François Fédier Totalitarismo e nichilismo. Tre seminari e una conferenza
A cura di Maurizio Borghi
2003, 233 p.
Editore Ibis Pavia (collana Minimalia)

Totalitarismo e nichilismo raccoglie i testi di tre seminari e una conferenza tenuti da François Fédier tra il 1998 e il 2001 nel contesto del «Laboratorio fenomenologico» avviato da Gino Zaccaria all’Università Bocconi di Milano[1].
L’impostazione di Fédier è squisitamente fenomenologica, a partire dal lavoro sulla lingua. Il motto fondamentale di ogni fenomenologo – variamente rideclinato – è: «Alle cose stesse!» («Zu den Sachen selbst!») e la prima «cosa» nello schiudersi del mondo umano è la lingua. Fédier presta grande attenzione nel valorizzare il passaggio costante, nel corso dei seminari, dal francese all’italiano e viceversa, passaggio che per di più avviene mediante una traduzione all’impronta spesso impegnata a rischiarare le sue scelte mediante approssimazioni progressive. Questo movimento di «va e vieni» – come lo definisce Fédier – consente di cogliere nel suo attuarsi il modo in cui la lingua opera, il modo in cui essa pensa. Il transito continuo tra due lingue costituisce, di volta in volta a ruoli invertiti, un movimento tra ciò che è abituale e ciò che è sconosciuto. La lingua, per lo più usata in modo irriflesso e istintivo, viene disancorata dall’ovvietà e resa questione del pensiero, ma non astrattamente, a partire da una posizione “terza”, esterna al fatto linguistico in sé, bensì ponendola in risalto nel suo farsi. Con ciò viene salvaguardata un’esperienza (un fenomeno) fondamentale: l’uomo si trova già da sempre nella lingua e in una comprensione di essa, ossia l’accadere della lingua è un evento che si ridefinisce di volta in volta a partire da se stesso.
Il metodo fenomenologico di Fédier ha anche imposto – sempre in corso d’opera – una costante riflessione sul significato di un seminario filosofico. Esso si basa su una serie di elementi decisivi: la disponibilità da parte di tutti a lavorare insieme, a mettersi in discussione; l’importanza di porre le domande innanzitutto a partire da se stessi; la capacità di sopportare la lentezza e le fermate lungo il cammino del pensiero (tanto più necessarie quanto maggiore è l’urgenza delle questioni); e, ancora, l’apertura verso l’esperienza di una radicale non-comprensione, riconoscendo come ciò che ci è ignoto sia al contempo ciò che ci riguarda e ci concerne più profondamente, ciò con cui ci troviamo già da sempre in rapporto.
È precisamente in quest’ottica che vengono pensati, nel corso di diversi incontri, sia l’arte che i fenomeni epocali del totalitarismo e del nichilismo. Tali temi non sono considerati attraverso un approccio storico o sociologico, bensì come questioni filosofiche. Ma cosa distingue una questione filosofica da un’altra qualsiasi? Non dobbiamo pensare a una differenza di ambiti, ma di piani. Un archeologo può indagare le modalità di costruzione delle piramidi egizie senza essere essenzialmente implicato nelle sue scoperte e nei risultati delle sue indagini. Per la filosofia (meglio ancora, per il pensiero che appartiene all’uomo come essere pensante) le cose non stanno così. Come spiega Heidegger nella conferenza Che cos’è metafisica?[2], una questione è filosofica quando implica essenzialmente nella questione colui che la pone, perché in quella domanda ne va del suo stesso essere. In ciò consiste la differenza di piano: da una parte si ha una disciplina che si occupa, mediante il suo metodo d’indagine, di una regione dell’ente già dischiusa; dall’altra una domanda che investe l’essere dell’ente nella sua originaria schiusura. Pertanto, a guidare la riflessione troviamo l’interrogativo: in che misura possiamo riconoscerci ancora immersi in un pensiero totalitario e nichilista? E in che modo situarci tra queste due questioni può chiarirci il senso della nostra epoca?
Per comprendere fino in fondo la direzione indicata da queste domande occorre evitare un rischio insidioso e dalle incalcolabili conseguenze: il fatto di considerare la caduta dei totalitarismi novecenteschi come un definitivo superamento della questione del totalitarismo. Fédier fa notare come alle parole «totale» e «totalità», cui fanno capo «totalitario» e «totalitarismo», continui a essere associata – pur con qualche cautela – una connotazione positiva.
