A seguire la trascrizione delle pagine più dense del testo che ho segnalato nel precedente intervento, relativamente al discorso in oggetto. Chiedo scusa all’autore per eventuali errori di battitura. Le note sono state omesse.

Massimo Carboni, “Il sublime è ora”, Castelvecchi, Roma, 1993, p. 55-64

«Come posso vedere la natura del Buddha?»
«Il vedere stesso è la natura del Buddha».

MON-DO ZEN

Il readymade dunque è lì, davanti a noi. Non evoca niente. Insiste, persiste ad essere semplicemente lì. Significa solo se stesso, rimanda solo alla propria «insignificante» presenza. A che cosa «somiglia» uno scolabottiglie, se non al proprio identico? È imparagonabile: anche questo è il suo sublime. Kant chiama sublime «ciò che è assolutamente grande», ma l’accento cade sull’avverbio, non sull’aggettivo: «assolutamente» significa qui «al di là di ogni comparazione» (Critica del giudizio, paragrafo 25), eccedente, incommensurabile. Cioè uguale solo a se stesso.

Il readymade è tautologico. Ciò vuol dire, appunto, che non significa nulla al di fuori e al di là di se stesso. In questo senso è «assoluto», perfettamente singolare: di fronte allo scolabottiglie o alla ruota di bicicletta posso solo dire che «qualcosa» è lì. Qualcosa la cui definizione non fa altro che rimandarmi alla sua pura, elementare presenza nuda. Qualcosa di «intransitivo» nel senso letterale del termine, che non «transita» in direzione di alcunché, che non si avvia né conduce da nessuna parte. Ma in quale orizzonte si colloca questa scelta duchampiana per l’autoriferimento, che così grandi e decisive conseguenze e continue rielaborazioni avrà nell’arte di questo secolo fin dentro alla nostra stessa attualità? Qual è il senso profondo di questa mossa?

Essa in prima istanza incarna la modalità obbligata da seguire per ricondurre l’attenzione sulla cosa stessa nella sua mera esistenza, nel suo porsi a contrassegno di se stessa. Far sì che l’opera-cosa non alluda ad alcunché è in tal senso il procedimento indispensabile per svelare, o meglio mostrare la pura realtà della sua nuda presenza, per non «tradirla», per non costringerla ad essere altro da sé, per non lasciarne ricadere fuori la semplice verità che essa indica soltanto essendo. Ecco il punto: il readymade non «fa» nulla: è. Ma ci­ò­­­, per Heidegger, incarna «la meraviglia di tutte le meraviglie: che l’essente è».

É possibile dunque recuperare in Duchamp un’incide­­­­­­­­nza del Sublime anche su un piano diverso e ulteriore rispetto a quello già descritto che lo associa al perturbante freudiano. Se le consuetudini nascono proprio per domare, per ammansire l’inconoscibilità dell’esperienza, per «appaesarci» e trovare alfine una qualche identità in ciò che ci circonda, allora esse non hanno altro senso se non quello di fuggire il Sublime. Duchamp rompe radicalmente con ogni consuetudine istituzionale, artistica, di gusto; decondiziona e destruttura il sentimento estetico relativizzandone il senso e la portata.

Che cosa fa quella cosa messa lì da Duchamp se non soltanto accadere? C’è, cioè accade, invece di non esserci. Che cos’altro potremmo dire? Non ci confrontiamo qui con un radicale silenzio? Che cos’altro – e lo abbiamo visto – il suo stesso «autore» potrebbe dirci? Il readymade, l’oggetto quotidiano ridotto a cosa, esposto in quanto tale e proprio per questo al di là di ogni convenzione tradizionale di gusto estetico e di presentazione dell’opera, mostra allora non il «contenuto» dell’evento (che cosa mai può esserci di interessante in un orinatoio?) ma l’evento stesso, nella veste di un abituale che ritorna, si ripete e perciò stesso inquieta. A suo modo, il readymade non è altro che un concetto, un’idea: presenta ciò che non può venire «presentato» perchè fuori da ogni categoria classica di Presentazione. Ciò che è presentato – uno scolabottiglie – supera, sorpassa e nega la sua stessa presentazione; non perchè è simbolo dello sforzo di rappresentare l’infinito romantico, ma precisamente perché è presentato nella sua fatidicità, così com’è, nella sua «disincantata», comica e disarmante semplicità.

