Intervista all’autore attore e regista teatrale

Pippo Delbono è autore, attore e regista di teatro, giudicato da molti uno dei più interessanti protagonisti del teatro contemporaneo italiano, e tra i più in vista nel panorama internazionale. Abbiamo passato con lui due ore prima dello spettacolo “Questo buio feroce” in cui, partendo dai temi del male, della morte e della guerra, ci ha raccontato la sua esperienza di vita e di uomo di teatro.

Domanda: Di fronte alle atrocità che l’uomo perpetra nei confronti dei suoi simili si può pensare: perché, ma che senso ha? In fondo tutto il tentativo di recuperare l’umanesimo dopo i campi di concentramento, dopo gli orrori del nazismo, si interroga su questo. Guardando quello che è il tuo percorso artistico mi è sembrato di rintracciare un’analogia con questa impostazione, con questo rapporto con il male, il diverso, l’oscuro. Tutte le domande che ti farò vogliono entrare un po’ di più nello sguardo dell’autore e capire come l’uomo dedito alla pratica artistica riesca a relazionarsi con questi eventi considerati aberranti, che nessuno vuole guardare fino in fondo, e riesca a creare in questo rapporto un sentimento poetico, attraverso l’immagine e il gesto. Questo ci interessa sia come uomo di teatro che per la tua esperienza di vita.

Il punto di partenza che prenderei a riferimento è questo monologo di Guerra [NdR Guerra è uno spettacolo di Pippo DelBono che si ispira all’Odissea. Come Ulisse, tutti i personaggi si perdono nel tentativo di cercare il centro dell’esistenza, si perdono nell’amore e nelle paure: sono uomini in guerra.] Ci sono tre elementi che vorremmo trattare. Innanzitutto l’analogia e la differenza fra le due guerre: quella combattuta e quella invece interiore; poi seguendo il tuo testo, troviamo subito un elemento chiave, questo salto che fai, dove dici: “ho visto Hiroshima coperta di fiori, della guerra non ne voglio sapere più niente”.

Le due guerre in che modo sono analoghe e qual è la differenza?

Questo salto su Hiroshima che “è coperta di fiori” è come una illuminazione rispetto al rapporto di sé con la guerra oppure è soltanto una metafora di una voglia di speranza, di voler guardare le cose belle?

Risposta: abbiamo fatto teatro un po’ in tutto il mondo, molte volte anche in zone di guerra, a Sarajevo, in Palestina, spesso portando questo spettacolo che in qualche modo parla di una nostra guerra. Ho raccontato in molti spettacoli esperienze personali, anche dolorose, passate attraverso la malattia, la follia, che sono state fondamentali nel darmi delle zone di apertura sul mondo, che forse non avrei avuto se non avessi avuto queste occasioni di attraversarle direttamente. Non avrei potuto fare uno spettacolo se non fosse contaminato dalla vita. Non è vissuto in maniera intellettuale, ma come esperienza totale, poi ovviamente si passa attraverso un’esperienza intellettuale, però ce l’hai nello stomaco, nell’esperienza. Essenzialmente mi è sembrato più giusto rapportarsi a questi luoghi non tanto per voler capire loro ma per voler capire te, nel vedere in te, nella nostra storia, le stesse guerre, le stesse discriminazioni, lo stesso modo di guardare il diverso, lo stesso conflitto. Noi portiamo dentro un’altra guerra, non è una guerra di armi. In altri spettacoli ho parlato di altre guerre, in un video clip ho parlato di un mondo di consumismo, poi improvvisamente cambio registro e facendo un omaggio a una donna che si è uccisa, ecco che tutto diventa improvvisamente nero, the dark side of the moon, l’altra parte, l’altra guerra, la schizofrenia totale fra quello che mascheri e quello che sei in verità. Lady Machbet dice: “parla come se fossi un mazzo di fiori ma sii la serpe che si cela dentro”, se guardi la politica, guardi tutto quello che abbiamo attorno, la frase è abbastanza sintomatica di una nostra guerra, di una schizofrenia, e quindi mi sembra che quando guardi non puoi fare a meno di sentire un grande conflitto. C’è un altro spettacolo dove dico: “devi danzare nella guerra”, c’è un ragazzo che danza, quello che ti colpisce è questa danza che c’è nella guerra, questa energia vitale nel mondo di morte, spesso più forte di una morte nei luoghi apparentemente di vita.

