al fegato e dovette subire un trapianto. Mi raccontò che, nel mezzo dell’operazione, riprese coscienza.

Per inciso: allorché ho riportato questo racconto ad alcuni medici, mi hanno contestato la possibilità di risveglio durante l’anestesia, pena una catastrofe fisiologica. Francisco era anch’egli medico e credo sapesse bene che cosa possa o non possa accadere durante un’anestesia.
Ciò che mi ha raccontato è che, appunto, riprese coscienza ad addome aperto.
Ricordo bene la sua espressione mentre commentava: “Sai, è sconcertante. Se non avessi avuto conoscenza della meditazione, mi sarei risvegliato in una scena dell’orrore. Ma ho capito che dovevo trasformare il tragico un un’opportunità di consapevolezza e mi sono riassorbito nel principio, come tu ben sai. E qualcosa di straordinario è successo! Ho riconosciuto!
Riconducendomi in corsia, le infermiere mi chiedevano, gentili e premurose, se soffrissi; non potevano capire perché, invece, sorridessi da un orecchio all’altro…!”.
Francisco aveva vissuto un risveglio, non solo dall’anestesia, ma dal sonno dell’essere.
Purtroppo non v’è stata occasione di ulteriori approfondimenti, poiché neppure un anno dopo è deceduto.
Sappiamo però, da testimonianze dirette e attraverso il bel film su di lui realizzato da Franz Reichle, Montegrande, che Francisco cercò di coltivare la consapevolezza fino alla morte
Debolissimo, chiedeva a sua moglie Amy di sorreggerlo sotto le ascelle per poter così meditare.
Francisco, sei stato esempio di cui spero di essere all’altezza…

Un’altra testimonianza preziosa sul percorso di ricerca di Varela risale ai tempi in cui iniziava a interessarsi al Buddhismo.
Raccontò di quando incontrò per la prima volta Chogyam Trungpa
“Avevo appena concluso il dottorato negli USA e non sapevo davvero da che parte girarmi. Non sapevo che fare della mia vita. Confessai a Chogyam Trungpa che non capivo nulla… La risposta di  Chogyam Rinpoche mi stupì e mi conquistò: ‘Se non capisci nulla, ascolta il tuo non capire’ “.
Proprio così. Mai si può dire che assolutamente non capiamo nulla; infatti sempre capiamo che capiamo o capiamo che non capiamo. Quel che apre una Via. Resta da capire di che natura sia questo primo “capire che” poiché non possiamo intenderlo in maniera ordinaria; come illustravo nella precedente puntata, questo che, esperito come intuizione, ha qualcosa di originario ed irriducibile. Nella dimensione più originaria, questo “non capire capito” è sia il punto di partenza che il punto d’arrivo.
Naturalmente in mezzo c’è la Via.

Non è sufficiente permanere nel non capire, occorre farlo con metodo!
È infatti oltremodo impegnativo stare nel ‘non so’, ma in ultimo, la meditazione è questo e un Maestro ti insegna come farlo.
La possibilità di ascolto del ‘non so, non capisco’ è quanto tutti abbiamo in dotazione. Fornitura di base garantita! E perciò non siamo persi. Qualche genio dell’antichità indiana ha intuito che la ricerca della verità doveva trovare il suo baricentro nel principio dello stesso ricercare. Autoreferenza, ovvero la possibilità di rivolgere la mente a stessa, la domanda alla domanda, la consapevolezza al fatto di essere consapevoli, non è una brutta parola, non è sinonimo di autismo, bensì è riconoscimento di un “principio da cui tutto emana e a cui tutto, in ultimo ritorna”, secondo la bella espressione di Lama Anagarika Govinda.
Tale “punto”, che nella tradizione tantrica indiana ha nome Mahabindu e in quella tibetana tiglé, è facilmente individuabile ed attingibile.
Naturalmente è fortemente consigliato di non fare esperimenti da apprendisti stregoni, poiché gli effetti potrebbero, appunto, sfuggire dal controllo.
La cosa migliore, come sempre, è di rivolgersi a chi ha già esperienza.

È il momento di introdurre un pilastro del Buddhismo, la coproduzione condizionata, Pratityasamutpada, nei suoi dodici anelli interdipenti (nidana): avidya, samskaras, vijnana, nama-rupa, shadayatana, sparsha, vedana, trishna, upadana, bhava, jati, jara-marana.

Analizzeremo via via ogni termine.

La migliore esposizione della coproduzione condizionata che conosca è quella di Guy Bugault di cui potete trovare l’essenziale in questa intervista.