Non è «semplice» sostenere questa semplicità, questa improvvisa destituzione di significato, questo nudo e puro essere che accade. C’è qui allora un evidente richiamo all’impresentabilità del concetto propria del Sublime kantiano: «letteralmente, dal punto di vista logico, le idee non possono essere esibite» (Critica del Giudizio, Osservazione generale sull’esposizione dei giudizi estetici riflettenti). Ma precisamente da questa impossibilità, da questa assolutezza dell’idea che sopporta soltanto una «presentazione negativa», scaturisce il Sublime.

E allora, sulla scorta di queste acquisizioni, dobbiamo radicalizzare la nostra interpretazione. Il readymade, nella sua estrema, cruda prosaicità, mostra che invero vi è del mondo, vi sono cose, attesta la «sorpresa» di aver «sconfitto» il nulla. Pur rimanendo sospesi sul suo abisso (e la figura dell’abisso, del profondo, bathos, già in Longino è Sublime): il terrore di cui ci parla Burke e dal quale siamo avvinti nel sentimento del Sublime è fondamentalmente l’anticipazione della morte nella vita. E il terribile è appunto che nulla, il nulla, possa (più) accadere. Il readymade, questa «cosa da nulla» che reca il suo segreto sulla propria stessa superficie, tanto visibile da risultare inafferrabile, sconnessa com’è da tutti i vincoli che la legavano al contesto vitale, rimane appunto sospesa, arrischiata sul nulla, su questo fondamento negativo.

Una negatività che è strettamente connessa alla «esposizione» del Sublime anche nella formulazione che ne fornisce Hegel nell’Estetica: “questo dar forma, che viene a sua volta annullato da ciò che esso espone, di modo che l’esposizione del contenuto si mostra al contempo un superamento dell’esporre». Tale è la struttura negativa della presentazione esibita dal readymade, che lascia che la cosa continui ad essere così com’è, rispettandone – si potrebbe aggiungere in termini taoisti – il li, cioè adeguandosi alla sua intima natura, al suo principio interno. E neanche Duchamp intende «redimere», «riscattare» la cosa dal suo uso utilitaristico. Non vuole «salvarla», tantomeno in base a pretesi Valori da opporre al suo destino finito, mondano, di mero strumento che scompare nell’uso che se ne fa, nella funzione che assolve. L’operazione mentale di Duchamp è insomma il perfetto contrario dell’intervento della Tecnica che con «illuministica» tracotanza parcellizza, violenta e padroneggia il senso delle cose. L’emergere di questo aspetto decisivo nell’esperienza artistica duchampiana ci riconduce ovviamente – e già si è accennato – a Heidegger. Con accenti assolutamente orientali, taoisti, che richiamano il wei-wu-wei, l”attività-non-agen-te’ (una nozione paradossale per la logica occidentale) e che anticipano il motivo della Gelassenheit (‘abbandono’, ‘lasciar-essere’) sviluppato in seguito negli anni Cinquanta, egli afferma ne L’origine dell’opera d’arte (1936): «Lasciar che la cosa riposi nel suo esser cosa. Nulla sembra più facile che l’ente sia l’ente che è. Ma siamo invece di fronte al più difficile dei compiti, visto che l’assunto di lasciare essere l’ente come esso è, costituisce proprio l’opposto di quella indifferenza che volge le spalle all’ente e ciò che dobbiamo fare è rivolgerci all’ente, pensarlo nel suo essere, ma in modo tale da lasciarlo riposare da se stesso nella sua essenza»

«II più difficile dei compiti»: quello di Duchamp. Lo sappiamo dalle sue stesse parole. In che modo egli adempie a questo compito orientale che ha orientato così gran parte dei destini dell’arte a venire?

