In quest’epoca in cui il pensiero umano si accontenta di frequentare i margini della vita, contando le briciole di banchetti filosofici consumati in passato, questioni irrisolte come il senso dell’esistenza, l’indagine della coscienza in prima persona, la ricerca di Dio rappresentano inevitabilmente una minaccia al sonnambulismo socio-culturale in cui langue la collettività occidentale; davanti a tale minaccia – quando la prendono in considerazione – le migliori menti del secolo allargano le braccia e la scienza propone pillole e/o modificazioni genetiche, mentre le giovani generazioni urlano una rabbia impotente, sempre più selvaggia e sempre meno consapevole della propria matrice iniziale.
E’ raro che qualcuno affronti pubblicamente le domande aperte sull’esistenza, col rischio, nel migliore dei casi, di passare anacronisticamente per esistenzialista (come se esistere fosse una corrente filosofica!); più unici che rari, quindi, gli artisti per cui queste domande rappresentano il fondamento di una ricerca costante, cosciente e duratura, anche a rischio di non incontrare il plauso della massa (dei critici o della gente comune).

Franco Battiato accetta la sfida da ormai più di quarant’anni: le vie dell’arte che egli percorre (immagini, parole, musica) si corteggiano a vicenda, s’incrociano, si dirigono verso il buco nero che inghiotte lentamente l’Occidente post-nichilista; Niente è come sembra, il terzo lungometraggio dell’artista siciliano, è un’altra delle sue frecce scoccate al centro del mistero dell’esistenza. Il vuoto [1], l’album uscito lo scorso febbraio, aveva già proposto tematiche decisamente in linea con il cammino interiore ed artistico dell’autore: una profonda ricerca esistenziale [2], ricerca che richiama talvolta esplicitamente linguaggio e sonorità buddhisti [3], accanto a una pungente osservazione del mondo attuale [4], ma anche momenti di delicata poesia, in cui l’attimo sembra sospeso, e musica e parole cavalcano ricordi o frammenti di fragili epifanie [5].

Una direzione chiaramente definita, dunque, che da sempre guida la sperimentazione di Battiato attraverso scelte sicuramente inusuali, talvolta decisamente lontane dai comuni gusti estetici, tanto che alcune composizioni risultano di difficile ascolto a orecchie per lo più tarate – volenti o nolenti – sui jingles della pubblicità, sul pigolare dei talk show, sui nastri ipnotici di lunghissime attese telefoniche e di triste shopping nei centri commerciali, su un generico brusio di fondo. Proprio in virtù del fatto che una ricerca non è una dimostrazione matematica, né tantomeno mira all’esattezza, lungo il suo percorso Battiato ha ricevuto critiche non sempre positive; certo, errare – nel duplice significato del termine – è ormai generalmente ritenuto un lusso (troppo sembra ci sia da fare, e troppo poco il tempo). Ma proprio questo è interessante: cosa e quanto, al di là i tutti i giudizi, l’arte continui a dire su ciascuno di noi, e quali siano gli assunti – anche inconsapevoli – della nostra vita e del nostro pensiero che essa scardina.

Fra le grandi assenze socio-culturali del nostro quotidiano, il sentimento del sacro è sicuramente fra le più silenziose – salvo rare eccezioni; pure, al contrario, nella musica di Battiato esso canta con potenza e bellezza d’altri tempi. E’ noto l’ispirarsi dell’artista siciliano a tradizioni mistiche che vanno dal Sufismo all’Induismo, dal Buddhismo al Proto-Cristianesimo: Shadow, light [6], per segnalare il caso più eclatante (un intero album dedicato alla vita spirituale, con anche una Messa arcaica e testi che per chi fa meditazione hanno il valore di vere e proprie indicazioni di pratica [7]), esce nel 1996, in un contesto culturale da cui il sacro – almeno in sede pubblica – è stato grattato via dagli scout del materialismo come un affresco preistorico [8]. Versi come