Ciò si fa particolarmente evidente secondo Fédier in rapporto alla descrizione dell’uomo totale (totaler Mensch) tracciata da Karl Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Essa può apparire ancora oggi – e a buon diritto – come un ideale possibile e non come un pensiero immediatamente mostruoso. Il riferimento di Fédier a Marx non è per niente casuale. Il marxismo ha costituito il retroterra di uno dei due totalitarismi novecenteschi, e non di uno qualsiasi, bensì di quello razionalmente più “accettabile”: il comunismo (razionalmente nel senso che non attingeva a motivi immediatamente irrazionali – la razza, il sangue e il suolo – come il nazismo). Come confrontarsi con Marx? Da una parte si vorrebbe distinguere il marxismo dal comunismo reale e, per questa via, riproporlo o riabilitarlo. Dall’altra, però, oggi ciò risulta del tutto anacronistico: lo sgretolamento del blocco sovietico pare infatti costituire la smentita più eclatante del marxismo in ogni sua forma, e dunque la piena legittimazione del capitalismo.
Fédier ritiene che proprio in una congiuntura storica in cui Marx sembra liquidato e confutato dagli eventi occorre tornare a leggerlo. L’importanza di ciò sta nel fatto che nel pensiero del filosofo tedesco domina un impensato che continua a permeare la nostra stessa epoca, facendo sì che il “superamento” di Marx sia ancora un compito a venire. L’analisi sottilissima del dettato marxiano, lungi dall’essere sfoggio erudito fine a se stesso, procede nel senso di un chiarimento fenomenologico atto a instillare il sospetto che il modo stesso di intendere l’essenza dell’essere umano rimanga oggi fondamentalmente totalitario, soprattutto laddove il carattere totalitario del pensiero assume una veste desiderabile come in Marx.
Per avvicinarci al nocciolo della questione, Fédier suggerisce di riflettere sul significato di totalità. In tedesco totalità è All-heit, l’insieme di tutto, e anche Gesamt-heit, dove emerge la componente del raccogliere, del riunire le cose per farne un solo insieme. Perché tale insieme possa comprendere tutte le cose, esso deve sottoporle a un’unica legge – a una sorta di minimo comune denominatore. Tale unità (per esempio, la sostanza) è l’universale. Rispetto alle singole determinazioni esso individua una generalità (All-gemein-heit, gemein: «comune», all, «tutto»), in cui occorre sentir risuonare anche la genericità (cos’è più “generico” nella filosofia occidentale dell’uso abituale della dizione «essere»?[3]). Tale generalità è ciò che sempre sussiste prima e al di là del contingente (p. 69). Bisogna scorgere in questa concezione la struttura duale della metafisica (eternità/tempo, mondo vero/mondo apparente). Se, in fondo, è il pensiero metafisico a essere totalitario, ancora più urgente si pone la domanda: il fallimento dei totalitarismi novecenteschi ha consentito anche un superamento della metafisica nei suoi presupposti più sfuggenti? Riflettendo ancora su Marx e confrontando la sua concezione del lavoro con quella vigente, Fédier indica che non è così. Il lavoro come prestazione è un portato della generalità metafisica – e tale dimensione prestazionale è tanto quella dell’alienazione capitalistica, quanto quella dell’uomo che si riappropria omnilaterlamente (all-seitig) di sé, che non subisce più la divisione del lavoro e che può esprimere tutte insieme le sue potenzialità.
Come in Marx, anche nella nostra epoca è del tutto evidente che l’essere dell’uomo è per lo più considerato una totalità ottenuta attraverso una somma di caratteristiche (quali, per esempio, corpo, anima e spirito; oppure, atomi, reazioni chimiche, funzioni specifiche e quant’altro la scienza ancora deve scoprire). In quanto sommatoria di parti di volta in volta determinate, l’essere umano è valutato in base alla sua funzionalità e al suo livello di prestazione.
In definitiva, in cosa si radica, secondo Fédier, la convinzione che tale operazione di calcolo possa esaurire la domanda sull’uomo? Nel pensiero metafisico, il quale concepisce il tutto solo come totalità composta da una somma di parti, senza mai coglierlo nella sua interezza. Quel pensiero riduce l’essere all’ente e non sa pensare l’intero come ambito di un’apertura originaria cui nulla preesiste e che perciò, nella sua originarietà, è cooriginaria al nulla.
