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Franco Bertossa intervista Ryosuke Ohashi

La scuola di Kyoto, lo Zen e il confronto con l'Occidente
In occasione del seminario sulla scuola filosofica di Kyoto organizzato dal Centro Studi ASIA nell'aprile 2007, Franco Bertossa ha intervistato il prof. Ohashi.

Ohashi Ryosuke è professore di Filosofia all'università di Osaka. Ha ottenuto il dottorato in filosofia alla Ludwig-Maximilians University di Monaco.
Ha ricevuto la sua abilitazione all'insegnamento della Filosofia dalla Würzburg University nel 1983 - il primo giapponese ad ottenerla. Clicca qui per saperne di più sull'autore.



Franco Bertossa è Maestro di meditazione di indirizzo buddhista e di arti marziali che entrambe pratica da oltre trent’anni. È impegnato nella promozione di un confronto esperienziale, oltre che concettuale, tra i pensieri filosofico e scientifico occidentali relativi alla coscienza e i modi della conoscenza interiore orientali.


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Franco Bertossa: Professor Ohashi, Lei sta conducendo un seminario seguito da un folto e giovane pubblico. È sorpreso da un tale interesse da parte di giovani occidentali per la filosofia della scuola di Kyoto?

Sono stato molto sorpreso. Mi sono chiesto di quale parte della gioventù italiana di oggi siano rappresentativi i giovani che hanno partecipato a questa settimana di studi. Forse non rappresentano l’intero dei giovani italiani di oggi, ma mano a mano che ricevevo da loro domande, sentivo il tipo di questioni che mi ponevano, come dire, ho pensato che non saranno forse rappresentativi della fascia media dei giovani italiani, saranno probabilmente una parte numericamente minoritaria, eppure ho avuto l’impressione che loro percepiscono con chiarezza quello stesso disagio, quei problemi che di certo anche gli altri giovani provano pur non essendone a tal modo consapevoli. Perciò anche se sono quantitativamente una minoranza, anche se sono per così dire la punta dell’iceberg, ciononostante ho pensato che qualitativamente i giovani che hanno partecipato a questo seminario sono probabilmente rappresentativi di quella sfera di problemi che anche gli altri portano latenti in sé, ma di cui non sono di solito consci. E ho pensato che probabilmente è la stessa cosa anche in Giappone. In un primo momento, insomma, sono stato spiazzato, ma poi, mano a mano che ci riflettevo sopra e che ricevevo le loro domande, mi sono convinto che questi giovani per così dire mi presentavano il «concentrato» dei problemi dei giovani del nostro tempo.

 

FB: Quale è stato il primo contatto tra il pensiero giapponese e la filosofia occidentale? Che cosa caratterizza la cosiddetta scuola di Kyoto?

Detto in riferimento alle epoche storiche, un primo contatto ci fu prima dell’epoca Meiji (1868-1912), già alla fine dell’epoca Edo (1603-1867), quando giunsero in Giappone i Padri Gesuiti. Ci fu allora un primo contatto, ma una vera e propria introduzione della «filosofia» in quanto tale si è verificata solo a partire dall’epoca Meiji. Il primo problema su cui si discusse fu proprio quello di come tradurre in giapponese il termine «filosofia», a tal punto la «filosofia» era qualcosa di estraneo alla cultura giapponese. A quel tempo erano già attive e rappresentate in Giappone alcune correnti di pensiero, il buddhismo, il confucianesimo, il taoismo, e anche lo shinto. Poi è arrivata la filosofia occidentale e all’Università di Tokyo si aprì la prima facoltà di filosofia che assunse nella propria dicitura il termine «testugaku» [studio della saggezza] come traduzione di «filosofia». Tra le tante proposte di traduzione del termine che erano state avanzate, fu scelta questa, si inaugurò così un «Dipartimento di tetsugaku», e così il termine si impose. Il primo professore di tale facoltà, Inoue Tetsujiro, produsse una sorta di mescolanza eclettica tra buddhismo e filosofia occidentale, in particolare hegeliana.