Attorno al tempio Mahabodhi, a Bodhgaya, luogo dove il principe Siddhartha Gautama s’illuminò diventando così il Buddha, lo Svegliato, vi sono sette stazioni commemorative di ciò che il Buddha fece ed intuì successivamente al risveglio. Per sette settimane rimase sul luogo, sette giorni in ciascuna stazione, incapacitato per ciò che gli era accaduto e cercandone i significati più profondi. Una stazione, ad esempio, riporta la scritta “Qui, dopo il supremo risveglio, il Buddha stazionò una settimana contemplando l’albero della Bodhi senza battere palpebra” (bodhi sta per ‘risveglio’); in un’altra, molto vicina all’albero, sta scritto “Qui il Buddha meditò riflettendo sulla legge causale”.
Udana ossia “versi ispirati”, testo appartenente al Canone antico che il lettore può trovare in edizione UTET, riporta, dopo il consueto “Così ho udito…”, ” …Il Beato… volse attentamente il pensiero alla nascita delle cause l’un l’altra condizionate”.

Cosa intese analizzare il Buddha?
Il nostro stato che si fonda su avidya, la nescienza, primo dei dodici anelli; è il ‘non so’ originario, cosmico. Sarebbe più proprio dire che il nostro stato non si fonda per niente. Per dirla alla Nietzsche, manca il perché. Non abbiamo risposte.
La prima e principale risposta mancante, per noi occidentali, e quella al grande ‘perché?’, la domanda fondamentale, già presente in Leibniz, Schelling, Scheler e ripresa da Heidegger: perché c’è ciò che c’è e non piuttosto niente?
Consideriamo seriamente la questione. Esistiamo, il mondo esiste, questo Universo esiste… Possono esservi una causa, una ragione? No, perché se vi fossero una causa ed una ragione, essendo, farebbero parte di quanto esiste, dunque decadrebbe la loro possibilità di essere causa e ragione.
Di esse stesse ci si chiederebbe “perché?”.
Siamo capaci della nozione di ‘tutto’ che, come Kant insegna, è una modalità di conoscenza a priori, trascendentale. ‘Trascendentale’ significa ‘presupposto di conoscenza’. Per indagare i trascendentali occorrerebbe usarli. E perciò restano a priori. Siamo capaci di capire cosa significa ‘tutto’ e sappiamo che non ci inganniamo su tale nozione. Per contestare tale nozione dovremmo usarla, dicendoci, ad esempio, che non si può avere la pretesa di capire tutto.
Appunto…

Dunque: perché c’è tutto ciò che c’è invece di un bel niente di tutto ciò che c’è?
Non lo sappiamo né potremo mai saperlo.

Le risposte che riconducono l’esistenza dell’Universo all’ipotetica fluttuazione del vuoto quantistico primordiale che avrebbe dato origine al Big Bang non comprendono bene che il vuoto quantistico non equivale a ‘niente’, bensì solo alla piena potenzialità (essente) dell’Universo non ancora attuato. Ascoltai una volta il fisico Ricardo Broglia, che fu allievo di Niels Bohr, il quale solo, tra tanti che provarono ad affrontare la Grundfrage ad un convegno avente questo tema, dichiarò che col vuoto quantistico non si scalfiva neppure la questione del vero niente né tantomeno del perché vi sia qualcosa invece di niente. Grande intelletto!
Eccoci a noi: non sappiamo.
Nel saggio Il mistero dell’esistenza, Milton K. Munitz affronta la Domanda Fondamentale e perviene alla conclusione che due sono gli scacchi che l’uomo vive, la morte e il perché dell’esistenza. Per sopportare il primo ci inventiamo un Aldilà dove sopravviveremo noi e i nostri cari, per sopportare il secondo cerchiamo delle cause e ragioni per l’esistenza. Ebbene, conclude, è meglio che impariamo a convivere col limite: non sappiamo né possiamo sapere.
Questa è Avidya: originaria e irrimediabile nescienza.
Buddha ci dice che dobbiamo iniziare la nostra guerra avendo già perso la prima battaglia.
Ma annuncia che la guerra alla sofferenza può essere vinta. Jaya! (Vittoria!)
Avidya significa che galleggiamo sull’abisso e allorché lo avvertiamo non stiamo certo tranquilli, bensì ci agitiamo nella tensione a chiarire e risolvere l’enigma.
Tale tensione si esprime come samskaras.
Il compianto Guy Bugault, uno dei massimi studiosi del Buddhismo, espresse magistralmente il significato di samskaras così: “…secondo il Buddha, su un fondo di ignoranza e di irrazionale si innestano delle forze motrici, degli schemi ideo-motori, che portano l’individuo a fare qualcosa.”
Questa spinta si “concretizza” nella individuazione di una coscienza personale: vijnana.
L’interessante, nell’analisi del Buddha, è che i gradi della coproduzione condizionata sono avvertibili ora nell’esperienza in atto in ciascuno di noi.

Approfondiremo questo nella prossima puntata focalizzandoci sulla relazione tra il punto originario, Mahabindu, dove si apre il nostro primo sguardo coscienziale, e il Pratityasamutpada.

Franco Bertossa
presidente di ASIA

 

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