C’è sempre dolore, morte e vita, dolore e rinascita, ci sono sempre queste due cose quasi che danzano sempre insieme, quindi non è tanto il positivismo che dicevi, la speranza è una cosa che non mi piace tanto. Io poi sono molto legato alla tradizione buddhista dove non esiste un dio, non esiste il paradiso, non esistono queste concezioni di colpa, questi concetti di morale. Questa cosa mi piace molto del buddhismo: ci dice che esistono dieci mondi, che tutti quanti abbiamo la buddhità e l’inferno, e anche Hitler in fondo era un buddha! Ti sollecita il tuo essere anche mostro…

Domanda: Il tema di questo mostro che abbiamo dentro è il motivo per cui il male in un qualche modo ci riguarda, non possiamo metterlo da parte, far finta che non esista, quindi ci chiama ad un rapporto necessario, non possiamo voltare gli occhi, sebbene oggi l’epoca del consumismo, la superficialità del “si dice, si pensa”, della “dimensione pubblica”, sia questo tentativo di allontanarsi dalle cose più profonde. Indubbiamente è difficile entrare in rapporto con questo. Com’è che un artista ha invece questo privilegio, d riuscire a vedere la scintilla laddove gli altri vedono solo il buio? È un coraggio? La certezza che in quel abisso c’è un senso, un significato, e in questo anche il buddismo può darti delle risposte, o comunque delle direzioni, oppure è solo un fascino di qualcosa che, in fondo è un po’ osceno, ma è anche molto intimo, vicino?

Risposta: Non credo che sia un fascino. In una società come questa l’artista ha perso il suo senso primario, adesso c’è gente che mette in scena testi, c’è una divisione del lavoro che ha fatto sì che l’artista sia sempre più isolato. E’ difficile rimanere artista, mentre l’artista è uno che fa un viaggio attraverso un non-conoscibile, non attraverso le sicurezze ma attraverso le insicurezze, e andando attraverso le insicurezze il torbido lo scopri in te, e si avvicina alla follia, quando ti senti tu responsabile del mostro. È chiaro che fa paura, è una delle cose più terribili. Ad esempio: un giorno su un aereo c’è stato un bambino che ha pianto per due ore, in quel momento ho capito una madre che uccide il figlio! Poi è chiaro che c’è un’etica, ma il primo passo è la coscienza di un vedere, anche la morte.
In uno spettacolo dico: “io guardo la morte, la morte guarda me”, abbiamo paura di guardare la morte, io a volte sento l’imbarazzo della signora che magari ha ottant’anni, quella cosa lì la irrita un po’… è grave che arrivi a una vita in cui ti irrita l’idea della morte, è preoccupante, perché in fondo ognuno dovrebbe vivere per arrivare ad accettare la morte come coscienza del vivere.

Domanda: Infatti, proprio quella scena che stavo citando, in cui io guardo la morte, la morte guarda me, tu dici: per entrare in questo buio sconosciuto devo abbandonare ogni identità, il gioco dell’identità finisce, e solo così si arriva alla pace. Parli in termini buddhisti? Non sé; non rinchiudersi in una identità che poi è egoica?

Risposta: Diciamo che molte cose della mia storia sono state legate a delle esperienze personali. Sicuramente il buddhismo mi aiuta, è un mezzo che ti può dare una mano per andare in zone più profonde del tuo io, ti aiuta ad andare verso un niente più grande… però sono diciotto anni che pratico e mi sembra di non avere ancora capito granché… ogni tanto ho degli sprazzi. Nella pratica che faccio io cerco sempre di andare in quell’isola di saggezza, di maggiore armonia col vivere, col morire, quindi anche accettare le mostruosità, quindi anche non giudicare. Il lato artistico può fare andare le persone in delle zone non comuni. Non mi interessa provocare per schoccare, però per arrivare a quello, per arrivare a un forma di gioia devi passare attraverso un momento terribile.

Domanda: quindi il teatro per te, anche per il pubblico, è un’esperienza catartica?

Risposta: Si, il mio teatro non ti chiede una riflessione intellettuale, poi la riflessione viene dopo. Ieri una ragazza mi chiedeva: quella cosa lì che cosa significa? Lei aveva avuto tante emozioni però voleva dare subito un nome alle cose che aveva vissuto, le ho detto: stai attenta, le cose che hai vissuto vanno lasciate per un po’ in un vissuto di non-conoscibile; se subito le vuoi capire è come un compito a scuola. Se questa cosa non ti ha suscitato nessun tipo di rapporto fisico, emotivo, allora d’accordo, non ti è arrivato niente, ma se tu ti sei sentita invece attirata, emozionata, colpita, e non ha capito perché ti ha colpito, non è fondamentale che lo capisci oggi, l’importante è l’essere colpiti, viversi l’essere colpiti, e stare lì.