Anche uno dei primi traduttori della terminologia filosofica occidentale, Nishi Amane, pensava che il buddhismo giapponese possedesse degli elementi filosofici e che si potesse perciò interpretare da una prospettiva buddhista il pensiero occidentale, ad esempio Hegel, dando vita a dei tentativi eclettici. Ma si trattava comunque di «miscugli» che non si possono definire davvero filosofie. Quando invece si impose all’attenzione Nishida Kitaro, il padre della cosiddetta «Scuola di Kyoto», si trattò di un evento filosofico del tutto diverso rispetto ai primi tentativi dei suoi professori. Nishida aveva scelto di studiare filosofia e pensare filosoficamente, ma al tempo stesso praticava zen, si dedicava alla meditazione zen, lo zazen. Ora, filosofia e zazen sono qualcosa di completamente diverso, e infatti Nishida non ne tenta una sintesi, una mescolanza: pur trattandosi di due cose completamente diverse e proprio in quanto due cose completamente diverse, filosofia e zazen poterono incontrarsi in Nishida, in una stessa persona, e questo fu un evento mai accaduto prima. Penso che si possa dire che la filosofia della Scuola di Kyoto sia nata da questo evento. Per cui se provo a esprimere in poche parole quale sia il carattere tipico del pensiero della Scuola di Kyoto, premesso che non è che tutti i pensatori che vengono ricondotti alla Scuola di Kyoto hanno praticato lo zen, la caratteristica peculiare è comunque che nella filosofia della scuola di Kyoto si dà un collegamento tra zen e filosofia intesi come due cose del tutto diverse e in quanto due cose del tutto diverse. Se posso aggiungere ancora una riflessione,
anche osservando la storia della filosofia occidentale vi si notano varie epoche con caratteristiche loro proprie. Accadde ad esempio che ad un certo punto la filosofia greca incontrò il cristianesimo, che era per essa qualcosa di completamente estraneo. In quell’epoca la filosofia greca fu scossa fino alle fondamenta, ma proprio passando attraverso qualcosa di completamente estraneo, la filosofia conobbe una svolta decisiva e poté ulteriormente svilupparsi. Ora, quando si parla di zen e filosofia riguardo alla Scuola di Kyoto, filosofia è da intendersi fondamentalmente come filosofia moderna e contemporanea. In rapporto alla filosofia moderna lo zen doveva presentarsi necessariamente come qualcosa di completamente estraneo, proprio perché lo zen inizia dove si smette di pensare, dove non c’è pensiero. Il punto di partenza di zen e filosofia è completamente diverso. D’altro canto anche lo zen ha attraversato varie fasi, e incontrando la filosofia è stato costretto ad esporsi ad un ambito fino ad allora sconosciuto. Dunque anche lo zen è stato costretto a confrontarsi con un ambito di problemi ad esso del tutto estraneo.

FB: Professor Ohashi, che cosa ha spinto i giapponesi ad occuparsi di filosofia?

In senso generale, bisogna considerare che all’inizio dell’epoca Meiji per la prima volta i giapponesi si trovarono a confronto diretto con l’intero della cultura occidentale. All’interno di quell’«intero», fatto di cultura, civilizzazione, prodotti tecnici e così via, c’era anche la filosofia. Anche l’Oriente aveva una sua tradizione spirituale, e i giapponesi capirono subito che la filosofia occidentale rappresentava il centro, l’essenza della civiltà occidentale. Per cui per i giapponesi di quell’epoca, formati all’interno della tradizione buddhista, confuciana, taoista, shintoista, l’incontro con la filosofia occidentale, che incarnava ai loro occhi l’essenza di quell’immenso patrimonio di conoscenze che era per loro l’Occidente, presentava inesauribili motivi di interesse. In questo senso è interessante notare che l’incontro tra i giapponesi e la filosofia fu in parte diverso rispetto a quello tra i giapponesi e il cristianesimo. Il cristianesimo era già noto ai giapponesi fin dal quindicesimo secolo. Ora, non so a quei tempi, ma a partire dall’epoca Meiji fino ad oggi solo circa l’uno per cento della popolazione giapponese si è convertita al cristianesimo, una percentuale che non cresce. Mentre è estremamente comune trovare in Giappone gente che si interessa a vario titolo di filosofia.

Cioè, i cristiani restano l’uno per cento, una realtà in un certo senso chiusa in se stessa, e non è nato dall’incontro col cristianesimo un «cristianesimo giapponese». Mentre a livello filosofico l’incontro ha dato origine alla Scuola di Kyoto, a un tipo di filosofia cioè che non si era ancora dato all’interno della storia della filosofia, qualcosa di nuovo (?). Credo che questo fatto si leghi strettamente al modo d’essere stesso della filosofia in quanto tale.


FB: Da quanto ci ha detto si può concludere che comunque il pensiero filosofico giapponese è fortemente radicato nello zen. Ciò che caratterizza, ciò che ha caratterizzato il pensiero filosofico giapponese ha una forte radice buddhista zen?

