Michel Bitbol
CREA/CNRS, 1 , rue Descartes, 75005 Paris FRANCE
Phenomenology and the Cognitive Science, 1, 181-224, 2002

prima parteseconda parte – terza parte

2- Che cos’è una teoria ? Un consenso obbligato sulla scienza

Nella sezione precedente, ho parlato di una convergenza elementare che ha luogo nolente volente tra pensatori Wittgensteiniani-Vareliani e materialisti, circa l’alternativa tra dissolvere piuttosto che risolvere l’ “hard problem” della coscienza. In questa sezione, è mia intenzione sviluppare un’altra, più comprensibile, convergenza che gira attorno al concetto di teorie scientifiche. Anche in questo ambito, si genera una tacita concordanza contro ogni desiderio. Essa è il risultato di un feroce dibattito che spinge gli autori verso posizioni presumibilmente incompatibili che sono in realtà più vicine di quanto essi avessero immaginato.

Il dibattito gira attorno allo stato della folk-psycology. E’ la folk-psycology una teoria empirica primitiva, che fornisce gli esseri umani di predizione o spiegazione30 del comportamento delle altre persone, e passibile di essere falsificata? O è qualcos’altro, di non comparabile con le teorie scientifiche? Allora, se è qualcosa d’altro, che cos’è esattamente?[31]

La prima tesi, secondo la quale la folk-psycology ha lo stesso statuto e lo stesso fine di una teoria scientifica, è stata sviluppata come argomento forte in favore dell’eliminativismo[32]. Se la folk-psycology è solo una teoria primitiva del comportamento umano, allora la scienza moderna non deve preoccuparsi di giustificare i resoconti esperienziali espressi all’interno del suo (della folk-psycology) contesto. La scienza non deve spiegare questi resoconti, ne ridurli a processi neurali; essa dovrebbe piuttosto assegnarsi il compito di rimpiazzare la folk-psycology con una migliore (presumibilmente neurofisiologica) teoria (Churchland, 1986).

Naturalmente, se la sostituzione della folk-psycology con una teoria della mente neurofisiologica è equivalente o no al rigetto della coscienza primaria come tale, rimane una questione aperta. Non è affatto ovvio che l’eliminativismo teoretico equivalga all’eliminativismo radicale. Dopo tutto, l’eliminativismo teoretico in senso stretto comporta solo la sostituzione di un rete di categorie e relazioni basato su un’accurata ricerca neuroscientifica, con un altro che era già in uso prima dell’era delle neuroscienze. Esso potrebbe, quindi, comportare solo una ricategorizzazione dei contenuti d’esperienza alla luce della neurofisiologia, piuttosto che l’espulsione del puro fatto dell’esperienza cosciente. Solo all’interno di una prospettiva epistemologica limitata, o se la coscienza è pensata come una categoria della folk-psycology, allora l’eliminativismo teoretico genera un eliminativismo radicale [xii], [33]. Una volta assunta questa distinzione, un sostenitore della Neurofenomenologia di Varela può trovare alcuni punti di accordo con un eliminativismo puramente teoretico. Ma prima di discutere questi punti, vorrei porre l’attenzione sull’altra interpretazione della folk-psycology, e al susseguente dibattito tra i campioni delle due concezioni.

In accordo con il punto di vista alternativo (Gordon, 1986; Gordon, 1992; Goldman, 1992; Greenwood, 1999; Perner et al., 1999; Pust, 1999; Warren, 1999)[xiii], la folk-psycology non è propriamente una teoria. Essa è un sistema di punti di riferimento e regole normative per simulare stati mentali di altre persone[34]. Mentre una teoria consente di predire e spiegare attraverso catene di resoconti in terza-persona, la folk-psycology è costruita (perlomeno) come uno strumento di previsione del comportamento altrui mediante l’inserimento della propria esperienza personale in prima-persona nella situazione mentale dell’altro. “Inserire” non significa solo “mettersi al posto di un’altro” in un modo superficialmente proiettivo, ma anche aggiustare il proprio stato allo scopo di accogliere manifeste differenze con quest’altra persona[35].

A questo punto, tre importanti questioni devono essere poste circa il significato dell’ “intendimento come simulazione” della folk-psycology: (i) dopo che la folk-psycology è stata così capita, è essa in grado di fornire appropriate spiegazioni del comportamento o è limitata a dare solo previsioni? (ii) l’intendimento come simulazione della nostra conoscenza delle altre menti deve  complementare o escludere l’intendimento come teoria[xiv]? (iii) l’intendimento come simulazione è costretto ad essere incompatibile con l’eliminativismo teoretico o (sorprendentemente) no?

Riguardo al primo punto, si dovrebbe notare che mentre è naturale per un neuroscienziato ricercare una spiegazione del comportamento, non è per nulla chiaro che questo è o può essere il compito principale di chi usa la strategia della simulazione permessa dalla folk-psycology. Infatti, è innegabile che le persone impegnate in una simulazione della folk-psycology non si limitano a una predizione del comportamento. Ma allora che cosa fanno, se esse fanno di più che predire ma meno (o qualcos’altro) che spiegare? Qui, il vecchio concetto di “comprendere”[36], preso a prestito dal paradigma di Dilthey della Geisteswissenschaften[37] (e dagli ermeneuti), è manifestamente appropriato. “Comprendere” qualcuno non significa dispiegare una catena causale da qualcosa che include il comportamento passato, stati mentali passati, o stati neurali passati, verso il comportamento presente; ma significa fornire un razionale in prima-persona del suo presente condotto attraverso la messa in atto di un incorpamento (to embody) (o simulazione) delle sue intenzioni e delle sue (conscie o inconscie) ragioni per agire[38]. Questa concezione del “comprendere” non ha niente a che fare con le spiegazioni scientifiche, come ha fortemente messo in rilievo K.-O. Apel (Apel, 1976, 1980; Von Wright, 1971)[39]. Spiegare qualcosa richiede un’oggettivazione. Ogni anello in una catena esplicativa causale deve essere trattato come un oggetto di una descrizione in terza-persona. Ma il caso del “comprendere” è totalmente differente. Esso include una “relazione soggetto-cosoggetto” (Apel, 1976), invece della “relazione soggetto-oggetto” della spiegazione. Esso si dispiega nel gioco linguistico della pura “comunicazione intersoggettiva”, e non nel gioco della conoscenza oggettiva[40]. E sorge da un’altro specifico “interesse” nella vita: un interesse che richiede di occuparsi della situazione di chi deve essere “compreso”, piuttosto che prenderne le distanze. Il gap è piuttosto ampio: e Apel arriva a dire che la scienza oggettiva e il capire ermeneutico si escludono a vicenda. Ma è questa l’ultima parola?

