Vi proponiamo la trascrizione dell’incontro, avvenuto presso l’Associazione Culturale Asia Modena il 9 ottobre 2008, con Prof. Luigi Lombardi Vallauri dal 1970 professore ordinario di Filosofia del diritto nell’Università di Firenze.

Domanda: Prof. Vallauri, Lei parla molto dello stupore. Mi chiedo sempre quale sia la ragione dello stupore, la sua matrice. Cosa lo giustifica? In quello che Lei dice ho individuato alcune di queste ragioni per stupirsi: la complessità delle forme di vita, la durata dei tempi geologici, la lontananza delle distanze astronomiche, l’enormità delle dimensioni stellari o la incredibile piccolezza e precisione di atomi e molecole, etc. .
Ma mi chiedo: il semplice non è forse stupefacente come il complesso? Personalmente io trovo che la matrice dello stupore sia qualcosa di molto radicale e che ogni volta mi sconvolge: la semplice impossibilità di questa esistenza invece che il nulla. Nei termini di Wittgenstein: non come il mondo è, ma il fatto che – essendo impossibile – esso sia, esista… Non è questo lo stupefacente?

Luigi L. Vallauri: Provo a dare una risposta. Una prima ragione di stupore è che io non so chi sta parlando. Penso di essere io a parlare, ma quando penso cos’è un io, non vedo assolutamente nulla. Allora dico “è un cervello che parla, e precisamente il mio”. Ma perché sia mio, bisogna che ci sia io. E il cervello è un illustre sconosciuto, le neuroscienze cognitive hanno solo 30 anni. Quindi, chi parla non è il cervello perché lui non è me, e non sono io perché io sono impensabile, non ho forma. Vai a sapere chi sta provando a rispondere, è un’altra forma di stupore.

La categoria meno capace di stupore che io conosco è quella degli addetti ai lavori: ad esempio l’enormemente grande per un astronomo è un fatto normale, banale, un mero dato che non crea stupore. Allora mi sono chiesto più volte se lo stupore è semplicemente quello dello stupido, se stupor è stupidus, se io mi stupisco solo perché sono un naif.
Non so bene se lo stupirsi sia un evento di tipo affettivo, come lo star bene e lo star male, o abbia valore di conoscenza. Potrebbe essere che ci si sente stupiti così come ci si sente irritati.
Non rispondo, aggiungo domande: lo stupore è una sensazione come lo star bene o lo star mare, o piuttosto è uno stato rivelativo?

Certamente la capacità di meravigliarsi è l’origine della filosofia, del pensiero. Ad esempio, mi stupisce moltissimo l’auto-estrusione del corpo dalla cellula: nella nostra specie, appena avvenuta la fecondazione dell’ovulo abbiamo una cellula del diametro di un decimo di millimetro che si chiama zigote, costituita per la gran parte da acqua e contenete 43 cromosomi. Lì dentro c’è l’informazione sufficiente per produrre un corpo umano di centomila miliardi di cellule differenziate, ognuna delle quale si va ad integrare in un sistema complesso. La cosa stupefacente è che lo zigote è il piano di costruzione, il costruttore e al tempo stesso il cantiere.
Ci stupisce anche perché nel mondo umano non c’è nulla di simile: di fronte a casa mia hanno impiegato decenni per la ristrutturazione di una casa, noi invece assistiamo in nove mesi alla moltiplicazione vertiginosa di cellule infinitamente sapienti generata da una cellula piena di informazione, informazione che deve essere liquida e confinata in un contenitore di un millesimo di millimetro cubo, questo è il logos del biologico. Ci stupisce perché è completamente diverso da quello che succede nel mondo umano, in cui servono architetti, tecnici coordinati, squadre di operai specializzati, materiali etc.

Ma stupirsi di questo sembra naif, perché tutti i biologi lo sanno e nessuno prende più il premio Nobel per la scoperta dello zigote. Così come nessuno prende il premio Nobel perché scopre che esiste un mondo piuttosto che il nulla. E qui vengo alla sua questione.

All’aforisma di Wittgenstein – “Che il mondo è, non come è, è il Mistico” – io aggiungo sempre: “ma anche come il mondo è”. Proprio per questa incredibile quantità di informazione, per questa incredibile improbabilità rispetto all’entropia che vi sia qualcosa come il corpo umano e che esso sia edificato da una sola cellula. La probabilità che i futuri atomi costitutivi di una cellula abbandonati alle due forze fisiche fondamentali dell’universo – gravitazione e elettromagnetismo – producano una cellula, è di 1 su 10 alla miliardesima potenza (un numero impressionante se si pensa che le particelle dell’universo sono 1 alla ottantesima potenza). Una probabilità trans-cosmica. Quindi per me è mistico non solo “che il mondo è ” ma anche “come il mondo è “.