Un allievo chiese una volta a Nishida da dove provenisse la sua filosofia, se dallo zen o dalla filosofia occidentale. La risposta di Nishida fu: «Da entrambi». Ora, il problema è capire che tipo di relazione si instauri tra gli «entrambi», ad ogni modo per Nishida il suo pensiero proveniva da entrambi, da filosofia e zen. Dunque non si tratta solo di un’influenza dello zen sulla filosofia, la filosofia di Nishida è come se avesse un piede nello zen e un piede nella filosofia occidentale. È come se fino a Nishida ci fossero stati esseri umani con tutti i due piedi nella filosofia o tutti e due i piedi nello zen, ma nel caso di Nishida un piede è nello zen e uno nella filosofia. Una gamba di qua, una di là, ma le gambe da qualche parte nel corpo trovano il loro collegamento, non so, forse nell’ombelico o nel cuore o nella testa, ma comunque è un problema notevole, cioè come collegare tra loro filosofia e zen. È un po’ ciò che accadde in Agostino, che da un lato aveva studiato la filosofia platonica e dall’altro era diventato cristiano. Penso che in questo senso tra Agostino e Nishida ci possano essere delle affinità. Ora, forse più di metà degli appartenenti alla cerchia della scuola di Kyoto non praticavano lo zen come Nishida, ad esempio Tanabe Hajime, ma anche se non praticavano attivamente lo zen, di certo avevano un piede nel buddhismo, di cui lo zen è una delle espressioni. L’altro piede era nella filosofia. Questo forse è l’elemento più caratteristico della Scuola di Kyoto.


FB: Lo zen parla di sentirsi tutt’uno con la natura, ma oggi dopo Hiroshima e dopo Chernobyl, è ancora possibile sentirsi tutt’uno con un fiore contaminato dalle radiazioni? Forse che lo zen stesso debba fare i conti con la critica alla tecnica avviata da pensatori come Heidegger?

Innanzitutto, credo che si possa dire in ogni epoca, in ogni tempo, qualcosa come quanto viene espresso in detti zen quali «Cielo, terra e io abbiamo la stessa radice» oppure «Tutte le cose e io facciamo tutt’uno». Ma nel momento in cui si parla di diventare tutt’uno con un fiore contaminato all’epoca di Chernobyl o di Hiroshima, il problema è di intendere cosa significhi «diventare tutt’uno». Se diventare tutt’uno significa diventare uguale, allora anch’io vengono contaminato, anch’io mi ammalo, come l’uccello infetto dall’influenza aviaria. Non si tratta solo di provare simpatia per l’altro, anch’io mi ammalo, anch’io percepisco dolore. Questo credo sia qualcosa che il buddhismo ha sostenuto fin dai tempi antichi. Ora, posto che anch’io mi ammalo, il problema è: volgendomi in quale direzione posso trovare guarigione? Se semplicemente si viene contaminati allo stesso modo, allora ci si ammala allo stesso modo, si cade allo stesso modo nel dubbio. Ma allora in che modo posso tornare allo stato incontaminato, puro? Ad esempio, in psichiatria un medico può fornire dei consigli al paziente.

Ora, si pensa di solito che il paziente sia «malato», ma forse ci sono anche casi in cui semplicemente è più sensibile degli altri, percepisce qualcosa ad una profondità per gli altri sconosciuta. Ora, se anche in questo caso si trattasse semplicemente di tornare ad essere un comune e banale essere umano «sano», allora penso che la cura proposta dal medico non avrebbe molto senso. Invece, una cosa è «fare tutt’uno con tutti gli esseri» a partire da uno stato di risveglio, un’altra è «fare tutt’uno con tutti gli esseri» senza conoscere il risveglio. A livello superficiale sembrano due cose simili, ma in realtà credo vadano in due direzioni completamente diverse. Qui cioè si tratta di capire quale sia il modo d’essere di questo «fare tutt’uno».

Heidegger dal canto suo sviluppa una critica alla tecnica e affronta i problemi ad essa legati. Ma quale sarà la situazione in cui ci troveremo una volta che i problemi legati alla tecnica saranno stati risolti? A questo riguardo Heidegger parla di un ritornare all’inizio, all’Anfang, all’esperienza dell’Essere, ma al di là di questa risposta a parole, concretamente, per me qui, per il mondo attuale, questa situazione di cui parla Heidegger che cos’è? Heidegger non si esprime in modo chiaro al riguardo. Se lo facesse, allora dovrebbe dire con chiarezza in che direzione si trova la possibilità della soluzione del problema della tecnica. Se non si ha una tale risposta chiara, il problema della tecnica resta. Ora, lo zen dal canto suo credo che invece dia chiaramente la sua risposta.

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a cura del Centro Studi ASIA.
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