L’ultima questione fa emergere il secondo punto del mio confronto tra la concezione come simulazione e la concezione come teoria della folk-psycology. Secondo Apel, la scienza oggettiva e la conoscenza ermeneutica non sono semplicemente esclusive. Esse sono complementari nel senso di Bohr[41]; infatti esse sono anche insieme indispensabili per esaurire le possibiltà della conoscenza. Ma quando Apel sviluppa la ragione del motivo percui, secondo lui, si complementano l’una con l’altra, egli manifesta un’inclinazione ermeneutica che è l’esatta immagine specchio della posizione materialista[42]. La scienza oggettiva e la conoscenza ermeneutica, dice, sono co-indispensabili, perchè la scienza oggettiva presuppone la conoscenza ermeneutica (o pre-ermeneutica) tra gli scienziati[43]. Più specificamente, la simulazione verosimilmente agisce come precondizione per elaborare una teoria appropriata dei processi mentali e del comportamento (Goldman, 1989). Ascrivere alla conoscenza oggettiva o alla simulazione il ruolo di prerequisito per una scienza oggettiva è perfettamente accettabile, come è documentato, per esempio, in un feroce dibattito che avvenne tra Schrödinger e Carnap nel 1935 (Carnap, 1936; Bitbol, 1999, 2000). Comunque, questa è solo una parte della storia. La conoscenza ermeneutica può usare le teorie scientifiche per sviluppare i propri propositi, Le spiegazioni scientifiche del comportamento possono essere usate per se stesse, ma possono anche essere utilizzate come utili mezzi intermedi per la simulazione reciproca di situazioni. Un modello oggettivo può essere estrapolato per essere uno strumento eccezzionalmente efficiente e flessibile per la conoscenza ermeneutica, poichè esso permette la simulazione di ogni possibile situazione all’interno di un contesto accettato. Questa inversione (la spiegazione come mezzo per capire, piuttosto che il capire come precondizione per la spiegazione scientifica) può suonare strana a condizione che l’ottenimento di una conoscenza pura sia l’ultimo valore; ma essa procede senza dire se l’inserzione nell’ambiente sociale e naturale di una persona irrompa come il valore dominante alternativo.

Ora vediamo che, anche se non c’è prospettiva di riduzione del capire alla spiegazione (della simulazione alla teorizzazione), o vice versa, esistono forti interrelazioni a due-vie tra di loro. Ma questa reciprocità è precisamente la base della Neurofenomenologia di Varela.

A prima vista, l’insistenza di Varela a disconoscere entrambe le asimmetrie, l’asimmetria del materialismo oggettvistico e l’asimmetria dell’ermeneutica, può apparire sconcertante. Egli ricordava ai materialisti dell’inevitabile priorità dell’embodiment, o della necessità di disalienare la conoscenza dalla vita umana; e rimproverava gli ermeneuti per il loro rifiuto sistematico delle procedure di naturalizzazione. Ma questo duplice criticismo è perfettamente giustificato non appena si realizza che le attitudini apparentemente antinomiche  del materialismo e dell’ermeneutica sono in realtà le due metà della stessa moneta. Entrambe derivano dalla stessa concezione troncata (puramente oggettivante) della scienza  e della natura. Il materialismo tende a forzare ogni aspetto di “cos’è il fatto” dentro questa scienza incompleta; e l’ermeneutica tenda di difendere, in un un modo eccessivamente ermetico, un aspetto della vita, dalla stessa incompleta scienza. Comunque, se la concezione della scienza e della natura è allargata come la Neurofenomenologia richiede, nè forzare nè difendere sono opportuni. Una fertilizzazione reciproca della scienza oggettiva con il suo retroterra situato, e del capire intersoggettivo con le spiegazioni scientifiche, diviene concepibile. L’efficacia di questa fertilizzazione incrociata può essere ulteriormente e drasticamente aumentata attraverso il metodo neurofenomenologico dell’imposizione di “vincoli reciproci” tra le due controparti.

Questo ci porta alla terza questione con una buona prospettiva di dargli una risposta positiva: è la concezione come simulazione compatibile con l’eliminativismo teoretico? Questa prospettiva a prima vista può sorprendere, ma la sorpresa (o non credenza) verosimilmente si affievolisce se la risposta positiva viene qualificata: la compatibilità della concezione simulativa con l’eleminativismo teoretico non è ottenuta gratuitamente; essa deve essere assicurata, anche qui, attraverso un processo di mutua fine sintonizzazione, che è il soggetto del prossimo paragrafo.

Iniziamo con una osservazione circa l’interconvertibilità dei vocabolari di “capire” e di “spiegare”. Categorie come sensazione, desiderio, progetto, azione, motivo, etc., che normalmente operano come cartello indicatore e come punti focali normativi del capire intersoggettivo, possono, anche, essere utilizzati come elementi intermedi di spiegazioni simil-oggettive. Spiegazioni teleologiche e inferenze pratiche, come sono state descritte da Von Wright[xv], coincidono esattamente con questa descrizione. In questo caso, le intenzioni e le ragioni de facto intervengono come entità oggettive addizionali nel contenuto della natura e inoltre partecipano a un modello causale o quasi-causale. Apel giustamente evidenziò che il fatto che categorie intenzionali vengano spesso utilizzate in ciò che appare come una spiegazione, non dovrebbe nascondere il loro scopo primario ermeneutico. Ma di converso, il loro stato ermeneutico primario non dovrebbe indurre ad abbandonare dogmaticamente la pratica comune che consiste nell’imbastire spiegazioni del comportamento con termini teleologico-intenzionali. A questo è richiesta una certa flessibiltà semantica. Si deve riconoscere, in stile Wittgensteineano, che una parola non ha una natura intrinseca, ma solo una funzione e un uso. Perciò, se usato in un dialogo, un termine intenzionale normalmente lavora come un mezzo per una simulazione reciproca. Ma se esso è usato nel contesto di una inferenza pratica può perfettamente (e comunemente lo fa) giocare il ruolo di uno stadio intermedio in una qualche spiegazione simil-causale del comportamento[44].