Domanda: Lei dice “realizzo la incredibile complessità e improbabilità dello zigote”. Come può ottenere una realizzazione intensa per mezzo di una immaginazione?

Luigi L. Vallauri: L’immaginazione è soltanto il rappresentarsi delle cose fisiche senza che agiscano fisicamente su di noi. La realizzazione è piuttosto una intuizione intellettuale. Il gruppo di meditazione realizzativa che guido è nato proprio con l’intento di procurarsi stupore, di procurarsi risveglio ontologico. Ogni anno cambiamo tema e sempre ci occupiamo di cose di cui siamo ignoranti: il primo anno ci siamo occupati di astronomia, il secondo di matematica, il terzo dell’evoluzione, il quarto dell’alto medioevo, etc.. Ma cerchiamo sempre una intuizione intellettuale.

Domanda: Perché non cercare l’origine dello stupore?

Luigi L. Vallauri: E’ giusto cercare la causa, l’origine dello stupore, ma direi che è celata, è nell’oscurità, è nella nube della conoscenza. Come anche l’intellezione: qual è l’origine del fatto che ci capiamo?
Lo stupore, come l’innamoramento o il pensiero, sono fenomeni mentali. Per noi è impossibile rappresentarci il passaggio dalla carne, dalla fisicità, ad essi.

Domanda: Si può approfondire l’origine dei fenomeni mentali e della coscienza?

Luigi L. Vallauri: Ai vecchi tempi c’erano quelli che lo attribuivano all’anima: dicevano che – siccome le rappresentazioni coscienti della mente manifestano ciò che le produce – allora la mente che è immateriale, deve avere una origine immateriale. Queste erano le prove dell’esistenza dell’anima, da Platone in giù.
Io però sono scettico perché ho l’impressione che dell’anima non riusciamo a rappresentarci assolutamente nulla, per esempio non sappiamo che rapporto ha con lo spazio: non può essere né puntiforme, né sagomata, né infinita. Ho il sospetto che dire “anima” sia come dire vis-dormitiva (come gli aristotelici per spiegare il fenomeno dell’addormentamento, dicendo che era dovuto a una vis-dormitiva, quel non so ché che fa si che ci addormentiamo). “Anima” sarebbe quel certo non so ché che fa si che abbiamo una coscienza: ma non aggiunge nulla a quello che sappiamo della coscienza, e in nessun modo ce la rappresentiamo.

Però non sono materialista, perché se dico che la coscienza è un prodotto del cervello, siccome non riesco assolutamente a rappresentare il modo in cui il cervello con tutti i programmi dentro – tutta roba materiale – produca anche in questo istante di coscienza, allora rimango senza parole. Per questo la mia posizione filosofica si chiama apofatismo: quando l’esercizio stremo e non scettico della ragione sui problemi ultimi approda all’irrappresentabile. E’ quella che i teologi chiamavano la via negativa. Sappiamo solo quello che non si deve dire, praticamente non puoi dire niente, la coscienza non è una sostanza… non sai proprio cosa dire.

In termini più generali l’apofatismo è la posizione a cui si arriva quando si fronteggiano i problemi fondamentali: come l’esistenza ce l’ha fatta ad essere? Come è scaturita la coscienza, e come questa scaturisce anche in questo momento? Quali sono i fondamenti? Se i fondamenti per definizione non possono essere fondati, in ultimo tutto quello che è fondato poggia sull’infondato…
Questi vengono detti super koan, gli indecidibili, insolubili, irrappresentabili.
Ma non dobbiamo fare dell’apofatismo facilone, bisogna studiarci sopra.

Domanda: Questo stupore che si snoda tra il biologico, e l’astronomico, non è una ricerca di un percorso sapiente della vita, e quindi una ricerca di Dio, di un progetto intelligente?

Luigi L. Vallauri: Questa è la domanda incresciosa che mi aspettavo. Dio è quella cosa con la quale e senza la quale tutto resta esattamente tale e quale, una vis-domitiva. È un modo per rispondere alla domanda “perché esiste il mondo?”, ma su questo ci sono solo tre ipotesi, tutte incomprensibili.

  1. Supponiamo che il mondo esista per virtù propria (non è originato da un Dio, da un Brahma, etc.) da un tempo finito. Se esiste da un tempo finito, allora ad un certo istante esso appare dal nulla. Ma se dal nulla nasce qualcosa, cade tutto il pensiero umano.
  2. Supponiamo che il mondo esista per virtù propria da un tempo infinito: esso è gravato da tutti i paradossi dell’infinito tra i quali l’uguaglianza della parte e del tutto; e l’eterno ritorno, per il quale ogni evento ha una probabilità infinita di essere accaduto infinite volte.
    Allora non possiamo né pensare che un mondo sia nato dal nulla e neanche che esista da sempre.
  3. L’altra ipotesi è che il mondo non esista per virtù propria, ma nasca da Dio! Ma se noi cominciamo a pensare come è fatto Dio non capiamo più nulla.

