Trascrizione di una lezione di Umberto Galimberti alle Vacacens de l’Esprit 2006

Oggi pomeriggio parliamo di una dimensione che ci fa vedere in qualche modo all’origine dell’uomo; è ciò da cui l’uomo si è potentemente difeso e che continua ad operare e che io ipotizzo essere il vero antagonista dell’apparato tecnico, che non è la buona volontà degli uomini, non il loro romanticismo, non la loro nostalgia dell’umano come l’hanno conosciuto, non tutte le cose nelle quali noi collochiamo le nostre “speranze”.

Il vero antagonista della tecnica io lo chiamo sacro, il sacro.

Sacro è una parola indoeuropea che noi traduciamo con “separato” e fa riferimento alla potenza che gli uomini hanno avvertito come superiore a loro e perciò collocata in uno scenario “altro” a cui hanno dato il nome di sacro, successivamente di “divino”. In questo scenario Dio è arrivato con molto, molto, molto ritardo. Cerco di indicare una terminologia in modo che nessuno identifichi il sacro con Dio. Si tratta di potenze che l’uomo ha avvertito come superiori a sé e ha collocato in una regione “altra”, denominata appunto “sacralità”. Sacralità è una parola ambivalente che vuol dire al contempo, benedizione e maledizione: tutte le parole che oltrepassano l’umano sono parole ambivalenti. Stante la natura ambivalente di questa dimensione, ambivalente è anche il rapporto che l’uomo stabilisce con il sacro: da un lato lo teme come si può temere ciò che si ritiene superiore e che non si è in grado di dominare e dall’altro ne è attratto come si è attratti dall’origine da cui un giorno ci si è emancipati.

Il sacro è una dimensione perdurante nella condizione umana, può essere rimosso, invocato, temuto, dimenticato addirittura, ma opera comunque. Per difenderci dal sacro sono nate le religioni, le quali, non sono dimensioni che ci mettono in rapporto con il sacro bensì ce ne difendono.

La parola religione significa relegare, recintare, contenere e le religioni hanno fatto una grande operazione di contenimento della dimensione sacra, un contenimento di natura spaziale nel senso che lo spazio del sacro è uno spazio recintato come può essere recintata una fonte sacra, un albero sacro, perchè il contatto con il sacro è un contagio, è qualcosa di estremamente pericoloso, dagli effetti sostanzialmente imprevedibili. Ci sono dei tempi sacri che sono rigorosamente determinati dall’ordine religioso e si chiamano giorni festivi. La festa non si pone in linea con il giorno feriale che è il giorno umano, il giorno del lavoro, il giorno della razionalità, il giorno dell’assunzione, il giorno della responsabilità. Il giorno festivo è il giorno della dissipazione. Nei giorni festivi, anche nelle nostre tradizioni, si consuma oltremisura, si uccidono gli animali che si sono allevati, si fa festa e si consentono le trasgressioni, da quelle alimentari a quelle sessuali fino a quella immagine della cultura romana come ad esempio i Saturnali, dove si trasgredisce perfino l’ordine gerarchico: per il periodo della festa gli schiavi diventano padroni, i padroni diventano schiavi. Si sconvolge un ordine, si entra in una sfera sacrale ed è per questo che tutte le feste sono rigorosamente comandate da chi ha il potere di concedere una sorta di contatto con la dimensione sacrale. A presiedere questo territorio sono i “sacerdo”, cioè coloro che hanno una certa dimestichezza col sacro, con un piede fuori dalla zona sacrale, lo regolano, lo mediano, ne consentono il contatto (contagio) e liberano dal contagio/contatto coloro che ne sono eccessivamente immersi. Se vogliamo definire questa dimensione sacrale dovremmo darne una definizione per difetto, una definizione in negativo perché con le definizioni siamo già nella sfera umana, siamo già nei giorni feriali, negli spazi desacralizzati. Potremmo dire che il sacro è l’indifferenziato e l’indifferenziato è quello scenario all’interno del quale non è possibile reperire delle differenze, delle distinzioni.

