Sentirsi la musica addosso

La musica e la meditazione suggeriscono entrambe, se correttamente intese, una condizione di ascolto consapevole, ricettivo e attivo al tempo stesso. Se la musica facilmente smuove il sentire, la meditazione ne permette un’osservazione più attenta e precisa dalla quale possono scaturire domande e percorsi interessanti sulla via della conoscenza di sé.

Per osservare questa potenziale sinergia, possiamo da un lato ripercorrere lo sforzo di ricerca dell’uomo nelle infinite possibilità della composizione sonora, dall’altro le direzioni concettuali e le intenzioni espressive che hanno guidato i compositori nelle varie epoche.

Tali elementi possono essere rivissuti e riletti addosso a noi stessi ora, attraverso un ascolto delle tonalità emotive suscitate dall’occasione della musica.

La musica è una forza, come tutti credo abbiamo sperimentato nella nostra vita.

Perché?

Il suono intraducibile

La sostanza della musica è il suono. Il suono ha in sé qualcosa di ineffabile, non è altrettanto semantico come lo sono generalmente altri elementi di comunicazione: segni, parole, immagini, gesti. Se di fronte a un suono ci chiediamo “cosa significa?” entriamo in uno stato di imbarazzo, ci verrà spontaneo risalire alla causa che lo ha provocato ma non sarà semplice la ricaduta in qualcos’altro, cioè quel processo di traduzione, di spostamento che è ciò che normalmente interpretiamo come il rapporto tra significante e significato.

Il suono, e per estensione la musica, ci si offrono con ritegno, trattenendosi sempre -in una qualche e differente misura- in sé, opponendosi a una dispiegata apertura. Trattenendo, rimandando a sé, ci si pongono di fronte con una alta dose di impenetrabilità.

Se ci guardiamo dentro (ad ASIA lo facciamo attraverso lo strumento della meditazione) incontriamo il mistero, realizziamo con sorpresa che “io” è misterioso e inspiegabile a se stesso.

Al principio di noi stessi incontriamo datità intraducibili. Per spiegare questo termine possiamo fare un piccolo esperimento di autoreferenza: se mi chiedo, ad esempio, “cos’è pensiero?”, per rispondermi e tentare di definire l’oggetto della domanda non posso che stare nel pensiero. Ciò che vorrei spiegare è già in atto e così il pensiero si ritrova ripiegato su se stesso in una circolarità che non può essere risolta secondo le consuete modalità di conoscenza (cosa che farei attraverso il pensiero): in questo senso esso si presenta come un misterioso dato primo, una datità che non possiamo tradurre in altro.

Personalmente riscontro una forte affinità tra la musica e la nostra realtà interiore, proprio nei termini della autoreferenza, della impenetrabile non traducibilità degli elementi costitutivi di base.

La musica… arte del tempo

Altro elemento essenziale che l’esperienza dell’Io e la musica condividono è il loro essere tempo.(1)

Nell’ascolto della musica ci si ritrova a operare dentro e sulla dimensione stessa dell’esperienza…il tempo (2). Nell’istante percepisco solo il suono che mi si para davanti come pura presenza difficile da decifrare, ma nel tempo il suono costituisce la musica dove la percezione della pura presenza diventa esperienza di uno svolgersi e infine di una forma, attorno alla quale si possono coagulare diverse emozioni e interpretazioni.

Trovo ci sia un’analogia col senso del me stesso. Quando riusciamo ad avvicinarci alla radice di Io (per esempio attraverso la meditazione, o quando viviamo il passaggio tra sonno e veglia, o in particolari momenti della vita) cogliamo un indistinto – pura presenza, come il suono – che perdura. Essendo tempo prende forma e lo fa attraverso una sorta di condensazione del senso del me stesso attorno a certe tendenze mentali ed emotive che ci contraddistinguono. Questa condensazione dell’indistinto diviene anche contesto ambientale, geografico, affettivo… ovvero stabilizza un mondo (oggettivo, autonomo e preesistente o creato da me in quel momento?) all’interno del quale il me stesso si colloca.

“…l’uomo spettatore guarda per non essere. L’universo musicale, invece, non è esposto o posto davanti allo spirito –la musica per quanto oggettiva voglia essere, penetra nella nostra intimità, e noi la viviamo come viviamo il tempo: attraverso una fruizione e una partecipazione ontica di tutto il nostro essere.”