Il problema è che non appena quest’ultimo ruolo esplicativo è promosso, le categorie intenzionali competono con altre (talvolta più appropriate) categorie derivate dalle scienze naturali. Sorge la tentazione di ridurle alla loro controparte scientifica, o di rimpiazzarle del tutto con concetti esplicativi più rifiniti. Il riduzionismo e l’eliminativismo perciò sembrano un’inevitabile conseguenza di un pregiudizio culturale assai diffuso in favore della spiegazione. Ma la nostra reazione, in questo caso, non dovrebbe essere quella di rimpiazzare un pregiudizio con il rispettivo opposto (come un ermeneuta sarebbe spinto a fare). Piuttosto si dovrebbe mostrare cosa si può ottenere attraverso il rilassamento di questi pregiudizi.

Ora consideriamo la miglior possibile spiegazione del comportamento usando le categorie di un eliminativista teoretico (presumibilmente categorie neurofisiologiche). In questo caso i termini giocano il ruolo di anelli intermedi in una catena esplicativa causale fatta di elementi oggettivi. Comunque, nulla vieta di ascrivere loro il ruolo di nuovi, differenti, e possibilmente più discriminativi, punti di riferimento per un capireusati può determinare il loro stato[45]. Ma può avvenire sempre tale uso intersoggettivo di concetti originalmente oggettivi? Ci sono molti indizi nel linguaggio corrente ordinario che indicano un darsi piuttosto esteso della conversione ermeneutica  della prima facie del vocabolario oggettivante delle neuroscienze. Non è infrequente, oggi, sentire qualcuno dire per esempio: “il mio cervello sta processando l’informazione” invece di “sto pensando intensamente”, o “i miei circuiti sono sovraccarichi” invece di “non riesco a capire cosa fare in queste circostanze complesse”, o “i tuoi neuroni stanno facendo gli straordinari” invece di “sei mentalmente esausto”, etc. A dispetto di una impressione superficiale, questo modo di parlare non significa che la simulazione e il capire intersoggettivo siano stati rimpiazzati da spiegazioni simil-eliminativiste; esso piuttosto suggerisce che le parole in terza-persona dell’eleminativismo sono disponibili per essere usate come termini espressivi in prima e seconda-persona. Nonostante tutto ciò, nel contesto del dialogo, l’uso di tali termini o sentenze non può essere (solo) quello di descrivere un certo stato neurofisiologico; esso serve ad esprimere che cosa si prova ad essere in quello stato, e a suggerire che cosa potrebbe voler dire per i co-soggetti essere in quello stesso stato. Il solo ostacolo che impedisce questa conversione ermeneutica (portando qualcuno alla erronea conclusione che la spiegazione è prevalsa sulla vecchia concezione del “capire” anche nella sua roccaforte del parlare quotidiano) è che si manchi di una appropriata controparte esperienziale alla maggior parte dei concetti neurofisiologici usati dagli eliminativisti teoretici. Ma trovare e fissare normativamente tale controparte è precisamente uno dei più importanti aspetti del programma di ricerca neurofenomenologico di Varela. intersoggettivo. Solo il modo in cui sono

Ora siamo in grado di vedere perchè l’eliminativismo teoretico non è nell’essenza incompatibile con la concezione come simulazione della folk-psycology: le sue categorie includono potenzialità per l’uso simulativo intersoggetivo; e queste potenzialità sono verosimilmente messe in atto dalle investigazioni neurofenomenologiche.

P.M. e P.S. Churchland, i due difensori più emblematici dell’eliminativismo, non sono molto lontani dall’apprezzare questa inaspettata convergenza (Churchland & Churchland, 1998). Comunque, il modo con cui essi si avvicinano a una riconciliazione del loro eliminativismo con la concezione simulativa, è per noi particolarmente interessante, poichè esso include una opzione definitiva circa lo stato delle teorie scientifiche in generale. I Churchlands, per prima cosa, riconoscono che c’è qualcosa di giusto nell’assunto che la folk-psycology sia primariamente usata come mezzo per una “complessa pratica sociale” (Churchland & Churchland, 1998, p.10) di cui siamo partecipi, e che le sue quasi-leggi siano normative piuttosto che descrittive. Di seguito, essi difendono la loro concezione della folk-psycology come teoria, sottolineando il fatto che essa non contraddice la concezione come simulazione su quel punto, a patto che si addotti un punto di vista Kuhniano riguardo allo statuto delle teorie scientifiche[46]. In accordo con quella visione, dicono, imparare una teoria scientifica “(…) non è solamente o anche primariamente una questione di imparare un set di leggi o principi: si tratta di imparare una pratica sociale complessa (…)” (Churchland & Churchland, 1998, p.11, p.33). Una teoria perciò richiede componenti di un impegno pratico e dell’inserzione all’interno di un rete di comunicazione intersoggettiva. Questi componenti, che sono costitutivi dello stato della folk-psycology in accordo con i sostenitori della concezione simulativa, non vengono negati, ma piuttosto rifiniti e aggiornati dall’eliminativismo teoretico come i Churchland lo definiscono. Questo movimento è molto radicale invece, e si sposa bene con l’inclinazione neo-Wittgensteineana di Kuhn. Ma mi stupirei se essa non equivalesse ad arrendersi all’opposto punto di vista; o in ultimo se essa non indebolisse il motivo chiave del dibattito.

Dopo tutto, la rivendicazione centrale della parte opposta non riguarda la scelta tra categorie normative di simulazione più o meno discriminative. Ma essa si riferisce al fatto che l’esperienza in prima persona e le pratiche intersoggettive del “capire” (cioè una reciproca sostituzione simulata della situazione di uno con un’altro) non possono semplicemente essere messe da parte e rimpiazzate da descrizioni in terza-persona o da spiegazioni distaccate. Ora, se l’epitome delle descrizioni in terza-persona e delle spiegazioni distaccate, cioè il corpo stesso delle teorie scientifiche, coinvolge lo stesso tipo di dialettica esistente tra l’embodiment e il distanziamento (del metodo oggettivo) , o tra pratiche in atto ed esame statico, come il mutuo “capire” di cosoggetti, allora l’intero dibattito diviene inutile perchè ognuno si trova d’accordo riguardo alla presenza onnipervasiva di una conoscenza situata. Per vincere la controversia, gli eliminativisti teoretici avrebbero dovuto oggettivare sia il modo di esprimersi soggettivo che il capire ermeneutico. Ma essi sono stati costretti a reagire all’altra via, rimanendovi tuttavia agganciati, cioè sono stati spinti, inconsapevolmente, a “ermeneutizzare” la loro concezione delle teorie scientifiche.