La differenza, la distinzione è ciò che ci consente di nominare le cose e di trattarle secondo un significato univoco. Se io, per esempio, prendo in mano un bicchiere, nessuno dei presenti si agita perché tutti ritengono che io stia alla definizione di bicchiere. Il bicchiere, secondo la definizione convenuta, è uno strumento per bere, anche se non è vero che sia solo questo. Definizione vuol dire che lì finisce il suo significato, ma io potrei prendere in mano questo bicchiere e usarlo come arma impropria; questo ci lascia intendere che tutte le cose sono immerse in un’aria sacrale, ovvero in un’aria indifferenziata, sono disponibili per mille significazioni e non sono contenute in un unico significato, che è quello che una comunità consegna alle cose per due ragioni; la prima è per ridurre l’angoscia e rendere prevedibili i comportamenti. È chiaro che, se io prendo in mano questo bicchiere e nessuno si agita, si suppone che io tratti il bicchiere secondo quello scenario di possibilità che è la sua funzione di far bere. Quindi la definizione, la differenza, la determinazione per cui il bicchiere è il bicchiere e non altro, è una condizione che consente la quiete dei comportamenti, la loro prevedibilità. E oltre alla prevedibilità dei comportamenti, la definizione, la determinazione, la differenza consentono anche di nominare le cose secondo un significato universale, per cui se io dico: “portami un bicchiere” e mi portano un bicchiere e non un microfono è in virtù del fatto che bicchiere vuol dire bicchiere e non altro.

Questa grande macchina della definizione e della determinazione delle cose è la prima grande macchina logica instaurata dalla filosofia, attraverso l’escogitazione del principio di non contraddizione che determina, definisce i significati delle cose garantendone la prevedibilità nel loro uso e l’univocità nella loro significazione. Il principio di non contraddizione dice che il bicchiere è il bicchiere e non altro, dove per “altro” sono nominate al negativo tutte le cose che non sono il bicchiere, quindi non è elefante, non è tavolo, non è sedia, non è matita, non è, non è, non è… Il principio di non contraddizione è una macchina che consente la definizione delle cose, la loro determinazione, la loro differenza rispetto alle altre cose ed è stato istituito dalla filosofia per consentire la comunicazione univoca, per orientarci nel linguaggio e per tranquillizzarci nei comportamenti. Queste cose vanno tenute presenti, perché pur di muoverci all’interno di un linguaggio determinato e univoco, dimentichiamo che le cose funzionano secondo questa regolarità esattamente perché tutti stiamo a questi patti definitori. Basta che uno impazzisca e si sottragga al patto delle definizioni, che tutto il mondo diventa terrorizzante.

Il folle è colui che rompe il patto delle definizioni, non sta al principio di non contraddizione e aprendo un cassetto dove c’è un coltello, invece di tagliare la carne, sbudella chi gli sta vicino, perché il coltello è disponibile anche per altri scenari di possibilità. Questo sta a dire che tutte le cose dimorano nel sacro, cioè nell’oscillazione vorticosa di tutti i significati ed è solo una nostra convenzione quella di stare alle regole razionali, dove per ragione io intendo proprio lo stare ai patti delle definizioni. Questa prima macchina è una tecnica. La ragione non è altro che la tecnica della definizione, una tecnica in cui si conviene di stare ai patti definitori: questo scenario si chiama ragione. La filosofia inaugura la ragione e anche se la ragione non si esaurisce in questo, è soprattutto questo. Esser ragionevoli significa stare alle definizioni. I bambini che devono ancora arrivare all’età della ragione e che ci arrivano gradatamente, nuotano nell’area del sacro, ovvero nell’indifferenziato. Se un bambino di due anni dovesse accostarsi a questo bicchiere, la mamma si avvicinerebbe subito e glielo sottrarrebbe. Perché glielo sottrae? Dicendo che è pericoloso, giusto? È veramente pericoloso per il fatto che, siccome il bambino non è arrivato al patto delle definizioni potrebbe fare di questo bicchiere tutto ciò per cui il bicchiere è disponibile, non solamente il bere. Ecco, quindi, quello che noi diamo per scontato, ricordiamoci che è un “guadagnato” nella storia dell’umanità. E perché si è arrivati a questo?