(Vladimir Jankélévitch, La musica e l’ineffabile, Bompiani)

Alla radice della musica, e di Io, c’è “tutto il nostro essere”. C’è il fatto che Io esiste ed è inestricabilmente tempo: non ci sono io nel tempo oggettivo, ma io sono questo continuo perdurare.

Esperire la musica (oltre il suono) è come vivere il sapore di Io (oltre il senso di pura e unitaria presenza che ci coglie in certi momenti estetico/estatici): senso del tempo, percezione, tonalità emotive, ideazione, dar forma all’indistinto. L’essere tempo diviene così esperienza determinata volta a riconoscersi, stabilizzarsi e collocarsi.

Ma perché succede questo? Cosa origina questa spinta alla determinazione?

Domando ma non oso inoltrarmi nella risposta.(3)

Da quanto detto risulta evidente che la musica non si può com-prendere ché sarebbe come comprendere il tempo, che si pone invece come a priori necessario per qualsiasi processo di comprensione.

Analisi tecniche, musicologiche, storiche, biografiche, risultano allora o vie di raffreddamento di conturbanti fascinazioni o, al meglio, onesti e consapevoli trastulli attorno al mistero.

Ma perché, vien da chiedersi, ciò che non possiamo realmente comprendere può affascinarci in tale misura?

In queste profonde affinità tra l’esperienza della musica e l’esperienza interiore, risiede la indiscutibile forza della musica che in diversi tempi e culture ha commosso, consolato, esaltato, turbato, meravigliato, irritato, impaurito, rasserenato, elevato… ha smosso quel sentire che l’uomo sente più come “me stesso”.

A questo proposito è interessante notare l’inevitabile parallelismo tra la storia del pensiero e quella della musica degli ultimi secoli.

Se nel pensiero – attraverso la morte di Dio, la caduta del senso e della ragione dell’esistenza – si è passati da visioni fondanti, razionaliste, positiviste a visioni destrutturanti e relativiste, nella musica si è passati da un atteggiamento che focalizzava l’attenzione soprattutto sulla forma (pensiamo alle ultime eccelse opere di Bach addirittura senza destinazione strumentale) a un atteggiamento che privilegia la ricerca timbrica, per dirla con un’immagine si è passati dall’architettura al mattone, dalla costruzione di un mondo strutturato, governato da principi forti come la tonalità, a un mondo aperto e incerto, dove i principi formali sono i più diversi o addirittura assenti.

Il dato fondamentale che emerge in questo mondo post-tonale, è l’attenzione per il suono come atomo fondamentale, presenza non scontata che racchiude in sé, nel suo essere inesauribile in quanto incomprensibile, le infinite potenzialità di elaborazione sonora. (4)

La musica entra… e non chiede permesso!

Il suono organizzato, la musica, si offre alla nostra esperienza con un’altra caratteristica. Se usiamo ad esempio il senso della vista -anche per un’esperienza estetica come guardare un quadro o un film- abbiamo l’impressione di andare verso, l’immagine ci richiama a sé, o perlomeno si instaura un gioco di in & out, un dialogo fatto di rimbalzi tra l’oggetto e la coscienza sensibile che lo osserva, nel quale comunque persiste un senso di uscita da se stessi.

Nel caso del suono, invece, l’esperienza è più monodirezionale, viviamo l’impressione che il suono da fuori penetri in noi, ci fa più ricettivi, meno creatori di mondi, più disposti alla contemplazione che all’azione .

Mentre l’occhio, il senso della vista, lo viviamo spesso come strumento per cercare, esplorare, carpire, andare incontro, il senso dell’udito pare più passivamente accogliere… la forma stessa dell’occhio è convessa, protubera, mentre quella dell’ orecchio tende al concavo, a una forma che contiene.

L’occhio risulta più attivo, è anche in grado di evitare volgendosi dall’altra parte, di selezionare nascondendo, mentre l’udito opera in modo più passivo e indiscriminato, accoglie tutto, da svegli e da dormienti, il gradito e lo sgradito.

Certamente il discorso è più sfumato e complesso: nei momenti più intensi di una esperienza estetica a livello iconico, cessa questa impressione dell’ andar fuori e si crea un luogo esperienziale nel quale si vive una sorta di unità, uno stato sospeso nel quale il qui e il là momentaneamente cadono per lasciar spazio a un senso, o un presentimento, del tutto.