Il problema è che questa momentanea svolta nel pensiero degli eliminativisti comporta una lotta contro il loro programma di ricerca dominato dall’oggettività, e contro il tono limitatamente oggettivistico della maggior parte dei loro scritti. La necessaria coerenza può essere ottenuta solo all’interno di un programma di ricerca che comporti un effetto sistematico di mutuo feed-back tra resoconti in prima persona e descrizioni in terza persona, assieme a una epistemologia che sia partecipatoria a ogni livello. Ma queste condizioni essenziali dipingono esattamente la posizione di Varela, poichè, in essa (la posizione di Varela), “mutue limitazioni” neurofenomenologiche sono associate a una teoria della cognizione come “enazione” [47].     

 

Note dell’autore:

[xii] La posizione più prossima all’eliminativismo radicale (sebbene con molte riserve) probabilmente è quella di Dennett (Dennett, 1992).

[xiii] Una critica del concetto di simulazione può essere trovata in (Stich, 1996).

[xiv] L’ “intendimento come teoria” della folk-psycology è  un intendimento in accordo al quale la folk-psycology è una teoria. Esso è chiamato anche “teoria della teoria”.

[xv] Un esempio di spiegazione teleologica basata sull’inferenza pratica è : “A intende determinare p ; Ap, a meno che egli per prima cosa non si metta nelle condizioni di imparare a fare a ; perciò A si dispone a imparare a fare a” (Von Wright, p.101). considera di non poter determinare

Traduzione a cura di Fabio Negro
Centro Studi ASIA

 

Note del traduttore:

[30] “Il termine “spiegazione” nasconde una molteplicità di significati che si possono distinguere tra loro a seconda delle situazioni cui fanno riferimento. Si ha allora: i) nei confronti di un termine, spiegare significa determinare il significato di un termine, cioè interpretarlo; ii) nei confronti di un enunciato analitico, spiegare significa sostituire all’enunciato in questione un enunciato meno vago o più esatto o, dove è possibile, proprio di un linguaggio formalizzato; iii) nei confronti di una situazione umana di conflitto, spiegare significa eliminare le cause o i motivi del conflitto stesso; iv) nei confronti di un oggetto in generale, sia esso cosa, evento o persona, spiegare significa fornire il perchè del suo essere o del suo accadere. Di questi quattro significati, quello al quale si riferisce il problema specifico della natura della spiegazione è il quarto. Da questo punto di vista si possono distinguere due specie fondamentali di tecniche esplicative e cioè: A) la tecnica esplicativa causale; B) le tecniche esplicative condizionali. A) Esistono due tipi di spiegazione causale corrispondenti ai due concetti fondamentali di causalità: a) il concetto della causalità come deducibilità; b) come uniformità. Poichè entrambi questi due concetti della causalità pretendono di rendere possibile una previsione infallibile, per schema di spiegazione causale si può intendere in generale ogni tecnica che consente la previsione infallibile di un oggetto. Ma poichè la previsione infallibile è possibile solo quando si tratta di oggetti necessari, cioè tali che non possono non essere o non possono non essere diversamente da come sono, la spiegazione causale è in ogni caso la dimostrazione della necessità del suo oggetto. a) La tecnica esplicativa che fa appello alla deducibilità è quella della metafisica classica e in primo luogo di Aristotele. Per quanto Aristotele abbia distinto quattro specie di cause, egli riconosce agli effetti della spiegazione, il primato della causa finale come ragion d’essere o sostanza o forma dell’oggetto. In questo senso la spiegazione causale si identifica con la dimostrazione, in quanto è dimostrazione della necessità. Ma questo concetto della spiegazione è stato frequentemente riferito alla scienza stessa. La causa, allora, può definirsi come il punto di partenza di una deduzione di cui il fenomeno è il punto di arrivo. In questo senso la spiegazione viene ridotta all’identificazione, perchè solo l’identificazione permette la deduzione del fenomeno, contro l’analisi positivistica della scienza, che cerca solo la previsione del fenomeno. b) Il secondo tipo di spiegazione causale è quello che ricorre al concetto di causa come uniformità di connessione dei fenomeni tra loro. E’ questo il concetto che fu introdotto da Hume e che Comte pose a base della spiegazione “positiva” dei fenomeni stessi. Comte contrappone al tentativo metafisico di scoprire “i modi essenziali di produzione” dei fenomeni il compito puramente descrittivo della scienza positiva che si limita a scoprire le leggi dei fenomeni cioè i loro rapporti costanti. B) Le tecniche esplicative causali , sia quella fondata sulla deduzione, sia quella fondata sulla connessione uniforme, pretendono di dare alla spiegazione causale un carattere infallibile e globale che corrisponde al carattere di previsione certa, riconosciuto al legame causale. La tecnica esplicativa che si può chiamare condizionale elimina dallo schema esplicativo per l’appunto questi caratteri. Si possono trovare i primordi di questo concetto nella dottrina di Kant il quale ha anche adoperato in senso proprio il concetto di condizione. Kant contrappone la spiegazione scientifica dei fenomeni alla “ipotesi trascendentale” della metafisica. “Per la spiegazione dei fenomeni dati, non possono addursi altre cose e principi all’infuori di quelli che, secondo le leggi già note dei fenomeni, sono messi in relazione con i fenomeni dati. Un’ipotesi trascendentale in cui, per la spiegazione delle cose naturali, si adoperasse una semplice idea della ragione, non sarebbe affatto una spiegazione, perchè ciò che non s’intende abbastanza con principi empirici sarebbe spiegato con qualcosa di cui non s’intende addirittura nulla”. E’ soprattutto nel campo della metodologia storica che questo tipo di spiegazione è stato elaborato e il primo a introdurlo in modo esplicito è stato Max Weber. Ma la migliore formulazione dello schema condizionale può forse essere considerata quella di W. Dray. “L’esigenza della spiegazione”, egli dice, ” è in alcuni contesti sufficientemente soddisfatta se si mostra che ciò che è accaduto era stato possibile e non c’è bisogno di mostrare inoltre che esso era necessario“. Questo punto di vista in cui si contrappone lo schema esplicativo del come-possibilmente a quello causale del perchè-necessariamente, si è rivelato egualmente adatto ad intendere la natura della spiegazione che ricorre nell’ambito delle scienze naturali e specialmente della più avanzata di esse che è la fisica quantistica. Mancando anche in questa, con la condizione della prevedibilità infallibile, la connessione causale necessitante, l’unico schema possibile di spiegazione è quello condizionale che si limita a determinare la possibilità dell’explanandum (l’enunciato che descrive il fenomeno che dev’essere spiegato). In tal senso, si può dire che la spiegazione è la determinazione della possibilità determinata e controllabile dell’oggetto; dove determinata significa individuata e riconoscibile con un metodo o procedimento appropriato e, talvolta, misurabile secondo uno schema di probabilità; e controllabile significa ripetibile in condizioni adatte. (N. Abbagnano, “Dizionario di Filosofia”).