Perché prima del linguaggio razionale, gli uomini hanno nuotato in un linguaggio che io chiamo simbolico, assumendo con questa parola non quello che intendono gli psicoanalisti o i semiologi, per i quali il simbolo è una cosa che fa riferimento ad un’altra. Probabilmente per la psicoanalisi freudiana, il campanile che io sogno è il simbolo del fallo e la caverna che io sogno è il simbolo del contenitore materno. Questi non sono simboli, sono segni: una cosa sta per l’altra. La bandiera italiana non è un simbolo dell’Italia, è un segno, perché la bandiera italiana sta per nazione italiana e non sta per nazione tedesca o nazione spagnola. Quindi, quando il referente tra simbolo e simboleggiato è univoco, non parliamo di simboli, parliamo di segni. La bandiera italiana è il segno dell’Italia, non il simbolo, perché il referente è unico.

Simbolo è una parola greca: sumballein (siumballein), che vuol dire mettere assieme due significati o più significati, che di per sé non starebbero necessariamente insieme. Prima dell’avvento della ragione, l’umanità parlava un linguaggio simbolico. Jung, che ha studiato con una certa attenzione e intelligenza i simboli, racconta che un giorno si recò in Africa nella tribù dei Vacandi, durante una festa di primavera. In occasione della festa i Vacandi avevano tracciato sulla terra un solco a guisa di genitali femminili, intorno ad esso avevano collocato delle aste a guisa di genitali maschili e ballando e danzando intorno, cantavano: “Puli mira puli mira avatacà”, che secondo la traduzione dello psicoanalista vuol dire: “questa non è una fossa, questa non è una fossa ma è una vulva”. Secondo Jung i Vacandi trasformavano, attraverso questa immagine, l’energia sessuale in energia lavorativa; si applicavano alla terra come ci si applica alla vulva.

A parte questo, quel che a noi interessa è che i Vacandi attraverso un rito stabiliscono una connessione di significati che altrimenti non stanno insieme. Stanno insieme solamente all’interno del codice di quella tribù, uscendo dalla quale la connessione di significati non funziona più. Quindi, la prima operazione per arrivare ad un linguaggio universale dove tutti ci possiamo intendere allo stesso modo, è quella di uscire dal linguaggio simbolico, di non fare delle connessioni arbitrarie costruite sulla base della somiglianza, della contingenza, della contiguità, dell’immagine similare che una cosa può avere con un’altra. Per riuscire ad intenderci dobbiamo uscire dalla dimensione simbolica che mette insieme i significati (sumballein) ed entrare in una dimensione diabolica. La ragione è diabolica: “diabàllein”, che vuol dire separare; “bàllein” vuol dire gettare, “dià” significa diametro, lontano. “Siùn”, invece, vuol dire insieme, la dimensione simbolica è antecedente il linguaggio razionale; i primitivi, non essendo ancora arrivati alla ragione, si erano difesi dall’indifferenziato attraverso dei riti che facevano delle connessioni tra i significati per potersi intendere. Quando le connessioni sono condivise, si hanno le regole del gioco arbitrarie, solide o flebili che siano, alle quali tutti si attengono e in questo modo ci si intende e si può giocare. Tali regole, però, sono molto fragili e funzionano solo in un determinato ambito: trattare le fosse come vulve va bene là, nella tribù dei Vacandi, dove si è fatta questa connessione, ma fuori da questa tribù, cosa si capisce?

Bene, la filosofia con Platone fa questa prima grandissima operazione: si esce dal linguaggio simbolico e si entra nel linguaggio razionale, dove la vulva è la vulva e non è altro, la fossa è la fossa e non è altro e tra le due non c’è alcuna connessione. Platone può essere considerato il filosofo che ha posto le basi discorsive del linguaggio occidentale, basi discorsive di natura razionale regolate dal principio di non contraddizione o principio di ragione.

Eraclito fa molto bene questa distinzione in un suo frammento, là dove dice: “Il Dio è giorno e notte, sazietà e fame, inverno e estate e si mescola a tutte le cose assumendo di volta in volta il loro aroma”. Appare qui l’indifferenziato, la contrazione di tutti i significati, l’antecedente della ragione, l’impossibilità di intendersi: questo è il linguaggio del Sacro, è quello sfondo pre-umano, da cui l’umanità per nascere ha dovuto emanciparsi.