Così come è vero che la tendenza quasi insopprimibile della mente a rappresentare, fa sì che anche nell’ascolto musicale c’è chi privilegia l’evocazione del ricordo piuttosto che l’immaginare situazioni, ambienti ecc.

Nel complesso però la differenziazione mi sembra sensata…a sostegno riporto una frase di Richard Wagner:

“Nella fruizione dell’ arte figurativa c’è un “venir dentro” dell’opera e un “andar fuori” del soggetto attraverso lo sguardo.
Nella musica prevale l’andar dentro dell’opera, per questo è l’arte del tipo introverso.”

Musica e fenomenologia

“Fluente, non itinerante: così è la musica.” (V. Jankélévitch)

Un aspetto dell’insegnamento del maestro Franco Bertossa è costituito dalla guida alla scoperta e alla assidua e prolungata frequentazione di un luogo interiore molto originario, che permette di osservare la nostra esperienza dal suo primo darsi.

Ponendosi con attenzione in tale luogo, diventa semplice riconoscere l’esperienza come un flusso, una corrente continua che consiste nell’affiorare dei fenomeni alla luce della coscienza.

Anche l’esperienza dell’ascolto musicale si presenta come un flusso continuo, non è un andare da un luogo ad un altro, ma piuttosto l’esser presenti a un fluire assolutamente non afferrabile chè se lo fosse equivarrebbe a una negazione stessa dell’esperire la musica. Solo nel ricordo riusciamo a considerare il brano come qualcosa di unitario e compiuto, ma nell’esperienza in diretta possiamo solo essere tempo con la musica, partecipare del suo/nostro continuo divenire.

Non è una dimensione che si possa prendere, spostare, modificare, come del resto ogni flusso d’esperienza, di cui si prende atto solo a posteriori e che non può essere racchiudibile e manipolabile, perché comunque il racchiudere e il manipolare verrebbero portati via dalla corrente del divenire come tutto il resto.

Solo nel fluire si può esperire la musica, che si offre soltanto nella temporalità di un adesso che nel momento in cui si dà è già passato, un adesso che “sa” di ricordo e di aspettativa.(5)

Ascoltare veramente la musica è compromettente, significa rendersi disponibili ad un coinvolgimento viscerale, a volte piacevole a volte inquietante… perché la musica -come ha esclamato una volta una persona un po’ turbata dopo un ascolto- “non chiede mica permesso!”.

Sul modello della meditazione così come la si pratica ad ASIA, è possibile mettersi in ascolto di questo sentire viscerale, cercando di divenire più attenti e sottili nei suoi confronti, di individuarlo e collocarlo con precisione, di connetterlo con le espressioni musicali che lo avevano provocato e -il passaggio più difficile, importante e rivoluzionario- di leggerne i significati.

Conclusioni

Attraverso questi incontri è emerso come la storia della musica occidentale possa essere letta come un laborioso e interessante viaggio della coscienza verso la propria scaturigine, verso quelle tonalità emotive più prossime e dense che hanno la possibilità di una apertura della coscienza alla consapevolezza di sé.

Dall’atteggiamento artigianale che si prefiggeva di comporre buone musiche a gloria di Dio o per il piacere mondano, attraverso la musica che doveva piegarsi a mezzo per l’espressione del proprio mondo emotivo, fino ad arrivare alle avanguardie del primo novecento in cui ciò che diventa problematico e centrale è “Il rapporto di Io con se stesso”.(6)

Tutto questo percorso, ripeto, può utilmente trovare utili e interessanti riscontri nella teoria, nella tecnica, nella filosofia, nella sociologia e nella storia ma (e la cosa diventa più interessante perché vissuta esperienzialmente) può essere ripercorso attraverso il mio sentire viscerale di adesso.

Nelle avanguardie della prima metà del ‘900 si aprono fervidi squarci in direzione dell’interrogazione profonda dell’uomo su di sé, della caduta/domanda di senso, dello scandagliare le forze più nascoste e oscure che ci abitano. Queste tematiche hanno segnato le generazioni successive e concorrono a formare la nostra attuale visione del mondo, il nostro modo di intendere l’esistenza.

Sarà interessante ripercorrerle attraverso l’ascolto della musica seguendo la doppia traccia che la coscienza lascia lungo il percorso verso la consapevolezza di sé: la traccia rilevabile nella storia e la traccia del mio star facendo esperienza cosciente qui ed ora.