[31] Per una messa a fuoco del dibattito sulla folk-psycology, ne riporto una breve ricostruzione storica. “Per molti secoli il tema del pensiero animale è stato affrontato prendendo come riferimento una posizione teoricamente molto precisa: non può esserci pensiero in assenza di linguaggio… Cartesio, infatti, era convinto che la mente potesse essere identificata con la capacità di ragionare e di esprimere tali ragionamenti per mezzo del linguaggio… Questa posizione ha i suoi epigoni anche oggi. Troviamo infatti autori come Donald Davidson (1980) i quali sostengono che per pensare è necessario il concetto di credenza, e tale concetto necessita, per la sua formazione, di un linguaggio. Un discorso un po’ più debole lo propone Michael Dummett (1988), che asserisce che il linguaggio è lo strumento privilegiato per l’analisi del pensiero. Questa posizione conduce a escludere gli animali dal regno degli esseri pensanti, ma lascia aperta la possibilità che essi abbiano forme semplici di pensiero, dei “proto-pensieri”… Un cambiamento di prospettiva lo si è registrato da quando alcuni etologi hanno puntato la propria attenzione verso classi di comportamenti che sembrano presupporre la presenza di stati mentali… Nel 1978 Premack e Woodruff ristrutturarono un esperimento svolto negli anni trenta del secolo precedente: Sarah, una scimpanzé molto addestrata viene posta di fronte a uno schermo televisivo. Dopo aver visto un videotape che mostra un essere umano impegnato a compiere una sequenza di atti, ad esempio saltare sotto una banana appesa al soffitto di una gabbia molto alta, deve scegliere tra due fotografie, una delle quali mostra il medesimo individuo con una sedia e l’altra che lo ritrae con un lungo bastone. La scimmia sceglie l’immagine dell’uomo con il lungo bastone. Il chiaro retroscena intenzionale del filmato e delle foto, l’attore vuole afferrare la banana ma non ci riesce, viene in un qualche senso colto anche da Sarah, la quale sceglie lo strumento che sarebbe più appropriato per soddisfare il desiderio dell’uomo nel filmato. La tesi di Premack e Woodruff è che Sarah risolve il compito perché attribuisce stati mentali all’agente del filmato, nello specifico desideri, il che evidenzierebbe la presenza di una teoria della mente nel primate stesso. Vale a dire, è in virtù del fatto che Sarah, in un qualche senso, applica ipotesi relative al funzionamento della mente che può capire e interpretare il comportamento dell’agente nel filmato e fornire la soluzione a quello che lei vede come il problema dell’attore. Secondo questi studiosi, dunque, non solo Sarah ha credenze e desideri suoi propri, ma ne ha anche relativi alle credenze e ai desideri degli altri… Dobbiamo, tuttavia, osservare che la conoscenza della mente altrui alla quale stiamo facendo riferimento non è di tipo teorico. Vale a dire, Sarah non ha, né è in grado di esplicitare, una teoria astratta sul funzionamento della mente in genere. Più semplicemente, Sarah, così come gli altri primati superiori, avrebbe una teoria ingenua implicita che le consentirebbe di prevedere e comprendere i comportamenti di individui agenti grazie alla sovrimposizione sui loro atti di una griglia interpretativa che si esplica nella postulazione di desideri, credenze, scopi, speranze e quant’altro… Uno dei principali problemi affrontati, sia nel caso degli animali che nel caso della nostra specie, è quello di capire in che modo questa teoria della mente viene realizzata a livello cognitivo. Vale a dire quali sono i meccanismi cognitivi (si noti, non neurali) che rendono possibile l’attività di questa teoria (sempre che quest’idea della teoria della mente verrà confermata). Le ipotesi che si sono fronteggiate, sino a qualche tempo fa, sono sostanzialmente due: da un lato troviamo la teoria della simulazione, dall’altro la teoria della teoria. Secondo la prima ipotesi, la teoria della mente funziona in virtù della proiezione empatica nei panni dell’agente osservato da parte di colui il quale deve compiere la previsione. Questo significa che la capacità predittiva basata sulla teoria della mente dipende da una capacità auto-predittiva: noi, ad esempio, prevediamo ciò che farà tizio mettendoci nei suoi panni e immaginando di agire in quelle condizioni… La teoria della teoria, di contro, prevede un modello più astratto in base al quale la capacità di prevedere il comportamento altrui emerge da una vera e propria teoria psicologica ingenua, anche detta “psicologia di senso comune” (folk-psycology), grazie alla quale si inferisce il comportamento più plausibile di un certo agente conoscendo le condizioni nelle quali si trova e date alcune massime o generalizzazioni empiriche accettate (anch’esse in modo implicito). Questa teoria immagina che l’individuo presenti una notevole capacità inferenziale e un sistema di estrazione delle similarità i quali lo mettono in grado di confrontare le condizioni iniziali nelle quali si trova l’individuo da prevedere e le varie condizioni presenti nel modello teorico così da poter giungere a fare ipotesi circa il futuro corso degli eventi, prevedendo così il comportamento.” (S.Gozzano, “La mente degli altri”, p.46-52)