Domanda: Sì, è importante stare lì, riuscire a sentire. Invece oggi, in un contesto come questo, di sovraesposizione a cose che ci colpiscono, con i media che incalzano, stimolano tutte le emozioni, in particolare quelle più forti, forse abbiamo perso il contatto con il sentire.

Risposta: Sì, col sentire, giusto. Perché poi magari ognuno sente delle cose diverse, invece oggi ce le vogliono imporre, ognuno ha una sua esperienza personale, ognuno sente rispetto a un sua esperienza. Invece oggi, soprattutto il cinema, tende a voler fissare uno stato d’animo, gli americani sono dei maestri in questo.

Domanda: Ma in questo il teatro può avere, il tuo teatro particolarmente, un ruolo etico, politico, rompere un po’ questi equilibri preconfezionati sia del sentire che viene imposto, come dicevi, come anche del pensiero della lettura del mondo che viene sovrapposta a questo sentire.

Risposta: Indubbiamente sì, indubbiamente ce l’ha. C’è gente che mi scrive e mi racconta nelle sue lettere di avere iniziato un viaggio artistico individuale, questo vuol dire che crei delle zone quasi imbarazzanti, grosse, importanti, qualcosa succede. Tanti rimangono anche indifferenti, ma qualcosa succede. Non è teatro di intrattenimento, non è teatro da farti passare una serata piacevole.

Domanda: Dal sentire passiamo al corpo, questo elemento che è centrale nel tuo teatro, ma anche nella tua formazione. Attraverso la consapevolezza del corpo, di essere situato in uno spazio, tu riesci ad avere una lucidità su quello che metti in scena?

Risposta: Sulla scena è molto importante l’incoscienza a livello mentale perché hai una scrittura che è precisa, è una narrazione poetica, però tu hai bisogno, in quel tuo ruolo che conosci molto bene, del tuo corpo. Non devi essere sicuro, devi trovare quell incertezza. Il corpo diventa la coscienza dello stare, dello spazio, dei tempi, è il corpo che respira tutto, da quando entri, quando ti siedi. Io ho lavorato molto sulla tradizione del teatro dell’Oriente. In Oriente si lavora molto sui passi del samurai che sono passi semplici ma complicatissimi, si lavora sulla precisione, la coscienza su ogni tua parte del corpo. Acquisire questa coscienza è un grande dono. Oggi nel corpo il teatro è morto, figuriamoci nella vita.

Non solo è importante il corpo dell’attore, ma il corpo del pubblico, quando vedo che il corpo comincia a trovare un altro rapporto capisco che qualcosa sta succedendo. Ieri ci sono stati dei momenti in cui nessuno più tossiva, lì è il sacro, sei andato in altre zone. Diventa un fatto poetico, sociale, religioso.

Domanda: Una domanda sul rapporto con l’altro. Ho visto in questo tuo libro [NdR “Barboni. Il teatro di Pippo DelBono”, Ubulibri] che si fa riferimento per questa tematica a due filosofi: Levinas e Wittgenstein. La posizione di Wittgenstein è interessante perché come viene fuori dal tuo libro sembra dire che non c’è un mondo interiore, o cerca di negarlo fino al paradosso, dicendo che non ha senso dire che il mio sapere del mio dolore è diverso dal modo in cui tu puoi sapere del mio dolore, quindi non ci sono fatti privati e in qualche modo, tutto è in una dimensione pubblica. Però, allo stato dei fatti c’è una differenza nel sentirselo addosso, nell’esperienza in prima persona, quella del luogo interiore, che sempre citi in questo libro. Il luogo interiore, per quello che tu ne pensi, è qualcosa che ci accomuna tutti, è la coscienza di essere, o è semplicemente uno spazio individuale di intimità o qualcos’altro?

Risposta: Nel libro che hai citato era Oliviero che parlava di questa relazione.