C’è la certezza che una delle tre ipotesi è vera. Questo è per me il massimo della mistica, che esprimo come: “Il mondo ce l’ha fatta, in qualche modo, e precisamente nella maniera in cui ce l’ha fatta”. Ci stiamo occupando dell’origine, sicuramente avvenuta, del mondo, che sicuramente c’è.
Questo è l’apofatismo, e sapere quando entriamo nell’apofatismo è importante, perché altrimenti rischiamo di aggrapparci ad un sacco di cose.

Domanda: Vorrei fare una domanda sulla pratica delle emozioni. Intanto vorrei ringraziarla per tradurre in termini accessibili a noi occidentali lo scopo di antiche discipline come lo Yoga, il Tantra e la Meditazione: come strumenti per la creazione di un supporto energetico e intuitivo attraverso cui si manifesti la nostra natura essenziale. In queste Vie, gli oggetti “emozionanti” non sono tanto da considerare come causa delle emozioni ma come possibilità di rivelarci la nostra essenza.
E qui vorrei porre la mia questione: l’esperienza che più mi ha coinvolto e più mi interessa indagare è quella tonalità emotiva che è indicata dal filosofo Martin Heidegger con il termine tedesco angst. In italiano è spesso tradotta come “angoscia”, ma la vedo meglio resa come “domanda di senso”, espressa come: che senso ha tutto questo? Che cosa stiamo a fare qui? Nel parlare di questa tonalità emotiva Lei si esprime come: “c’è morte dappertutto”, “morte arriverà”, “è inevitabile, arriveremo lì”. Secondo lei, questa è una emozione da contenere e gestire, o che può sbocciare attraverso lo Yoga e la Meditazione? Cosa essa ha da dirci sulla nostra natura essenziale?

Luigi L. Vallauri: Mentre sono qui con voi sono euforico, perché si crea un ponte di comunicazione e questo ponte mi fa dimenticare il pilastro che sono io!
Ma è anche vero che appena mi sdraio a letto mi assalgono la paura e la visione della dolorosità, dell’impermanenza, della morte, della insostanzialità… ed io soccombo. Sono in un periodo della vita in cui debbo combattere momento per momento contro la tristezza, contro la malinconia. So di aver trascorso i 7/8 della mia vita, nella migliore delle ipotesi. Più le cose sono gioiose e più mi danno tristezza; più i miei nipotini sono adorabili e più me li immagino diventare pulisci-cessi di alberghi di lusso per miliardari cinesi; o li vedo pensionati che si vanno a sedere a ottanta anni in un giardino; e comunque vedo tutto immerso nella morte.
Vivo, in questo periodo, secondo un imperativo di superficialità, lotto strenuamente per essere superficiale. Essere profondo, pensare alla morte è per me una passività ineluttabile, ma così non riesco a vivere: quindi finché sono vivo mi prescrivo superficialità. Qui con voi ho celebrato lo stupore per l’essere ma l’ultima parola è al non essere. Come scrisse Beckett :

Niente è più reale del niente
Perché dal niente veniamo e al niente torneremo
Cent’anni fa c’era il niente di me e tra cent’anni ci sarà il niente di me
Niente è più reale del niente

Come gestire – o far sbocciare – questo super evento?
Un primo modo per gestire il fatto della morte è quella di capire come è straordinario che conosciamo la morte: l’uomo ha un sentimento della morte molto acuito rispetto agli animali, e questo rendersene conto costituisce un valore aggiunto. Sarebbe meglio essere come animali?
“La nobiltà ha un prezzo”: ti rende molto più cosciente, molto più responsabile, e a volte ti rende molto più triste.

Un secondo modo è accettarlo. C’è un frase taoista che recita “Le leggi che ci hanno dato la vita sono esattamente le stesse che ci danno la morte”. Il pacchetto è unico, lo si prende tutto. Questo lo ritroviamo nel simbolo del Tao, nella complementarietà degli opposti vita e morte. Non ci sono leggi buone e cattive. Quello che noi chiamiamo vita è inscindibilmente morte, e quello che noi chiamiamo morte è necessariamente vita. Questo è il tipo di vita che ci è stato dato. La saggezza sarebbe mettersi d’accordo, dire “ok questo pacchetto è indivisibile”; è una delle linee possibili.