“Alternativamente, possiamo concepire la ToM come lo stadio finale di un processo di sviluppo evolutivo, durante il quale diverse teorie scientifiche sul mondo e sui suoi abitanti sono messe alla prova, ed eventualmente abbandonate, per sceglierne di nuove che si dimostrino più efficaci (vedi l’ipotesi del “bambino come scienziato” di Gopnik e Melzoff [1997])… Entrambi gli approcci della teoria della teoria possono legittimamente essere considerati varianti del cognitivismo classico. Il cognitivismo classico, infatti, concepisce la mente come un sistema funzionale i cui processi possono essere descritti come manipolazioni di simboli informazionali, sulla base di una serie di regole sintattiche formali (vedi Fodor [1982]; Pylyshyn [1984])… Questi approcci, però, non sono in grado di spiegare le eccezionali capacità di consonanza sociale dimostrate dai bambini a un’età in cui la capacità di ascrivere atteggiamenti preposizionali non è ancora sviluppata… L’approccio simulazionista, al contrario, sembra più incline ad ammettere una continuità evolutiva tra comportamentismo e mentalismo…” (V.Gallese, “Neurofenomenologia”, p.312)

[32] Se la folk-psycology fosse una teoria attraverso cui spiegare il comportamento intenzionale facendo riferimento ai desideri e alle credenze del soggetto, noi dovremmo essere in grado di predire esattamente il comportamento di un soggetto sulla base dei suoi desideri e delle sue credenze formulati. Ma innumerevoli esperimenti rivelano che gli individui non agiscono coerentemente ai loro stati mentali intenzionali, e compiono azioni discordanti dai desideri e dalle credenze formulati. Tale osservazione ha spinto gli eliminativisti a mettere in dubbio l’esistenza di cose come credenze e desideri con contenuti determinati. A questo punto, però, il problema non è più legato all’esistenza o meno di credenze e desideri (anche se tutto è un’illusione, comunque illusione c’è !), ma alla radicata convinzione che all’ “avere  una credenza” corrisponda una “proprietà” rivelabile in qualche modo.

[33] Le riserve di Bitbol riguardo all’eliminativismo radicale di Dennett sono bene testimoniate dalle seguenti considerazioni dello stesso Dennett: “… Le emozioni giocano senza dubbio un ruolo fondamentale nelle vite degli esseri umani e costituiscono un elemento di estrema complessità nella comprensione dei meccanismi che determinano l’agire cosciente degli individui… Il mio obiettivo è proprio quello di cercare di comprendere la soggettività nella oggettività, dare una descrizione dei fenomeni soggettivi di “prima persona” dalla prospettiva scientifica della “terza persona”. Postulare speciali qualità interne, come la sofferenza o il piacere, che non sono solamente private e intrinsecamente preziose, ma anche non confermabili e non indagabili oggettivamente, sperimentalmente è solo oscurantismo. Ma in assenza di basi precise per attribuire la sofferenza, o per sospettare che tali basi precise siano per una ragione o per l’alta sistematicamente oscurate, dovremmo concludere che non c’è sofferenza. E concludere anche che non c’è coscienza di sè. La questione non è negare o meno l’esistenza della coscienza, della sofferenza o del piacere, bensì tentare di fondare una diversa prospettiva di indagine che si ponga l’obiettivo di fornire una descrizione scientifica di tali fenomeni… I fenomeni indicati dalla parola qualia (gli stati soggettivi quali la paura, il dolore, la gioia, le impressioni sensoriali) sono probabilmente fenomeni reali, ma non vengono compresi nè descritti con tale termine. Il problema diviene allora quello di fornire una nuova definizione teoretica dei qualia che sia consistente e coerente. Un’ipotesi potrebbe essere quella di paragonare i qualia agli atomi e sostenere che anch’essi, non sono semplici, ma complessi, che sono costituiti di particelle non accessibili all’introspezione, che non sono ineffabili o misteriosi. Partendo da una definizione di questo tipo, oggettiva e scientifica, potremmo cominciare a parlare anche dei qualia…” (Eddy Carli, 1997).

[34] A questo punto è importante distinguere tra Teoria della Simulazione e quella che il neurofisiologo Gallese chiama Simulazione Incarnata. Secondo la prima, “il processo di simulazione intrapreso dall’osservatore nell’atto di comprendere il comportamento altrui è il risultato di un suo deliberato atto di volontà. Il processo di simulazione incarnata è invece automatico in quanto obbligato, non conscio, e pre-dichiarativo… Ogni volta che ci troviamo di fronte al comportamento altrui, e tale comportamento richiede una risposta da parte nostra, sia essa reattiva o semplicemente attentiva, quasi mai ci vediamo coinvolti in un processo d’esplicita e deliberata interpretazione… Il nostro cervello è infatti dotato di neuroni- i neuroni specchio – localizzati nella corteccia premotoria e parietale posteriore, che si attivano sia quando compiamo un’azione che quando la vediamo eseguire dagli altri…Questo meccanismo instaura un legame diretto tra agente e osservatore, in quanto entrambi vengono mappati in modo, per così dire anonimo e neutrale. Il parametro agente è specificato, mentre non lo è il suo connotato specifico d’identità. I neuroni-specchio – originariamente scoperti nel cervello del macaco – mappano in modo costitutivo una relazione tra un agente e un oggetto: la semplice osservazione di un oggetto che non sia obiettivo di alcuna azione non evoca in essi alcuna risposta. E’ quindi esclusivamente la relazione agente-oggetto a evocare l’attivazione dei neuroni-specchio. Studi più recenti hanno dimostrato sia nel macaco che nell’uomo come lo stesso meccanismo sottenda anche l’osservazione/esecuzione di azioni comunicative bucco-facciali, come il lipsmacking, un gesto affiliativi caratteristico delle scimmie, o il parlare nel caso dell’uomo.” (Gallese, “Neurofenomenologia”, p.304-315)

[35] Non è forse quello che accade nel rapporto tra maestro e allievo, quando il primo deve aiutare il secondo a precisare ciò che ha bisogno di capire all’interno di un determinato percorso di ricerca?