“Degna è la vita di colui che è sveglio/ma ancor di più di chi diventa saggio/e alla Sua gioia poi si ricongiunge/sia Lode, Lode all’Inviolato” [9],

o come

“Un Oceano di Silenzio scorre lento/senza centro né principio/cosa avrei visto del mondo/senza questa luce che illumina/i miei pensieri neri” [10],

o la commovente chiusa di Prospettiva Nevski [11], o ancora l’intero testo di Personalità empirica [12] sono, nel percorso di Battiato, solo alcune delle testimonianze di una vita interiore estremamente intensa e intrisa di una rispettosa gratitudine – altra voce ormai muta nella nostra epoca. Le sperimentazioni musicali seguono gli ampi percorsi del pensiero, immergendo l’ascoltatore nel vespro austero di un’antica cattedrale, nell’alba vivida di un muezzin, nell’afa pomeridiana di un sitar indiano, nella lievità dei suoni nipponici, nella delicatezza serotina di un canto persiano… In questo ritorno a significati arcaici, comprensibili solo a chi si conceda ad una mente profondamente radicata nel sentire, la lingua torna alla propria primordiale valenza di ‘suono’: Greco antico, Latino, Persiano, Francese, Inglese, Tedesco, dialetto siciliano, talvolta impressioni quasi onomatopeiche [13]… Effetti acustici che dicono, rimpatriano ad una semantica più saggia, che si serve della ragione, ma che non può e non vuole anestetizzare le viscere.

Ugualmente presenti, nei brani del nostro autore, affreschi impietosi della società contemporanea: vizi e schizofrenie d’Occidente, inizialmente ritratti non solo e non tanto al fine di puntare un dito accusatore su un modus vivendi che ha evidentemente dell’assurdo, ma narrati frequentemente ‘dall’interno’, in prima persona [14], anche se lo sguardo di Battiato su questa affannosa contemporaneità si fa via via sempre più distaccato, e la prima persona diventa un impersonale stupito, sconcertato, sdegnato [15]… Ma quali sono le peculiarità dell’inconscio collettivo dipinto da questo artista? Quali preconcetti muovono le nostre scelte, dirigendo le nostre vite?

Nel 1973 Battiato cantava:

“Passa il tempo,/sembra che non cambi niente./Questa mia generazione/vuole nuovi valori/e ho già sentito/aria di rivoluzione./Ho già sentito/chi andrà alla fucilazione” [16];

e nel 1981:

“siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro” [17].

Il Sessantotto si allontanava a velocità elevata, e per lo più ci si affannava a rientrare nei ranghi con una trivialità ansimante da freschi reduci di un rave colossale; in pochi versi, Battiato metteva a nudo il sostanziale mantenimento dello status quo, almeno dal punto di vista del pensiero comune. D’altra parte, i dilemmi etici sorti al cospetto di possibilità tecniche fantascientifiche, dilemmi protagonisti del Novecento e dell’inizio del Terzo Millennio, dimostrano che nel frattempo il pensiero collettivo non si è spostato granché dalle posizioni positiviste della prima metà dell’Ottocento; altre voci hanno parlato, ma sono state subito obliate, o messe a tacere. Così, se nel 1982 un verso diceva “L’evoluzione sociale non serve al popolo/se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero” [18], ci troviamo ora, un quarto di secolo più tardi, stagnanti nella stessa staticità intellettuale, in un post-nichilismo che ha perso anche la coscienza della propria cieca indifferenza.

Ma si tratta davvero di indifferenza? Eppure a molti sono noti quei “malesseri speciali” di cui si parla in Un’altra vita, e comincia ad essere chiaro che

“Non servono tranquillanti o terapie/[…]/Non servono più eccitanti o ideologie” [19]…

Anche se in generale è vero che “il Re del Mondo/ci tiene prigioniero il Cuore”, se si ascolta la svogliatezza imbronciata dei giovani e dei giovanissimi occidentali si può sentire il loro ventre che urla:

“il giorno della Fine/non ti servirà l’Inglese” [20].

Se negli anni Ottanta si cercava un Centro di gravità permanente [21], a questo nostro presente non è rimasta nemmeno la consapevolezza di essersi perso: resta solo un malessere diffuso, incapace di stupirsi di sé e quindi di interrogarsi su se stesso.