Riguardo a ciò la riflessione condotta da Heidegger sul Dasein[4] è illuminante. Mentre la metafisica contrappone “universale” a “singolare”, concependo il singolare come una caratteristica accidentale che va ad aggiungersi a un sostrato necessario comune a tutto, in Essere e tempo Heidegger pensa il Dasein in modo tale da scompaginare e scardinare tale impostazione. In tale dizione bisogna evitare di udire solo un’altra definizione di uomo, poiché essa indica piuttosto l’aperto in cui l’essenza dell’uomo si stanzia. Infatti, il Dasein è quell’ente che si distingue dagli altri enti in quanto per esso ne va del suo proprio essere. Ma se il Dasein è di volta in volta “schiusura” dell’essere, allora siamo in una dimensione in cui la massima singolarizzazione costituisce la massima universalizzazione. La singolarità non è una parte di una totalità oggettivamente data, non è una creatura, non è una forma provvisoriamente assunta da qualcosa di inesauribile (totalità non data, ma pur sempre totalità). Neppure indica la natura, il carattere individuale o l’essenza personale. Se così fosse, il Dasein non sarebbe più il «da» dell’apertura dell’essere e il mantenersi aperta di quest’apertura, ma piuttosto la sua chiusura, la sua riduzione a qualcosa di oggettivamente presente, che si affiancherebbe ad altri enti per comporre una totalità. La singolarizzazione pensata come universalizzazione vede schiudersi di volta in volta nel singolare l’universale come rapporto, vede insomma «la possibilità di ogni particolarità di non essere “particolare”» (p. 184). A sua volta, l’essere non è un universale (Allgemeinheit) che preesiste a tutti i singoli, secondo la logica metafisica che contrappone la parte al tutto, ma è l’intero (das Ganze) che si mantiene in rapporto a se stesso proprio nel «da».
Ma come può l’uomo corrispondere all’intero? Non è pensabile accantonare semplicemente il pensiero metafisico come fosse una tradizione “superata”. Occorre ripensarla alla luce del fatto che il pensiero stesso tende alla metafisica, poiché, ragionando per concetti, cerca di ricondurre stabilmente la pluralità all’unità, pensando solo la totalità. Bisogna perciò cominciare a praticare un pensiero che pensi contro se stesso, contro la propria natura metafisica, un pensiero che «de-struisca»[5] (pp. 146-147) la metafisica e di volta in volta fluidifichi e non fissi ciò che ha pensato, riducendo il tutto ad una totalità di elementi “compresi” concettualmente. L’universalità del concetto deve allora essere vista secondo una prospettiva radicalmente diversa. L’elemento uni può indicare non “ciò verso cui”, ma “il modo secondo cui” lo sguardo si rapporta al tutto, un rivolgersi tutto intero (d’un solo slancio) verso l’intero (p. 214), con cui tale sguardo nel suo Dasein è già sempre interamente in rapporto da»). È l’intero che si schiude nel pensiero e rimane in esso aperto. Per corrispondere a tale apertura il pensiero è chiamato a un compito fondamentale, che Heidegger così indica: «Wir müssen die Begriffe jeden Tag neu denken», «I concetti, dobbiamo pensarli ogni giorno di nuovo» (p. 76). Laddove essere e tempo si intrecciano, il concetto deve trasformarsi in modo tale da mantenersi aperto, da corrispondere all’appello – incessante – dell’apertura. Fédier ci spiega che si tratta di una vera e propria rivoluzione del pensiero: «Non è più il pensiero a cogliere il Tutto; è piuttosto il Tutto a cogliere il pensiero» (p. 76), a intonare il pensiero, a schiudersi e risuonare in esso come una melodia inapparente. È dunque possibile cogliere l’essere solo tutto-intero (das Ganze). Proprio perché quel tutto-intero – punto di mira dell’occhiata propriamente filosofica – «comprende, in anticipo, l’occhiata del Tutto» (p. 215), possiamo pensare il legame originario dell’essere con il nulla.