[36] “Nella filosofia contemporanea, la distinzione della sfera del comprendere, da quella del conoscere razionale, è nata dall’esigenza di distinguere il procedimento esplicativo delle scienze morali o storiche da quello delle scienze naturali. Tale esigenza nacque dalla difficoltà di applicare la tecnica causale, propria della scienza naturale dell’800, al dominio degli eventi umani, quali sono i fatti storici, e in generale all’uomo e ai rapporti interumani. In base a quella tecnica, si ritiene come “razionalmente spiegato” ciò di cui si può mostrare la genesi causale necessaria, cioè di cui si può mostrare che accade in modo necessario o infallibilmente prevedibile quando ne è data la causa. Il carattere necessario della genesi causale, in quanto conforme a una legge immutabile, e il carattere di uniformità meccanica che gli eventi causalmente spiegabili assumono per effetto di tale legge, rendono assai difficile spiegare i fatti storici e in genere ogni fatto che consista in un rapporto con l’uomo. L’applicazione della tecnica causale a tali fatti implicherebbe la loro riduzione a casi di uniformità meccanica, dovuti all’azione di leggi necessitanti. Sicchè quando negli ultimi decenni del sec. XIX le scienze storiche, o, come allora si diceva, le “scienze dello spirito”, che che avevano ormai raggiunta una sufficiente saldezza di metodi e una grande ricchezza di risultati, cominciarono a proporsi il problema del loro metodo e cercarono di chiarirlo criticamente , apparve chiara l’esigenza di agganciare questo metodo a tecniche e procedure diverse da quelle in uso nelle scienze naturali. In tal senso il “comprendere” come procedura fu contrapposto allo “spiegare“, fondato sulla causalità e proprio delle scienze naturali. Il primo a formulare chiaramente questa distinzione fu Dilthey, il quale osservò che i nostri rapporti con la realtà umana sono completamente diversi dai nostri rapporti con la natura. La realtà umana, quale appare nel mondo storico sociale, è tale che noi possiamo comprenderla dal di dentro, perchè possiamo rappresentarcela sul fondamento dei nostri propri stati. La natura, al contrario è muta e rimane sempre qualcosa di esterno. Pertanto nelle scienze dello spirito, che hanno appunto per oggetto la realtà umana, il soggetto non si trova di fronte ad una realtà estranea, ma a se stessa, perchè uomo è colui che indaga e uomo colui che viene indagato. Ai filosofi Scheler e Heidegger si devono tuttavia le più importanti determinazioni della nozione del comprendere, che è stato da loro connesso con la vita emotiva. Così Scheler afferma che “l’esistenza dei sentimenti intimi degli altri, ci è rivelata dai fenomeni di espressione: cioè ne acquistiamo la conoscenza non in seguito a un ragionamento, ma in modo immediato, mediante una percezione originaria e primitiva”. Perciò non è vero che degli altri conosciamo in primo luogo il corpo e che solo a partire da esso inferiamo l’esistenza di altri spiriti … Le analisi di Scheler hanno contribuito a fissare i punti seguenti: 1° il comprendere non implica l’identità delle persone tra cui intercede o l’identità dei loro stati d’animo o sentimenti; implica piuttosto l’alterità fra le persone e tra i loro stati rispettivi; 2° la comprensione è fondata sul rapporto simbolico che esiste tra le esperienze interne e la loro espressione: rapporto che costituisce una specie di “grammatica universale”, valevole per tutti i linguaggi espressivi, la quale fornisce il criterio ultimo  della comprensione inter-umana. Heidegger aggiunge all’analisi di questo fenomeno una notazione d’importanza fondamentale, connettendolo con la nozione di possibiltà. Egli, difatti, considera la comprensione come essenziale all’esistenza umana (all‘Esserci) giacchè essa significa che l’esistenza è essenzialmente possibilità di essere, esistenza possibile. “Usiamo sovente l’espressione “comprendere qualcosa” nel senso di “essere in grado di far fronte a qualcosa”, “esser capace di”, “poter qualcosa” … Nella comprensione è riposto essenzialmente il modo d’essere dell’Esserci in quanto poter essere. L’esserci non è una semplice presenza che, aggiuntivamente, possegga il requisito di potere qualcosa, ma al contrario è primariamente un essere possibile”. Pertanto “la comprensione ha in sè la struttura esistenziale che noi chiamiamo progetto” (Essere e Tempo, § 31). Nell’analisi di Heidegger il comprendere non solo è stato generalizzato, perchè è stato reso applicabile alle cose oltrecchè alle persone; ma anche, con ciò stesso ha cessato di essere antagonista col concetto di spiegazione. Comprensione e spiegazione possono infatti essere identificate dalla nozione di possibilità ed essere entrambe intese come dichiarazione della “possibilità di …”: dove ciò che è lasciato in sospeso può essere riempito, nei diversi campi d’indagine, da diverse specie di progetti e previsioni. Ma questo avvicinamento veniva sancito dagli stessi sviluppi delle scienze della natura, che abbandonavano la nozione classica di causalità e pertanto si disancoravano dalla tecnica esplicativa causale. La fisica relativistica e la teoria dei quanti compivano il passo decisivo verso l’eliminazione dell’antitesi tra spiegazione e comprensione. Come nota Carnap, nella meccanica quantistica “comprendere un’espressione, un enunciato, una teoria, significa la capacità di usarla per la descrizione di fatti noti o per la previsione di fatti nuovi” (Foundations of Logic and Mathemathics, 1939, § 25). La “capacità di” è dunque ciò che esprime il significato della comprensione nella fisica stessa. Ma la possibilità della previsione probabile è anche tutto ciò cui si riduce oggi la spiegazione scientifica. In tal modo la differenza radicale che sembrava stabilita saldamente dalla metodologia scientifica dell’800 tra scienza dello spirito e scienza della natura, è venuta a sparire. Ciò che questi due gruppi di discipline cercano di fare, nei confronti dei loro oggetti rispettivi, è fondamentalmente la stessa cosa: determinare le possibilità di derscrizione o di anticipazione (progettazione, uso, fruizione) che i loro oggetti comportano. (Abbagnano, “Dizionario di Filosofia”).

