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Un sapere nascosto

Già ne scrissi diverse volte in passato:

ben più della natura fondamentale della coscienza, è recondito il mistero dell'essere, essere perfino della coscienza stessa.

Il sapere fondamentale si riflette nella coscienza, ma la coscienza non è direttamente capace di esso.

Parlo del sapere dell'essere.

Da parte dell'essere, circa il fatto d'essere.

Con "essere" intendo un significato che solo Heidegger ha saputo chiarire: essere menziona la "differenza" tra niente e l'altro-rispetto-a-niente.

Cosa significhi niente non si può non saperlo.

Il negarlo lo confermerebbe.
Se provassimo a pensare "non so cosa significhi niente", ciò equivarrebbe a "del mio sapere del niente: niente".
Inevitabilmente lo useremmo perfino per contestarlo.

Tutti sappiamo – e non possiamo non sapere – che significhi "niente".

A partire da ciò, il niente non si dà e questo perché... non esiste.

Il niente è niente.

Mentre gli fa contrasto quel che viviamo ora e che è altro-rispetto-a-niente.

La nostra tradizione ha chiamato "essente" questo altro.

Non va chiamato "essere", ma "essente", specifica Heidegger, poiché "essere" intende la differenza tra essente e niente.

E questo è il nostro sapere fondamentale – il sapere dell'essere, da parte dell'essere, circa il fatto d'essere.

Essere, così, chiarisce che i due termini significano, l'un per l'altro, il totalmente altro.

Il niente non c'è.
L'altro-da-niente lo indichiamo con un "che c'è", ossia "che è essente", evidenziando che non è un mero niente.

Se l'altro-rispetto-a-niente si distingue da niente proprio perché non è un mero niente, ma è totalmente altro rispetto a niente, allora esso va inteso anche come la totalità raccogliente tutto l'altro-rispetto-a-niente.

L'essente nella sua totalità, il tutto.

Se di qualcosa diciamo che c'è, allora nega il niente e ricade nell'altro-da-niente.

Così è per la coscienza.
Così è per Dio – se c'è.

....

Sono cosciente?
Dunque sì.

È la coscienza, questa stessa che vivo ed esperisco ora – fosse anche nelle sue più originarie, sottili o spirituali aperture – il termine ultimo del sapere?

No.

Perché è altro da niente.

Se di essa stessa so essere, allora essa è essente, è altro-da-niente e non niente.

E dunque, dove cercare il termine ultimo del sapere?

Nella Differenza.

È un sapere inesistente?

No, poiché ne sto parlando e in esso mi muovo pensando.

È un sapere essente?

No, poiché se lo fosse apparterrebbe solo all'ente e nulla potrebbe saper della Differenza rispetto all'ente.

Il sapere dell'essere è un sapere di cui non si può predicare, poiché ogni predicarne sarebbe, con ciò appartenendo all'altro-rispetto-niente.

I Buddhisti chiamano questo sapere "Prajna".

Essa non è qualcosa,
Essa non è (un) niente.

La tradizione buddhista illustra la Differenza attraverso la diretta esperienza della vacuità, ovvero della cessazione di ogni possibilità di conoscenza discorsiva di qualechessia fenomeno.

La tradizione buddhista chiama "dharma" i fenomeni.

Ogni dharma è caratterizzato dalla vacuità, dice il Sutra del Cuore.

Essi sono "sospesi, silenziosi e vuoti", dice lo zen.

La Prajna è la sapienza ultima circa ogni possibile essente, ma essa stessa non è essente – e neppure è un mero niente.

Il saper dell'essere – la Prajna – ha senso solo in rapporto ai dharma.

Senza dharma, neppure il sapere della vacuità dei dharma: la Prajna.

Così, senza essenti, neppure il saper dell'essere degli essenti.

Qui la fenomenologia esistenziale heideggeriana e la Prajnaparamita si incontrano.

Noi occidentali capiremo e, speriamo, realizzeremo la vacuità solo attraverso la luce di Heidegger.

Le due culture hanno un ponte obbligato di congiunzione.

Se si riesce a intendere l'abissalità del mistero.

.....

Foto: Heidegger e D.T. Suzuki
Due grandi luci dell'essere – ma in realtà una sola.

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