Noi possiamo dire che l’umanità nasce quando fuoriesce dal simbolico ed entra o nella forma codificante dei miti e dei riti o nella forma supercodificante della ragione e del principio di non contraddizione. L’umanità nasce quando si separa dall’indifferenziato, esce fuori e nell’indifferenziato istituisce le differenze, per cui una cosa è se stessa e non un’altra, per cui si parla e si capisce cosa si dice e in questa maniera si garantisce la tranquillità del comportamento, dell’attesa, della prevedibilità, l’univocità del linguaggio. Qui nasce l’uomo, la prima codificazione è rudimentale, è quella dei Vacandi che stabilisce delle connessioni tra le cose attraverso momenti rituali. Tutto il gioco, il ripetuto rituale che nessuno ascolta, è per ribadire quotidianamente i codici linguistici e comportamentali. Il rito è questo e la religione che vuole contenere il simbolico, il sacro, l’indifferenziato non può che istituirsi come rito, come ripetizione perenne dei codici. Per cui tutti coloro che dicono: ”Ma in Chiesa la domenica si sente sempre la stessa cosa!”. Bene, giusto, perfetto, esatto, è così! La Chiesa deve ripetere le stesse cose; non è un varietà, è un codice dell’anima, per salvaguardare l’anima dall’implosione nell’indifferenziato. Sempre Eraclito dopo aver detto che “il Dio è giorno e notte, inverno ed estate, sazietà e fame” ci dice che l’uomo – e qui pone la differenza radicale tra l’umano e il divino – ritiene giusta una cosa e ingiusta l’altra, ecco qui la differenza! Per il Dio tutto è bello, tutto è buono, tutto è giusto e siamo di nuovo nella dimensione dell’indifferenziato. Così sono andate le cose nella storia dell’umano e non chiedetemi quando, dove e come; lasciamo l’argomento agli storici che non hanno dimestichezza con questi scenari, perché la storia è storia umana e quindi non ha nessuna parentela con la dimensione antecedente l’umano. Quando ho “parlato male” di Dio, di Gesù Cristo, del Cristo immagino di aver suscitato anche delle reazioni che non possono trovare esplicazione in una domanda, in un argomento. In ciascuno di noi c’è nel fondo un rifiuto di ascoltare un discorso del genere, perché tutti abbiamo qualche sfondo simbolico e siamo grati alle religioni che ce l’hanno contenuto.