Domanda: D’accordo, ma forse anche come meditante, puoi rispondermi su questo fatto: anche ad occhi chiusi, se penso, c’è un luogo dentro di me in cui sto pensando, c’è una vicinanza, c’è un’intimità. La domanda era se questa intimità può essere qualcosa dentro la quale si nasconde un’intimità che accomuna tutti.

Risposta: Andiamo sul tema di prima, di essere padroni della propria mente. Quando sei sulla scena vai profondamente in quei luoghi interiori, in quel luogo in cui ascolti dove non ascolteresti normalmente, vedi dove non vedresti normalmente, percepisci dove non percepiresti normalmente, vai in quella zona che è più profonda del tuo pensiero, è osservare la propria mente. Buddismo è un’esperienza più totale della definizione, buddismo vuol dire quello che hai fatto nella vita, quello che ti è successo, gli incontri che hai fatto, i maestri, tutto diventa esperienza e il massimo del risultato secondo me é trovare quell’interiore che ti permette di dire: ecco il pensiero, cioè non sono nel pensiero, questa è una delle cose più belle che posso dirti di questi anni. Io ho vissuto un periodo di malattia, una ricerca di medici, a un certo punto sono andato in una dimensione di depressione, di angoscia, è stata una follia, perchè ero entrato totalmente nella paura, paura della malattia. A un certo punto questa cosa l’ho toccata così al fondo che devo dire che questo mi ha insegnato che la follia ce l’abbiamo dentro. Non puoi dire: ci penserò dopo, diventa un po’ un osservare la propria mente, essere un po’ padrone della tua mente. Questo va in quella zona che non è visibile ai politici, che hanno una loro ideologia. Qui non è quello che pensi, una persona non è quello che pensa. È come un albero con radici e tronco, non possono essere solo i rami, bisogna avere la coscienza che ci sono le radici, e le radici profonde sono simili, sono fatte di corpo, carne e poi si diramano, dopo c’è sempre un incontro fra fronde degli alberi, e poi va bene anche che ti scontri ma non devi perderlo quel tronco perché quel tronco è comune.

Domanda: Questa è un’esperienza tua personale o qualcosa che sta nella pratica del buddismo e che quindi in qualche modo tu già cercavi in questa pratica?

Risposta: Io sono riuscito a renderla molto vicina a una esperienza personale. Ognuno ha la sua missione nella vita. Magari uno che sta in un panificio fa la sua rivoluzione, facendo sempre lo stesso gesto, riuscendo ad essere sorridente, fa una rivoluzione magari più forte di quella che faccio io girando il mondo con degli spettacoli. Questo me l’ha fatto capire anche il buddismo, non è tanto quello che fai ma come lo fai. Sicuramente il buddismo mi ha illuminato delle zone, mi ha dato una luminosità nell’espressione artistica, che è qualcosa che già mi apparteneva.

Nel buddismo non c’è un dio, non esiste qualcosa lontano dal sé, passi attraverso il tuo io che è fatto di egoismo, di angoscia, di arroganza, di violenza, ci vai in fondo, e poi probabilmente vai in delle zone in cui dai una luce diversa ad ogni cosa, anche la rabbia può diventare un valore importante. Ho fatto uno spettacolo che sia chiama “la rabbia”. Puoi dare un valore anche alla violenza, puoi essere violento nel cambiare le cose che vanno male. Ci può essere anche nella durezza. Per questo io non sono molto legato al rapporto con l’altro in termini di carità. Una persona come Gogò [NdR uno degli attori della compagnia che DelBono ha reclutato tra malati di mente e barboni], quando lo vedi sul palco, ha una coscienza incredibile, quando le vedi dopo…, fulminato era dieci anni fa, fulminato è adesso. Quando lo conobbi prendeva tante di quelle medicine…, schizofrenico, barbone.

Domanda: perché hai preso a mettere in scena questi uomini al limite, diversi in qualche modo?