Il readymade ci dispone a vedere «niente», uno scolabottiglie. Ma proprio in questo modo lascia emergere l’atto puro del vedere, «riempito», «accreditato» da niente in particolare e tuttavia – precisamente per questo – reso capace di intuire la ricchezza nascosta e rivelata nello stesso tempo dalla semplice presenza della cosa esibita. La cosa che semplicemente si da: questo è il Sublime. Lo avevamo già sottolineato per il Chandos di Hofmannsthal. Ma darsi significa lasciarsi vedere, mostrarsi. Non come un oggetto che si pone davanti a un soggetto (questa dicotomia metafisica, questo velo di Maya che anche il Futurismo, negli stessi anni di Duchamp, ha contribuito a demolire, per non far riferimento poi agli sviluppi della scienza contemporanea), ma come l’apertura della possibilità stessa che una visione in effetti si dia, come il predisporsi della condizione irrinunciabile perché qualcosa in realtà possa vedersi, apparire, manifestarsi. Qui davvero il readymade duchampiano è un oggetto logico e sublime al contempo, un prèt-à-porter filosofico-poetico. Qui davvero l’arte è direttamente pensiero pur rimanendo arte. Cioè esibizione, presentazione sensibile, collocazione spaziotemporale, mantenimento di un luogo fisico. Eppure pensiero. Rammentiamoci che il readymade non è, alla lettera, un segno, è segno di niente se non di se stesso, e leggiamo questo brano in cui Heidegger individua l’origine del linguaggio in qualcosa che non ha suono, che linguaggio non è, che è puro mostrare: «Ciò che fa essere il linguaggio come linguaggio è il Dire originario (die Sage) in quanto Mostrare (die Zeige). Il mostrare proprio di questo non si basa su un qualche segno, ma tutti i segni traggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini [soltanto] acquistano la possibilità d’essere segni».

Il fatto stesso che vi sia il linguaggio è la precondizione, il presupposto rispetto a ciò che nel linguaggio si dice, qualunque cosa si dica, qualunque parola si proferisca. Ricordiamoci della meraviglia di Wittgenstein per il cielo comunque esso fosse, dello stupore per l’esistenza stessa del mondo, e della loro intima connessione al Sublime in Chandos-Hofmannsthal.

In ogni enunciato, in ogni atto di parola è indicato, senza essere proferito, senza essere effettivamente nominato, qualcosa che quell’atto presuppone, qualcosa che è condizione di quell’enunciato. Cioè lo stesso aver-luogo del linguaggio. E questo aver-luogo non si può proferire, non si può nominare. In ciò che dico non posso dire ciò che mi permette di dire, ciò che fa sì che io dica. Al e nel fondo del dicibile, dei nostri linguaggi praticati, «giocati», vi è un indicibile che li sostiene che è condizione perché qualcosa possa essere effettivamente detto.

Questo non è affatto «misticismo». Al contrario: si potrebbe dire che la ragione è tanto più potente quanto più è in grado di riconoscere se non addirittura produrre i propri limiti. Può solo in quanto sa che non tutto può. Tanto più è operativa quanto più raffinatamente sa stabilire i propri confini: l’immagine del mondo ridefinita dalle scienze contemporanee non cessa di ricordarcelo.

Le nostre parole prendono dunque vita da un centro vuoto, che non fa parte del linguaggio di parola. Questo centro è alla lettera insignificabile giacché è la condizione stessa che permette ogni significazione. Se si potesse dire, ogni nostra parola avrebbe l’inaudito arrogante potere anche di non dirlo, di porlo e di toglierlo a nostro piacere. Sarebbe semplicemente una nostra rappresentazione, un nostro fenomeno. Ma l’esistenza del linguaggio, indipendente da cìò che in questo linguaggio si dice, il fatto che vi sia un mondo, non è un nostro fenomeno. Non ne siamo padroni. Così come non siamo «padroni» – già in Longino questo è chiarissimo – del Sublime: che ci eccede, che trascende la nostra misura e proprio per questo ci colpisce. E perché non posso dire l’aver-luogo del linguaggio, perché non posso «voltarmi indietro» e tematizzare con le mie parole il fatto stesso che vi sia parola?