Fédier ci consente a questo punto di guardare il nichilismo in una luce del tutto singolare. Innanzitutto ci mette in guardia dall’idea nichilista per eccellenza, ossia l’idea che ci sia una comprensione a nostra disposizione e degli strumenti intellettuali a portata di mano che ci permettano di afferrarla nella sua totalità, secondo un procedere che può essere commisurato all’attività di un calcolatore. Ma perché questa è l’idea nichilista per eccellenza? E dove sta il nesso tra totalità e nichilismo? Se si intende nichilismo come annichilimento, distruzione progettata e organizzata secondo una logica di dominio del più forte o del più giusto, allora il nesso con i totalitarismi storici è evidente. Ma al giorno d’oggi il nichilismo (per esempio nella sua veste di “pensiero debole”) ci appare di tutt’altra natura: è la perdita di coartanti e perentori paradigmi universali e la contestuale maturazione di un’abitudine e di una dimestichezza alla compresenza dell’eterogeneo e del diverso. Non è forse vero che nel nichilismo viene superata la violenza connaturata alla metafisica? Il nichilismo, nelle sue sfumature di relativismo e multiprospettivismo, non si libera dell’universale in quanto totale? In realtà il nichilismo non fa altro che trasferire la sostanza dall’oggetto al soggetto, di modo che la verità – soprattutto nell’ambito della tecno-scienza – viene ridotta a capacità performativa, ad efficacia di modelli, ad utilità di volta in volta calcolabile. All’interno di questo orizzonte, non viene a cadere il dualismo soggetto-oggetto, ma viene solo spostato l’accento sull’altro dei due poli (il soggetto). Cosicché, nell’orizzonte epocale del nichilismo – inteso quale culmine della parabola del pensiero metafisico e compiersi di quest’ultima nella volontà di potenza di Nietzsche – dell’«essere non ne è più nulla» (Heidegger). È questo il contesto di una delle affermazioni più spiazzanti e paradossali di Fédier: «Nichilismo: lì dove l’umanità non vuole saperne più niente del niente» (p. 199). L’umanità non vuol più saper niente del niente proprio perché l’essere è compiutamente ridotto ad ente e si è incapaci di pensarne l’originaria parentela con il nulla. Ci spiega Fédier che questo non è altro che l’accentuazione di un fenomeno connaturato all’essere umano: “il distogliersi dal nulla”. Nondimeno, se ci chiediamo ancora una volta quale sia il tratto fondamentale che contraddistingua l’essere umano, ecco che lo riscopriamo proprio nel suo rapporto con il nulla. Tale rapporto è indicato nella sua forma più intensa da Heidegger in Essere e tempo con l’espressione Sein zum Tode, la quale non significa «essere per la morte», bensì «essere verso la morte», ovvero essere costitutivamente inclini a sostenere il proprio rapporto con la morte[6]. All’interno della temperie nichilista che caratterizza il nostro tempo tale possibilità fondamentale dell’essere umano viene per lo più rimossa, insieme all’angoscia, che altro non è se non il rapporto immediato e corporale con il nulla[7]. Mentre il totalitarismo è ricondotto alle sue varianti criminali del comunismo e nazismo, il nichilismo non ha bisogno di essere percepito come criminale. Eppure, privando gli uomini del loro rapporto con la morte, è «peggio che criminale», perché toglie loro ciò che hanno di più fondamentalmente umano.
Come può allora l’uomo maturare quel pensare capace di essere interamente in rapporto col tutto-intero, nel suo legame originario con il nulla? Fédier cita l’Iperione di Hölderlin:
«Wer nur mit ganzer Seele wirkt, irrt nie»[8].
«Chi soltanto fa con tutta sua alma ciò che deve fare, non si sbaglia mai», dove “con tutta sua alma” è da intendere come «una pienezza d’apertura, vale a dire una pienezza di puro accoglimento, ossia: una pienezza di vacanza» (p. 220). Ciò accade quando il Da-sein corrisponde all’essere maturando la giusta prossimità (ad-) all’essere stesso. Ma giusta prossimità significa dispiegare fino in fondo l’e-sistenza nel suo ineludibile e fondamentale rapporto e-statico all’extraneum dell’essere. L’esistenza diviene allora propriamente un insistere presso questo “fuori” (ex). Stare dentro (e sostenere) l’extraneum che propriamente ci sostiene: questa è la pienezza di vacanza.

 

[1] Le attività di tale laboratorio sono documentate sul sito www.eudia.org.
[2] Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, in Segnavia, a cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann, edizione italiana a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp. 59-60.