I sacrifici, le preghiere non servono per ottenere qualcosa dagli Dei, da Dio, dal Sacro, ma servono a tenere lontano il sacro, perché l’irruzione dell’indifferenziato nell’ordine delle parole, dei nomi è il disfacimento, lo smarrimento della ragione. Noi siamo soliti chiamare lo smarrimento della ragione follia e possiamo fuoriuscire dallo scenario antropologico ed entrare in una dimensione individuale fino a quella dimensione che si chiama follia. Conosciamo la follia in due accezioni che Platone ci indica molto bene: la follia come trasgressione delle regole della ragione (e per ragione intendo un procedere per differenze, definizioni, determinazioni di significati); chi non sta alla ragione è folle e questa è una follia, cioè follia come trasgressione della ragione. Ogni regola prevede una deroga ovvero ospita la possibilità della trasgressione. E’ la follia che conosciamo tutti, la follia di cui si occupano Foucault, la psichiatria, i manicomi, gli psicofarmaci. E’ la follia che Platone chiama pandemia popolare, diffusa, la follia trasgressiva. La chiamiamo follia numero due, ma al di sotto della ragione e della follia, c’è la follia numero uno e questa è la dimensione sacrale, del sacro. Il sacro è l’indifferenziato, da cui la ragione ci emancipa instaurando le differenze e, a differenze instaurate, all’interno di queste ci sono le possibilità di trasgressione. La ragione è una emancipazione dall’indifferenziato. L’uomo è una emancipazione dal sacro e dal divino, è un venir fuori da questo scenario. Quando è fuori, può trasgredire lo scenario della ragione e compiere atti di follia come semplice deroga dalle regole. C’è poi una follia originaria che è l’antecedente l’umano, il mondo degli dei, il mondo del sacro, che ci abita e sottolineo, che ci abita. Non ci sentiamo mai emancipati definitivamente da questa dimensione, essa è il nostro costitutivo e ce la portiamo dentro in ogni momento. Da qui ciascuno faccia le sue riflessioni e partiamo da una proposizione un po’ forte che metto qui non tanto per provocare, quanto per evidenziare piuttosto la struttura in piccolo e in modo grossolano. Partiamo quindi dal concetto che ciascuno di noi è folle, cioè nuota nell’indifferenziato, fa connessioni di pensieri che non sono assolutamente giustificate e visualizzate in termini razionali. Per avere la prova di questa follia che ci costituisce è sufficiente che si faccia riferimento alla nostra singolarità: quando siamo soli, pensiamo per nostro conto, produciamo immagini, connessioni di significati, associazioni, passaggi tra uno scenario e l’altro. Facciamo una passeggiata in solitudine e lì tocchiamo la nostra follia, perché quando l’uomo è solo ricade nell’indifferenziato e si assorbe in questi suoi pensieri che stabiliscono dei rapporti non razionali, dei passaggi non logici, dei significati non consentiti dal principio di non contraddizione e dal nesso di causalità, cosicché se uno dovesse in quel momento parlare con noi, ci guarderemmo bene dal riferire quel che abbiamo pensato. Ci vergogneremmo di riferire quel soliloquio dell’anima che conduciamo ciascuno per se stesso e quella vergogna è l’interdetto della ragione: se non vuoi essere giudicato folle, non dire cosa stai pensando nella tua solitudine.

Il luogo della ragione è il plurale. Singolare e plurale, i verbi del nostro linguaggio, sono costruiti così: nel plurale noi ci produciamo secondo le regole della ragione, il plurale è assoluto, privo di valenze simboliche, non c’è un sovrappiù di significato.

Quando parliamo per gli altri ci produciamo in un discorso razionale non riferendo i nostri interiori pensieri, non riferiamo le associazioni che andiamo facendo man mano che pensiamo da soli e ci produciamo in un discorso a tutti comune: “logos koinon” diceva Eraclito, non c’è nessuna valenza simbolica. Immagino che sia faticoso capire cos’è un simbolo, nonostante io abbia parlato dei Vacandi e delle bandiere, dei tricolori, per cui faccio un ulteriore riferimento. Prendiamo una pagina poetica di Leopardi: “dimmi che fai tu luna in ciel”. Guardata da un punto di vista razionale, questa è la frase di un matto, perché si sa benissimo che cosa fa la luna in cielo e un astrofisico potrebbe benissimo spiegare a Leopardi che cosa fa la luna in cielo: la domanda è del tutto superflua, non ha nulla di poetico. Ma allora perché poetica? E’ poetica perché esce dal razionale. Quando pronunciamo quella frase, fuoriusciamo dal razionale, carichiamo la parola luna, che vuol dire luna e non altro, di un eccedenza di significato, di un più di significazione. Come si legittima razionalmente la domanda di Leopardi? Togliendo la parola luna dal suo significato razionale, immettendola nello spazio del sacro, dell’indifferenziato, del confusivo. Confondere è fondere insieme due significati; in quel momento nasce il poetico, il quale è discorso folle dal punto di vista della ragione. E’ questo anche il motivo per cui Platone, che inaugura la ragione in Occidente, dice: “i poeti vanno espulsi dalla città perché il loro linguaggio non è razionale”. Sovrapporre i significati vuol dire mettere insieme significati che di per sè non starebbero insieme e non appena io metto insieme dei significati, fuoriesco dalla definizione, dalla determinazione, dalla differenza tra le parole ed i significati, ed entro nella sfera simbolica o nella sfera poetica. “Poiein” in greco vuol dire produrre e i poeti sono produttori di significazione. La poesia è una produzione di eccedenza di significati rispetto ai significati stabiliti. E’ per questo che nei confronti delle poesie c’è sempre una sorta di ambivalenza, nel senso che è facile leggere un saggio, ancora più facile leggere un trattato di fisica ma se ci accostiamo al poetico c’è un certo sommovimento, perché stiamo uscendo fuori leggermente dallo spazio della ragione e incominciamo a sentire una certa inquietudine o addirittura un rifiuto. Nietzche dice: “i poeti mentono troppo”, ribadendo il modello Platonico dell’eccedenza dei significati che i poeti precedono.