Risposta: perché ho scoperto che avevano delle capacità. Una volta Nelson salì sul palco, iniziò a cantare, e ho pensato: però! Parlava l’inglese, parlava il francese, parlava spagnolo, arabo, un po’ russo, suo padre è un cuoco, è andato in giro per il mondo. Poi lui nel mio lavoro ha trovato una tecnica di fare canalizzare quell’energia, fare come fa lui, di stare venti minuti su una sedia senza fare niente, immobile, è un lavoro difficilissimo. Se tu chiedi a un attore, senza recitare alcun personaggio, di stare è molto difficile. Queste sono qualità da arlecchini, solo loro due [NdR si rifersice Nelson Lariccia e ad un altro attore minorato e sordomuto, Bobò] mi possono dare quel senso dell’arlecchino, sono persone che hanno delle qualità che hanno solo loro. Devi gestirli, i soldi non sanno gestirli, se li hanno li spendono subito in un secondo, ma noi della compagnia non siamo diventati dei buoni, che facciamo del bene agli altri, no. Loro fanno delle cose che nessuno nella compagnia è in grado di fare, queste persone ci danno molto, in cambio tu gli dai delle altre cose, ma non è mai: “quanto bene faccio per te”, non potrei mai dire a Bobò: “quanto bene ti ho fatto che ti ho portato fuori da un manicomio”, no, quando bene ha fatto Bobò al mio teatro. Questo è un valore forte.

Domanda: Oggi il problema sembra quello di avere perso ogni riferimento per mettersi di fronte alla richiesta di senso che ti fa la vita. Di fronte al fatto che morirai, di fronte al fatto che c’è il dolore, e i riferimenti o sono dei preconcetti, dei pregiudizi, delle ideologie, oppure sono un semplice “tiriamo avanti”, relativismo o nichilismo. Invece la cosa ce mi dicevi prima, cioè questo: io non sono il pensiero, la persona non è ciò che pensa, o comunque non è solo ciò che pensa, mi sembra essere un po’ oltre questa problematica mancanza di riferimenti, né li cerca preconfezionati, né li rifiuta a priori, è un po’ così che l’ho letta, non so se tu sei d’accordo.

Risposta: sì, nello spettacolo che farò parlo di un uomo senza fede, senza religione, che alla fine trova la pace attraverso un percorso di conoscenza del sé, del guardare la sua mente. E poi va a trovare una zona di religiosità e non perché gli è stata imposta, non perché è già costruita, la trovi attraverso un tuo viaggio. Quello che ci circonda è stupidità, quindi mancanza di qualsiasi forma di religiosità, sacralità, profondità, in contrapposizione al fanatismo. Cos’è la libertà? I francesi vanno in orizzonti di libertà senza essere in una religiosità. Non sono cattolici, però sono pieni di spiritualità. Libertà e spiritualità sono la stessa cosa, la libertà non è assuefatta al gusto di quello che la televisione ti impone, no, è andare a cercare nel profondo il tuo gusto, la cultura vuol dire quello, non mettermi addosso delle altre maschere ma darmi dei mezzi per cui io vado in zone anche critiche, è lì forse che trovi le libertà. C’è una forza anche nella diversità: sei uguale e diverso. Invece cosa succede? Invece di sentirci uguali nel profondo, uguali nello stomaco e diversi nelle fronde, siamo uguali nelle fronde, e per cui ci si veste allo stesso modo, si hanno gli stessi gusti. Quello è attaccarsi ai gusti, non andare nel profondo.

Domanda: rispetto alla scuola, che cosa potrebbe la scuola imparare dal tuo teatro?

Risposta: Intendo la scuola non come luogo di “ti faccio conoscere tante cose”, ma “ti do delle cose perchè tu conosca te stesso”, tutto ti può aiutare, per capire di te e del mondo che ti sta attorno, però non puoi mai perdere l’obiettivo dello studio di te, se capisci la direzione delle cose poi tutte le cose le ricapisci. Io ho insegnato un po’ a scuola, cultura generale, poi ho fatto delle supplenze di matematica, alle superiori, ma lo facevo perchè avevo bisogno di soldi. Però alla fine è stato fantastico, a cultura generale gli parlavo di viaggi, moto, di Pasolini, di autori, poi gli parlavo anche di vita, di omosessualità, di libertà, e loro che erano molto più bigotti di me, rimanevano sempre scandalizzati. Era un passo di libertà, tutto fa sì che aiuti la gente a trovare la sua di strada, però non so se la scuola abbia questa intenzione. Quando vado agli incontri con le scuole sono più liberi i professori che gli allievi, i professori sono più aperti, i ragazzi sono dei boccioletti chiusi.

Domanda: La verità del teatro, per te significa mettere in scena questi personaggi [NdR i malati di mente e barboni di cui sopra]che sono veri perchè hanno sofferto, sono loro stessi.