Perché ciò è profondamente connesso con la dimensione stessa dell’essere; e dell’essere – il pensiero lo sa da quando è nato – non vi sono «nomi». Se questo essere è ineffabile, la forma in cui si dà non è quella del linguaggio di parole. Proprio per questo, fin dagli inizi della filosofia (e poi in Hegel, in Heidegger, in Wittgenstein), il piano ontologico, cioè quello che attiene all’essere stesso e non a quello che vi «accade» all’interno, corrisponde non al dire, al significare, ma all’indicare, al mostrare, all’esibizione silenziosa di sé. Il dire originario – abbiamo visto in Heidegger – senza suono, senza voce mondana, è appunto un mostrare.

«Il signore che ha l’oracolo a Delfi non dice né nasconde ma accenna» sentenzia Eraclito. Il maestro Zen, per tutta risposta alle assillanti domande del monaco sul significato dell’esistenza, semplicemente alza in silenzio un dito. E per Kant il passo più sublime della Bibbia è quello che in Esodo, 20, 4, interdice ogni immagine di Dio. Ci siamo forse allontananti dal senso del readymade duchampiano? Neanche di una spanna: appena sospeso sul flusso distratto delle cose, ci si fa avanti, ci si avvicina in una pura ostensione, come quando invece di dire «mela», si afferra una mela e la si mostra al nostro interlocutore. Come la spiga di grano silenziosamente esibita nei misteri eleusini. Il readymade, allora, lascia emergere con forza ancora maggiore ciò che ogni opera d’arte reca implicito nella propria struttura manifestativa: prima di tutto, mostra sé, si dà alla visibilità. È astante. Indica silenziosamente se stessa. Questo rimane il suo «scandalo». Disponendosi sul piano dell’indicazione e non su quello della significazione, il readymade «accenna» alla sfera stessa dell’essere. Che, appunto, non si può presentare perché supera ogni qualsiasi presentazione particolare. E questa, ormai lo sappiamo, è la struttura negativa e antinomica del Sublime.

Ma il fare arte deve pur esibire qualcosa (vedremo tra poco, tuttavia, che perfino questa condizione minima viene insistentemente interrogata e messa in questione proprio dalle pratiche artistiche contemporanee che discendono direttamente dalla lezione duchampiana).

Come farà questo «impresentabile» a presentarsi? Precisamente assumendo su di sé quei tratti che abbiamo fin qui elencato e commentato il readymade è frutto di una scelta il più possibile casuale, indifferente, non intenzionale. Nella sua cruda prosaicità, rimanda solo a se stesso; non tanto «significa» quanto indica la propria presenza; non «tematizza» nulla se non la pura e semplice ostensione di sé, non trasforma la cosa ma lascia essere così com’è pur dislocandola nello spazio, uno spazio che essa non «occupa», non violenta, ma all’opposto fa nascere a se stesso come il luogo in cui qualcosa di indifferenziato, si manifesta. Tutti questi elementi ci rimandano appunto a un evento puro in cui nulla «accade» se non, nella sua sublime neutralità, l’accadere stesso. Non c’è «niente» da presentare, c’è che si dà presentazione. La presentazione ha luogo, ma non presenta niente. Il readymade è semplicemente, silenziosamente, «comicamente», offerto: questo è il Sublime duchampiano.

Ma Duchamp è andato oltre. L’intenzione era quella di estendere la pratica del readymade e svilupparne fino in fondo le premesse. Rimaneva ancora un presupposto ritenuto indispensabile, una condizione da conservare incriticata perché un oggetto di uso comune potesse diventare un’opera d’arte: la sua maneggevolezza, che permetteva di poterlo dislocare in un contesto convenzionalmente artistico, la galleria o il museo, nella «cornice» di una mostra. Occorreva abbattere anche questo presupposto.