Battiato certe domande (se) le pone attraverso la sua musica, il suo cinema, i dipinti che sembrano affermare qualcosa di immobile e incomprensibile. Se nutrita da un pensiero non asservito alla superstizione scientista, l’arte può dare parole al sentire: non accontentandosi di evocarlo, può portarne alla luce i significati più profondi, e comunicarli. Tali significati pulsano in tutta la produzione artistica di Battiato, emergendo con maggiore vigore e precisione negli ultimi dischi: il filone è quello che per esprimersi trova negli anni Settanta parole come Ti sei mai chiesto che funzione hai? [22]; negli anni Ottanta è l’eco di questa domanda e la consapevolezza che

“siamo niente /dei miseri ruscelli senza Fonte” [23]

a muovere la ricerca di un centro di gravità permanente, mentre dieci anni più tardi il verso

“e intanto passa ignaro/il vero senso della vita” [24]

individua chiaramente il bandolo della matassa, che nel 2007, con Il vuoto, prende una forma ulteriormente definita: la mancanza di senso.

“Vuoto di senso senso di vuoto/E persone quante tante persone un mare di gente nel vuoto” [25]

Il tempo è “in affanno” proprio perché, se non lo fosse, se lo si svuotasse della grande quantità di contenuti sempre nuovi che solitamente lo riempiono, si rivelerebbe insensato. E in quell’insensatezza le viscere urlano: l’Angst heideggeriana, comunemente fraintesa e conseguentemente curata come ‘ansietà’, spoglia del sentimento del sacro, trova nel “senso di vuoto” una nuova definizione. Di cosa è vuota la temporalità? Cosa manca ad ogni minuto della nostra esistenza, di cosa difetta l’essere? Di un senso, appunto. Di una ragione, di un fine, di una causa, di un dio, di una risposta. Di un’identità: “Tu sei quello che tu vuoi ma non sai quello che tu sei” [26], ad un aumento esponenziale delle possibilità tecniche e materiali corrisponde la completa e profonda – ma sotterranea – ignoranza di se stessi. Sotterranea, perché essa stessa ormai sconosciuta ad una cultura che ha scordato la propria origine radicata nel dubbio, nell’osare di domande estreme dell’Uomo sulla propria stessa esistenza ed il fatto che tutto ciò è sacro.

Battiato canta la paura di un mondo, quello occidentale, dimentico che

“è la stessa cosa che è viva e morta, che è desta e dormiente, che è giovane e vecchia […]” [27]

un mondo che ritiene di non aver più bisogno di pensare per manovrare l’enorme macchina, potentissima, che è riuscito a costruire esclusivamente tramite il calcolo. Un mondo che ha perso l’antica sapienza del dialogo con le proprie emozioni alla ricerca di un significato più profondo, e che quindi non trova di meglio da fare che metterle brutalmente a tacere con la chimica (per poi stupirsi dell’ampio uso di droghe fra i suoi giovani).

“Strani giorni, viviamo strani giorni” [28]:

giorni in cui il varco al quale schiudono le atmosfere delicate di canzoni come Mal d’Africa [29], Un vecchio cameriere [30], Amata solitudine [31] sono vezzi di un momento che non ci si sognerebbe mai di indagare a fondo – magari in vista di quella Porta dello spavento supremo che

“Bisognerà per forza/attraversare alla fine” [32];

non stupisce allora che problematiche come quelle descritte in Le aquile non volano a stormi [33] non siano chiare ai più, e talvolta infastidiscano. Come non stupisce, d’altro canto, che fin dagli anni Sessanta in Battiato il sintetizzatore si accompagni agli archi, che l’elettronica non comporti l’omissione della lirica come il rumore e il suono non escludono il silenzio: la sua musica dice che è necessario affondare le mani nell’humus che nutre le nostre radici per essere coscienti ed affrontare quel “mal d’Africa” che spesso prende i toni dell’angoscia. E non temere nulla, se non una vita incapace di obbedire ad un verso [34] che sembra un nuovo, bellissimo comandamento per le nuove generazioni:

“lascia tutto e sèguiti”.