Risposta: Verità è una parola che può avere anche dei rischi. La verità non è naturalismo. Io volevo fare un film sulla verità, sull’incontro fra me e Bobò, non volevo un altro attore ma nello stesso tempo non volevo un documentario, non mi interessava il naturalismo. Nel naturalismo dai delle situazioni in cui viene fuori una verità di quella persona, con un linguaggio costruito che va contro il tempo, il luogo, il relativismo della narrazione, perchè lo spettacolo che tempo ha? Tanti tempi, tanti spazi, non puoi dire: si svolge qui, in questa casa [NdR si riferisce alla scenografia del suo spettacolo “Questo buio feroce” che stava per mettere in scena al Teatro Arena del Sole di Bologna], un luogo che diventa tanti luoghi. Che luogo è? Chi sono le persone? Lui chi è? Quindi vedi che in questa verità c’è una enorme costruzione come nel film. In che tempo, in che luogo, ci sono i montaggi incrociati, a un certo punto diventa coreografico, diventa costruzione innaturale, per cercare la verità. Costruzione del linguaggio al servizio di una verità, più che finzione, scambio di punto di vista. La finzione mi sembra invece più quello che ti vuole fare credere che quello è vero.

Vai fuori dal sé per ritrovare un sé, il bisogno di una gabbia costruita per ritrovare quella verità.

Domanda: Quindi c’è una verità nel tuo teatro?

Risposta: Assolutamente sì, l’unica cosa che mi interessa è la verità, quella verità che fa sì che delle persone si rispecchiano, ti rispecchi nella verità, tutto quello che abbiamo detto adesso alla fine è per quello che lo riconosci. È una verità che fa uscire la verità di chi guarda, la sua verità.

Domanda: Quindi tu sei certo che ci sia nel pubblico questa verità da tirar fuori?

Risposta: Tutti ce l’hanno, come dice il buddismo tutto è verità, su questo non ho dubbi.

Biografia

Pippo Delbono nasce a Varazze nel 1959. Inizia gli studi teatrali in una scuola tradizionale, ma dopo un adolescenza inquieta abbandona la scuola per seguire l’attore argentino Pepe Robledo, scappato dalla dittatura del suo paese. Con lui parte agli inizi degli anni Ottanta per la Danimarca, dove si unisce al Gruppo Farfa, guidato da Iben Nagel Rasmussen. Partecipa ai viaggi e alle creazioni del gruppo e apprende le tecniche dell’attore danzatore dell’Oriente, che approfondirà nei successivi viaggi in India, Cina, Bali. Al ritorno in Italia comincia a lavorare alla creazione del suo primo spettacolo, Il tempo degli assassini, dove nell’apparente gioco cabarettistico dei due attori che raccontano danzando le loro storie di violenza, droga, dittatura e vita, già si definiscono i segni di un linguaggio teatrale che caratterizzeranno tutti i successivi suoi lavori. Lo spettacolo debutta in Italia nel 1987, dopo una lunga tournée in Sudamerica in teatri ma anche in carceri e villaggi popolari. Nello stesso anno incontra Pina Baush, e partecipa per un periodo a una delle creazioni del suo Tanztheater. È questa la seconda tappa fondamentale di un percorso formativo in cui il teatro incontra la danza per raccontare la vita, un percorso che ha portato Delbono a girarare l’Europa con i suoi spettacoli. Rimangono nella memoria il suo “Guerra” e il più recente Esodo, opera dove il montaggio si avvicina ad una sorta di composizione cubista.

Dopo una profonda crisi esistenziale dalla quale uscirà anche grazie al buddhismo, Delbono prosegue l’avventura umana e artistica con le persone che costituiscono la sua compagnia. Quasi una tribù dove convivono attori – formati da Delbono con un metodo rigoroso definitosi in molti anni di insegnamento – e persone provenienti da realtà diverse. Come Bobò, microcefalo sordomuto incontrato al manicomio di Aversa, il senzatetto Nelson, Fadel profugo del Sahara e tanti altri.
Il suo ultimo spettacolo Questo buoi feroce, tratto dal romanzo autobiografico dello scrittore americano Harold Brodkey, ucciso dall’AIDS, racconta gli ultimi anni della sua vita e il suo rapporto con la morte.
biografia tratta da Drodesera.it

Guarda qualche minuto da “Questo buio feroce” su youtube http://it.youtube.com/watch?v=dowMow2yyqk
per ulteriori informazioni visita il sito ufficiale www.pippodelbono.it

Intervista a cura di Domenico Canzoniero.
Ha collaborato alla stesura definitiva Alessandra Vitale