L'uomo dopo l'uomo

L’uomo dopo l’uomo
7 conversazioni con Frédéric de Towarnicki
di Satprem,
Edizioni Mediterranee (1987)
Traduzione di Boni Menato T.

“Cosa cerca, un uomo? Quando ha inizio la domanda? Ce la poniamo mentalmente a quindici o vent’anni. Ma c’è già molto prima. Quando apriamo gli occhi, siamo sempre come il primo uomo al mondo. E ci diciamo: «Cosa?» (senza parole, è vero, siamo una domanda). L’uomo ERA una domanda. Ci siamo immaginati che si dovesse dare risposte mentali, intellettuali alla domanda. Ma quando avremo dato tutte le risposte, queste non riempiranno. E’ il fatto d’essere, la domanda.”. [1] Così comincia il viaggio di Satprem alla ricerca di se stesso, e quello del lettore sul filo di una testimonianza davvero unica, anche perché colui che la raccolse fra il 29 aprile e il 5 maggio 1980 – il giornalista e traduttore Frédéric de Towarnicki – è stato anch’egli una figura significativa nel panorama culturale del Novecento, interlocutore e spesso amico di personaggi della caratura di Martin Heidegger [2], Jean Beaufret, Alain Resnais, Ernst Jünger, Sartre, Brecht, Max Ernst, Picasso, Fellini, Giorgio De Chirico, Chagall, Sacharov… Entrambi – l’intervistato, scomparso il 9 aprile 2007, e l’intervistatore, deceduto lo scorso 16 gennaio – erano, si può dire, ‘uomini in cerca’. E proprio una domanda fortemente sentita, che parla ardendo nelle viscere e che sembra non avere risposta, è il filo conduttore che è possibile riconoscere nelle loro conversazioni e, con esiti e modalità diverse, nelle loro vite.

Ma quali sono le parole più adatte ad esprimere la domanda che ci abita? Satprem afferma che “la falsità… è formularla”: c’è infatti un solo modo di porla – e di rispondervi -, ed è “con il proprio respiro, col proprio cuore, il proprio fiato […], cioè incarnarla, esserla nel modo più autentico è già la risposta”. E’ tuttavia possibile dire attraverso quali sapori emotivi si manifesta: “è che manca… è che manchiamo di qualcosa. E tutti gli esseri umani, senza saperlo, mancano di qualcosa, che tentano di riempire goffamente con una cosa e poi un’altra, e poi un’altra, e poi non si riempie mai…”. E’ a partire da questo humus interiore che Satprem, poco più che adolescente, intraprende la propria, personale ricerca del “segreto” che sente di dover “strappare” a se stesso. Ed è con questa apertura di cuore, con questa intima attesa, che appena ventenne subisce l’arresto da parte della Gestapo e la tremenda esperienza in un campo di concentramento, della quale parlerà come “la grazia brutale che mi è stata fatta. Proprio perché avevo talmente bisogno di… di verità. [Il campo] mi ha frantumato, mi ha ripulito meravigliosamente – terribilmente, ma meravigliosamente […]; è stato frantumato […] soprattutto questo: ciò che credevo d’essere.”.

Durante la prigionia, immerso in una realtà quotidiana che comunemente si può solo tentare di immaginare, spoglia di tutto ciò che intendiamo con la parola “umano”, un giorno Satprem vive un’esperienza estremamente singolare: “…si è frantumato in modo così… così radicale tutto quello che potevo essere, o tutto ciò che credevo d’essere, che tutto d’un colpo sono precipitato in… beh, nella sola cosa che restasse: la mia pelle. Sì, e all’improvviso questo mi ha dato una gioia straordinaria. Di colpo sono stato come al disopra di tutto questo, direi quasi «ridendo». Come se […] da tutta questa devastazione emergessi in un luogo che era… che era «regale». Non ero più prigioniero […]. E più nulla poteva niente su di me. Era il primo contatto con… con la verità, con ciò che siamo – che ogni uomo è.”. In seguito a questo momento straordinario, la sua vita diventa il tentativo di ritrovare e di comprendere ciò che in quell’occasione gli si è svelato: dall’Egitto all’India, dalla foresta amazzonica al Sahara, all’Himalaya, Satprem frequenta ossessivamente il proprio limite interiore e corporale, spingendosi sempre ai confini della propria sopportazione, nello sforzo di raschiare il fondo di quelle abitudini psicofisiche che velano l’esperienza del ‘qui e ora’…senza tuttavia riuscire a carpirne il “segreto”. Sarà il ricordo dello sguardo di Sri Aurobindo, incrociato anni addietro, a riportarlo al suo ashram; il Maestro nel frattempo ha “lasciato il corpo”, ma la sua compagna, Mère, elegge Satprem a testimone esclusivo della propria ricerca [3], permettendogli di trovare una via del tutto inaspettata, e di toccare le profondità la cui voce Satprem ha sempre ostinatamente ascoltato, anche in situazioni di vita davvero estreme.

Al di là dell’insegnamento cui Satprem è approdato lungo il suo cammino, per un lettore sensibile e attento le sue parole possono davvero costituire l’occasione di una profonda riflessione sulla propria domanda, di cui spesso non si è nemmeno coscienti e della quale per lo più si subisce, impotenti, la deriva emozionale: un cieco disagio, uno strano rimestìo interiore di cui raramente si riconosce la matrice esistenziale. A questo proposito può essere interessante soffermarsi sulla “mancanza” da cui siamo partiti: che cosa all’inizio del suo percorso mancasse, ammette Satprem, all’epoca non gli era chiaro, e nel dialogo con de Towarnicki questo aspetto non viene precisato; ma curiosamente nel corso dell’intervista ricorre una questione: quella del senso. “Ebbene, la fine [del cammino], per me, non [è] la fine. […] Altrimenti questa Terra non ha senso”; e ancora: “Ero stato al limite dell’umano. Non avevo la risposta. […] Siamo stati flagelli, siamo stati rane, siamo stati pesci, siamo stati scimmie per… Abbiamo trafficato attraverso – davvero – milioni di anni, e sofferto e… perché? […] Non ha senso.”. La preziosità di queste pagine sta anche e soprattutto in questo: esse testimoniano con forza la possibilità di indagare a fondo il proprio sentire, e in particolare proprio quello che sembra suggerirci l’impossibilità di una risposta alle nostre domande più radicali. L’esperienza di Satprem sembra dirci che è possibile – e doveroso – seguire quella che sentiamo come unica voce autentica, senza timore di muoverci, come avrebbe detto un’altra grande anima, “in direzione ostinata e contraria”, anche rispetto alle nostre stesse convinzioni.

Note:

[1] Come per le successive citazioni, traduzione nostra dall’originale Sept jours en Indie avec Satprem – Propos recueillis par Frédéric de Towarnicki, Robert Laffont, Parigi, 1982, pp. 3-4.
[2] Del quale diverrà interlocutore privilegiato in ambito francese; Il messaggero della Foresta è l’intenso racconto di questo dialogo durato anni fra il filosofo tedesco e l’allora venticinquenne de Towarnicki.
[3] Raccoglierà le loro conversazioni nei tredici volumi dell’Agenda di Mère, Edizioni Mediterranee, Roma, 1987.