Note:

[1] Universal, 2007.
[2] “To ask the mind to kill the mind is like making the thief/[…]/Discover the nature of mind… no matter how many planets/and stars are reflected in a lake no matter how many universes there are”, da The game is over; “Io sono. Io chi sono?”, da Io chi sono?.
[3] “Le comuni apparenze scompaiono/con l’esaurirsi di tutti i fenomeni/tutto è illusorio privo di sostanza/tutto è vacuità”, da Io chi sono?; “Niente è come sembra niente è come appare/perché niente è reale”, da Niente è come sembra; si ascolti anche The game is over. Le parole del Buddha, che costituiscono anche il titolo del lungometraggio di cui sopra, compaiono già in pezzi come Il cammino interminabile (Ferro battuto, Sony Music, 2001): “Se vuoi conoscere i tuoi pensieri di ieri osserva il tuo corpo oggi/Se vuoi sapere come sarai domani osserva i tuoi pensieri di oggi”.
[4] “Tempo non c’è tempo sempre più in affanno/inseguo il nostro tempo/[…]/Danni fisici psicologici collera e paura stress/sindrome da traffico ansia stati emotivi/primordiali malesseri pericoli imminenti/e ignoti disturbi sul sesso”, da Il vuoto.
[5] Si ascoltino Aspettando l’estate, Tiepido aprile, Stati di gioia.
[6] EMI Records, 1996.
[7] Cfr. per esempio Haiku e Ricerca sul terzo.
[8] In questo senso, il testo di Magic shop (L’era del cinghiale bianco, EMI, 1979) è un piccolo capolavoro: “… i Mantra e gli Hare Hare a mille lire/l’Esoterismo di René Guénon./Una Signora vende corpi astrali/i Budda vanno sopra i comodini/deduco da una frase del Vangelo/che è meglio un imbianchino di Le Corbusier./Eterna è tutta l’arte dei Musei /carine le Piramidi d’Egitto/un po’ naifs i Lama tibetani/lucidi e geniali i giornalisti./Supermercati coi reparti sacri che vendono/gli incensi di Dior/rubriche aperte sui peli del Papa”.
[9] Da Lode all’inviolato (Caffé de la Paix, EMI Records, 1993).
[10] Da L’Oceano di silenzio (Fisiognomica, EMI Records, 1988).
[11] Patriots, EMI Records, 1980.
[12] Ferro battuto.
[13] Suggestivo e pieno di poesia, per fare solo un esempio, il riecheggiare del movimento delle onde e del grido dei gabbiani in Summer on a solitary beach nella sonorità dei versi del ritornello (“Mare mare mare voglio annegare/portami lontano a naufragare/via via via da queste sponde/portami lontano sulle onde”).
[14] Si ricordi Un’altra vita, o Gente in progresso, entrambe in Orizzonti perduti, EMI Records, 1983.
[15] Si ascoltino, per fare solo qualche esempio, La musica è stanca (Orizzonti perduti), Aria di rivoluzione (Sulle corde di Aries, Bla Bla / Ricordi, 1973), Bandiera bianca (La voce del padrone, EMI Records, 1981), Povera patria (Come un cammello in una grondaia, EMI Records, 1991), Strani giorni (L’imboscata, Polygram, 1996), fino alle più recenti Shock in my town (Gommalacca, Polygram, 1998), Ermeneutica (Dieci stratagemmi, Sony Music, 2004), Il vuoto.
[16] Da Aria di rivoluzione.
[17] Da Bandiera bianca.
[18] Da New frontiers (L’arca di Noè, EMI Records, 1982).
[19] Da Un’altra vita (Orizzonti perduti).
[20] Da Il re del mondo (L’era del cinghiale bianco).
[21] La voce del padrone.
[22] Pollution, Bla Bla / Ricordi, 1972.
[23] Da Fisiognomica (Fisiognomica, EMI Records, 1988).
[24] Da Di passaggio (L’imboscata).
[25] Da Il vuoto.
[26] Idem.
[27] Eraclito, Frammenti, 88. In L’imboscata il brano Di passaggio è introdotto dalla suggestiva voce di Manlio Sgalambro, che legge con intensità questo frammento in lingua greca.
[28] Da Strani giorni.
[29] Orizzonti perduti.
[30] L’ombrello e la macchina da cucire, EMI Records, 1995.
[31] L’imboscata.
[32] Da La porta dello spavento supremo (Dieci stratagemmi).
[33] Dieci stratagemmi.
[34] Da Il mantello e la spiga (Gommalacca).