Una terza linea, e in questo lo Yoga e la Meditazione sono la Via, è quella di vedere insieme impermanenza e splendore: che invece che esserci il nulla ci sia qualcosa è meraviglioso, ma è meraviglioso proprio perché su sfondo di nulla; il nulla è come un condimento, perché lo sbalzo dell’essere fuori dal nulla gli dà pregio. Il niente e la morte rendono talmente improbabile che ci sia qualcosa, che questo qualcosa è un formidabile successo.

Di certo la domanda di senso ha un valore grande, anche se può dare emozioni scomode. Ad una conferenza lo psicologo Hillman ha detto “La società occidentale è paranoica, vuole coprire tutta la terra con il suo pensiero, col cristianesimo, con la tecnica, con la scienza, col potere militare… ma il futuro della civiltà non è nella paranoia, è nella depressione”. La civiltà occidentale ha bisogno di depressione, perché vedendo cosa fanno i paranoici, allora ben vengano i depressi, i malinconici. Io sono un malinconico depressoide, quindi il futuro della civiltà è affidato, diciamo la verità, a quelli come me. Tra l’altro i depressoidi hanno un grande senso dello humor, i paranoici ne sono assolutamente privi.
Gli artisti sono dei malinconici un poco depressi, e hanno ragione perché la malinconia è realistica. Quando una persona mi dice: “io sono depresso, o non so più che senso abbia il mondo” io rispondo “attento a non buttare via tutta la tua depressione o tutta la tua ansia, perché esse sono preziose”. Sono veritiere, perché è vero che si morirà.

Il buddismo dice : l’esistenza è impermanenza, insostanzialità, dolore.
Cosa dice il depresso? Esattamente la stessa cosa. Allora vi ripropongo una domanda: Che differenza c’è tra il buddismo e la depressione?

Domanda: Il buddismo dice che il dolore può finire. Non è che forse il problema sta nel modo in cui intendiamo il niente? Quando Lei parla di morte, di dolore, di impermanenza, intende il niente come qualcosa di preciso: è quel punto dove le cose terminano,dove si annientano, dove hanno fine. Ma quando si vive lo stupore – Lei lo ha chiamato prima “splendore” – per il fatto che si vedono le cose e se stessi stagliarsi sul niente, su un “non sfondo”, si tratta dello stesso niente? A me non pare…

Luigi L. Vallauri: Sì, può darsi che ci siano diversi tipi di niente così come ci sono diversi tipi di vuoto. Il vuoto dei fisici e quello dei buddisti sono diversi, e possono esserci diversi tipi di nulla. Anche se io penso che la differenza stia nell’attaccamento: Buddismo e depressione dicono la stessa cosa – morte e insostanzialità – però il depresso è attaccato, aggrappato all’illusione e al desiderio che le cose non siano così, mentre il buddista dice: “Ok, va bene così”. Il buddista illuminato è uno che dice “questi sono i patti”, è risvegliato al reale e lo accetta. Mentre il depresso ci piange su. Forse “la fine del dolore” di cui parla il buddismo si riferisce alla radicale accettazione delle regole del gioco.

Termino con la definizione che Aristotele da dell’Amico”: “Amico è colui con il quale fare quello che desideri è più facile di quando sei solo”.
Io lo traduco in termini esistenziali: il vero amico è colui con cui ti è più facile essere te stesso di quando sei da solo. Siccome parlandovi di queste cose, e voi mi ascoltate con attenzione, faccio proprio quello che vorrei fare, e quando sono solo lo faccio con più difficoltà o non lo faccio, quindi siete miei amici. Perché essere me stesso con voi è stato più facile che esserlo da solo. Grazie.

Luigi Lombardi Vallauri: dal 1970 professore ordinario di Filosofia del diritto nell’Università di Firenze. Dal 1976 al 1998 ha insegnato per incarico la stessa materia nell’Università Cattolica di Milano, dalla quale è stato espulso per eterodossia. Dal 1973 al 1977 Direttore dell’Istituto per la Documentazione Giuridica del CNR di Firenze. Dal 1996 al 2000 Presidente della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica. I suoi studi coprono un arco molto ampio di tematiche non solo filosofiche. I suoi libri più noti sono Terre. Terra del Nulla, Terra degli uomini, Terra dell’Oltre, Milano 1989; Logos dell’essere, logos della norma, Bari 1999; in Nera Luce, Firenze 2001, ha approfondito la filosofia della religione e ha gettato le basi di una mistica laica, pensata e metodicamente praticata, all’intersezione tra spiritualità orientale e scienza/arte occidentale. Per RaiRadio3 tiene dal 2004 i cicli di trasmissioni Meditare in Occidente.

A cura di Roberto Ferrari e Olivier Stussi