[3] Si leggano in proposito le primissime pagine di Essere e tempo (§ 1), dove Heidegger spiega che essere (Sein) è inteso in tre modi interrelati: 1) l’essere è il concetto più generale (der allgemeinste Begriff), perché risulta impossibile ricondurlo a qualsiasi genere o specie relativi a una regione dell’ente; 2) il concetto essere, in quanto il più generale, è anche indefinibile (undefinierbar); infatti né lo si può desumere da un concetto sovraordinato né lo si può rappresentare mediante un concetto subordinato; 3) l’essere infine è il concetto ovvio (selbstverständlich), perché ogni conoscenza si rapporta a un ente che è – es. «le foglie dell’albero sono verdi» – e quindi l’essere è senz’altro immediatamente comprensibile, ridotto a tautologia.
[4] Fédier, in una nota agli Scritti politici di Heidegger, ci mette in guardia rispetto alle difficoltà di traduzione della parola Dasein: «Non è inutile ricordare il modo in cui Heidegger intende la nozione di Dasein: non come être-là, “essere-qui”, “esserci”, ma (come lui stesso ha proposto in francese) come être le là, “essere-il-qui”, dove “essere” assume un senso quasi attivo, poiché indica non più uno stato, ma il compito che deve propriamente intraprendere l’essere umano: aver da essere il qui, dover essere il qui. Quanto a questo “qui”, che l’essere umano deve, per così dire, transitivamente “essere”, esso non è nient’altro che quell’apriori – precedente a ogni località e primordiale rispetto a ogni momento – in cui ha luogo la manifestatività di ciò che si manifesta (cosa che, nel corso della storia della metafisica, è stata chiamata anima e che è finita col diventare coscienza – denominazioni evidentemente restrittive di un fenomeno ben più aperto)» (in Martin Heidegger, Scritti politici (1933-1966), prefazione, postfazione e note di François Fédier, edizione italiana a cura di Gino Zaccaria, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1998, pp. 318-319). Sebbene la soluzione «esserci» sia ormai considerata naturale e ovvia (tanto per via della sua similarità con la parola tedesca quanto per il peso della tradizione che l’ha adottata – dapprima Chiodi e poi Volpi e Marini), Gino Zaccaria propone, sulla scorta delle citate indicazioni, di non rendere Dasein con «esserci», bensì con «ad-essere» (laddove l’ad- indica quell’approssimarsi, quel tenersi nella prossimità, a partire dal quale sorge ogni stato in luogo, ogni ci). Cfr. Gino Zaccaria, L’inizio greco del pensiero. Heidegger e l’essenza futura della filosofia, Christian Marinotti, Milano 1999, in particolare pp. 191-192. Sullo specifico della questione Zaccaria è poi tornato insieme a Ivo De Gennaro in Dasein: Da-sein. Tradurre la parola del pensiero. Un contributo alla ricezione italiana di Heidegger, Christian Marinotti, Milano 2007.
[5] Con «de-struzione» si può tradurre la De-struktion di Heidegger per distinguerla dalla decostruzione di Derrida.
[6] Il nome che i Greci utilizzavano per identificare gli essere umani era “mortali”, perché, a differenza degli animali, delle piante e degli dei, gli uomini si rapportano con la morte.
[7] Fédier descrive l’angoscia come ciò che «situa, corporalmente, l’essere umano, situandosi al centro del corpo» (p. 204) e ci ricorda che per gli antichi Greci la sede del pensiero non è nella testa, ma nel petto, luogo dell’angoscia.
[8] La citazione compare in Totalitarismo e nichilismo. Tre seminari e una conferenza, p. 218. In realtà, nel volume la locuzione è riportata in modo lievemente improprio, dal momento che si legge «mit der ganzen Seele». Viene dunque aggiunto un articolo determinativo assente nell’originale. Interpellato in proposito, Fédier ci ha proposto, in sostituzione della traduzione italiana offerta nel libro, quella di cui facciamo uso. La locuzione hölderliniana si legge in Friedrich Hölderlin, Sämtliche Werke, Briefe und Dokumente in zeitlicher Folge, a cura di Dietrich E. Sattler, vol. 6 (= 1797-1799. Frankfurt – Homburg), Luchterhand, München 2004, p. 117 [Iperione, traduzione e cura di Giovanni V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 2001, p. 125].