Cos’è questa eccedenza dei significati? Un congedo dallo spazio della ragione e un’immersione nel sacro: follia numero uno, ovvero tutti scriviamo poesie. Ma cosa vuol dire scrivere poesie? Non certamente sfogarsi, perché per sfogarsi bastano i diari. Scrivere una poesia significa mettere per iscritto l’eccedenza di significati che le cose assumono per noi, un’eccedenza di significati che non possiamo comunicare all’altro, se non creando nell’altro una certa sospettosità circa il nostro stato mentale e allora ci produciamo poeticamente. Le poesie per una certa diffidenza non le facciamo leggere, oppure al contrario, se proprio non ce la facciamo più, invadiamo gli interlocutori con i nostri brani poetici. C’è sempre questa eccedenza di significazione veramente inquietante che ci porta nella sfera dell’indifferenziato, del sacro, del Dio, degli dei. Nella follia originaria si muore. I bambini che devono ancora arrivare all’età della ragione, i poeti, i folli, noi stessi ogni volta che sogniamo siamo nella follia. Il sogno è una follia, perché nel sogno collassa il principio di non contraddizione, di identità, per cui quando sogno sono io e non sono io, sono maschio ma sono anche femmina, sono giovane ma sono anche vecchio. C’è il collasso del principio di non contraddizione che è il principio della ragione. C’è il collasso del principio di causalità, per cui invece del principio di causa/effetto, ci troviamo a vivere il rapporto effetto/causa. C’è il collasso del tempo, per cui uno sogna cominciando all’epoca della rivoluzione francese e finisce ai giorni nostri in 5 minuti. C’è il collasso dello spazio, per cui incominciamo il sogno nella casa della zia e ci ritroviamo a Manhattan. Collassa tutto l’ovvio della ragione, ma se la ragione collassa tutte le notti, questa è la prova provata che la follia è il nostro costitutivo. Noi siamo la follia, noi siamo il sacro, noi siamo l’indifferenziato. Aristotele diceva: “nell’individuo non c’è sapere” perché il sapere è possibile solo quando la legge scientifica formula qualcosa che vale per tutti gli enti che condividono una certa natura. Ma le regole che noi poniamo non valgono: noi per esempio non siamo enti che possono essere assimilati e classificati nello stesso genere. Questo può accadere ad un livello generalissimo: siamo viventi, siamo bipedi, ci muoviamo in modo verticale e non proni come gli animali, ma fuori da questo cosa ci accomuna, cosa ci differenzia oltre al corpo? Qui dico oltre al corpo, ma poi vedremo che la follia è esattamente il corpo. Oltre al corpo che cosa ci differenzia se non la nostra rispettiva follia? Perché gli uomini non si intendono? Perché la mia simbolica non è la tua simbolica? Perché i popoli non si intendono? Perché la simbolica di un occidentale non è la simbolica di un islamico, non è la simbolica di un cinese? Perché l’altro è davvero un altro? E tutti coloro che dicono che bisogna parlare con l’altro, intendersi con l’altro, dimenticano che poiché la mia follia non è la tua follia, tra noi possiamo accostarci solo a livello di mediazioni linguistiche impersonali. Io sto parlando a voi in modo del tutto impersonale. Chi è Umberto Galimberti? Chi lo sa? E’ la prima cosa che non faccio vedere. E così fate voi, ma evidentemente noi ci produciamo in un linguaggio razionale, perché questa dimensione indifferenziata, sacrale è il fondamento di quello che io ho chiamato pudore e il pudore è la non rivelazione della simbolica interiore. Io a te chi sono non lo dirò mai.