Duchamp allora «dichiara» un grattacielo essere un readymade artistico. Non c’è più cornice, non c’è più contesto come dispositivi di trasposizione dalla vita all’arte: c’è soltanto la perturbante onnipotenza del pensiero. Qui, anora più radicalmente, Duchamp indica, e questa intuizione sarà sviluppata negli anni Sessanta dall’artista concettuale Roger Cutforth con la pratica del pointing, dell”indicare’, appunto. L’operazione artistica, cioè, ormai tutta mentale, si connette in termini ancor più ravvicinati a quella sfera dell’essere che, abbiamo visto, può venire solo indicata e non detta. Siamo a un passo dal silenzio totale, dal non fare (il wei-wu-wei, l”attività-non-agente’ taoista), che per un artista significa fare altre cose e non più «arte».

Ma è possibile liberarsi dal dominio del discorso, sfuggire al circolo vizioso dei linguaggi? Questione tipica dello Zen. Ma è anche l’interrogativo che sostiene la prima fase del pensiero di Wittgestein: è possibile uscire nel mondo, limitarsi alla silenziosa pratica, dopo le proposizioni del Tractatus, dopo l’ultima, famosa, che ancora suona, ancora dice: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere»? In effetti, «non c’è altra possibilità di far senso del Tractatus che buttandolo via». Così Duchamp, che «smette» di fare arte (non importa se tale decisione non si sia poi rivelata definitiva; l’importante è che il limite, il bordo sia stato pensato, ma in questo caso anche «toccato») e comincia a giocare a scacchi a Central Park e a passeggiare per New York. Come Lord Chandos che abbandona il linguaggio e vive il Sublime, recuperandone il più intimo significato. Quel significato che, abbiamo visto, aveva già in Longino: «Non un procedimento formale, ma un comportamento».

Questa è la dimensione etica del Sublime: viverlo, non «dirlo». Mostrarlo con la propria stessa esistenza, con la propria forma di vita. Non è un caso se qui troviamo anche John Cage, «allievo» di Duchamp. Non occorre più, a questa altezza, esibire un oggetto; non si pone più problema di « presentazione». Il tragitto è stato interamente percorso e bruciato fino in fondo, con la più strenua coerenza, la più inflessibile logica. Ma appunto: «oltre» la logica c’è la vita; la cui essenza non è dalla logica neanche sfiorata. L’arte si è «chiusa» nella vita: questo il senso ultimo del radicalismo duchampiano. In tal senso, davvero opposto ad ogni cattivo misticismo dell’impronunciabile e del trascendente, e soprattutto ad ogni vano, umano troppo umano sforzo di «dirlo», il readymade, nei termini in cui Duchamp ne ha sviluppato le premesse, è davvero «ineffabile». Esiste, beninteso qualcosa di inesprimibile, ma per l’appunto non è questione di «esprimerlo»: «Esso mostra sé, è il mistico», dice Wittgestein.

Per la «semplice» ragione che «ciò che può essere mostrato non può esser detto». È la stessa «logica» del Sublime moderno. Esorcizzare il mistico – ciò che non è raggiungibile dalla dimensione linguistica – significa credere che non vi sia nulla di cui tacere. E questo è folle. «Tutto» si può «dire»: ma appunto si può soltanto dire. Lo scolabottiglie convertito in opera che si offre al nostro sguardo – e tanto più l’oggetto solo indicato e perciò stesso costituito in readymade – ci attesta che c’è qualcosa che si può soltanto mostrare. È il Sublime completamente deretoricizzato, scarnificato, radicalmente di ogni «iconografia», né «alto» né «profondo». Trasformato in pratica, in forma di vita. Proprio per questo si porta sul bordo, al limite dell’esperienza artistica. Duchamp concepisce l’estremo e lo pratica, pensa il limite e lo offre. E l’estremo, il limite abitano nel Quotidiano.

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