[37] “Se negli Erlebnisse cogliamo la realtà della vita nella molteplicità dei suoi rapporti, ciò ci appare, in questa prospettiva, sempre soltanto come qualcosa di singolare, come la nostra propria vita, della quale siamo consapevoli nell’Erleben. Esso rimane un sapere relativo a qualcosa di singolo, e nessuno strumento logico può superare la limitazione alla singolarità contenuta nella forma di esperienza dell’erleben. Soltanto la comprensione toglie la limitazione dell’Erlebnis individuale, come d’altro lato conferisce agli erlebnisse personali il carattere di esperienza della vita. Estendendosi a più uomini, a varie creazioni spirituali e a varie comunità, essa allarga l’orizzonte della vita individuale e apre nelle scienze dello spirito il cammino che reca, attraverso ciò che è comune, all’universale. La comprensione reciproca ci assicura del rapporto di comunanza. Questa comunanza si manifesta nell’identità della ragione, nella simpatia presente nella vita affettiva, nell’obbligazione reciproca del dovere e del diritto, accompagnata dalla coscienza del dover essere. La comunanza delle unità viventi è il punto di partenza di tutte le relazioni tra particolare e universale nelle scienze dello spirito. Una tale esperienza fondamentale  della comunanza attraversa l’intero apprendimento del mondo spirituale, e in essa la coscienza dell’io unitario e la coscienza dell’omogeneità con gli altri, l’identità della natura umana e l’individualità sono collegate tra loro. Essa costituisce il presupposto della comprensione. Dall’interpretazione elementare, che richiede soltanto la conoscenza del significato delle parole e delle regolarità con cui esse sono legate in proposizioni dotate di senso, e quindi la comunanza del linguaggio e del pensare, l’ambito di ciò che è comune si estende continuamente, rendendo possibile il processo di comprensione nella misura in cui il suo oggetto è costituito da nessi superiori di espressione della vita … Ogni manifestazione particolare della vita rappresenta un elemento comune. Ogni parola, ogni proposizione, ogni gesto e ogni formula di cortesia, ogni opera d’arte e ogni impresa storica sono comprensibili in quanto un rapporto di comunanza unisce chi in essi si esprime con il soggetto comprendente; l’individuo vive, pensa e agisce di continuo in una sfera di comunanza, e solo in questa può comprendere…. non c’è nulla che non contenga un rapporto vitale dell’io … però la situazione dell’io muta continuamente secondo il rapporto che le cose e gli uomini hanno con esso. Non esiste nessun uomo e nessuna cosa che siano soltanto oggetti per me, e che non racchiudano una pressione o un vantaggio, il fine di una tendenza o un legame della volontà, un’importanza, un’esigenza di presa in considerazione, una vicinanza interna o una resitenza, una distanza e un’estraneità. Il rapporto vitale, sia esso limitato a un dato momento oppure durevole, fa sì che questi uomini e questi oggetti mi rechino felicità, amplino la mia esistenza, accrescano la mia forza, oppure vengano a limitare in questo rapporto lo spazio della mia esistenza, a esercitare una pressione su di me, a diminuire la mia forza. E ai predicati che le cose acquistano soltanto nel rapporto vitale con me corrisponde il mutare degli stati in me stesso che ne scaturisce. Su questo sfondo della vita emergono poi come tipi di atteggiamento, in innumerevoli sfumature che trapassano l’una nell’alta, l’apprendere oggettuale, la valutazione, la posizione di scopi … L’apprendere oggettuale costituisce un sistema di relazioni nel quale sono contenuti percezioni ed erlabnisse, rappresentazioni del ricordo, giudizi, concetti, inferenze, insieme alle loro forme composte … L’apprendere oggettuale scorre nel tempo, e così in esso sono già contenute immagini rammemorate. E dato che con l’andar del tempo ciò che è immediatamente vissuto aumenta continuamente e si ritira sempre più sullo sfondo, sorge il ricordo del corso della propria vita. Parimenti si formano, sulla base della comprensione di altre persone, ricordi dei loro stati e immagini dell’esistenza delle diverse situazioni. E in tutti questi ricordi lo stato d’animo è sempre collegato con il suo ambiente di contenuti di fatto, di avvenimenti e di persone. Dalla generalizzazione di ciò che si presenta così insieme si costituisce l’esperienza della vita dell’individuo. Essa sorge in forme di procedimento che sono equivalenti a quelle dell’induzione. Il numero dei casi, in base ai quali questa induzione conclude, cresce di continuo nel corso della vita; e le generalizzazioni che si formano vengono continuamente corrette. La sicurezza che spetta all’esperienza personale della vita è distinta dalla validità universale di tipo scientifico: infatti queste generalizzazioni non sono compiute metodicamente, e non possono venir tradotte in forme rigorose. Il punto di vista individuale, che inerisce all’esperienza personale della vita, si corregge e si amplia nell’esperienza generale della vita. (W. Dilthey, “Scritti Filosofici 1905-1911”, UTET).

[38] Storicamente questa concezione del comprendere ha le sue radici in una innovazione della dottrina del Finalismo, dovuta a Kant. La dottrina del Finalismo ammette la causalità del fine, nel senso che il fine sia la causa totale dell’organizzazione del mondo e la causa dei singoli eventi. La dottrina implica due tesi: 1° il mondo è organizzato in vista di un fine; 2° la spiegazione di ogni evento del mondo consiste nell’addurre il fine cui l’evento è diretto. L’interpretazione kantiana nega la tesi 2° , cioè quella per la quale spiegare un fenomeno significa addurre lo scopo. Per Kant, la spiegazione dei fenomeni può essere soltanto causale; ed il giudizio teleologico (finalistico) è riflettente non determinante, cioè coglie, non un elemento costitutivo delle cose, ma un modo soggettivo, per quanto inevitabile per l’uomo, di rappresentarsele. Il finalismo, quindi, non è che un concetto regolativo dell’uso dell’intelletto umano; uso opportuno e necessario per il fatto che l’intelletto umano incontra limiti ben precisi nella spiegazione meccanica del mondo ed è perciò portato a ricorrere ad una considerazione complementare (scopo, ragioni). Questa dicotomia tra spiegazione e comprensione origina dall’assunzione (conseguente alla struttura bi-polare dell’esperienza) che il mondo sia un sorta di teatro in cui il palcoscenico è fatto di cose-in-sè interconnesse, viste attraverso dei filtri dai soggetti componenti la platea. Il problema è ulteriormente aggravato dal fatto che i soggetti nel prendere in considerazione se stessi si vedono come delle cose là  presenti sul palcoscenico, saltando letteralmente l’esperienza in prima persona, non prendendo più in considerazione i significati delle emozioni, e vedendo quest’ultime come proprietà da rilevare sperimentalmente. Kant ci ha permesso di recuperare le modalità strutturali e imprescindibili del nostro esperire teoretico, ma solo con Heidegger è stato possibile riportare in luce l’esperienzia umana nella sua totalità: “In quanto comportamenti dell’uomo, le scienze hanno il modo di essere di questo ente (l’uomo). Questo ente è da noi designato col termine Esserci. L’indagine scientifica non è nè l’unico nè il più immediato dei modi possibili di essere di questo ente. L’Esserci è inoltre del tutto singolare rispetto agli altri enti… L’Esserci non è soltanto un ente che si presenta fra altri enti. Onticamente, esso è piuttosto caratterizzato dal fatto che, per questo ente, nel suo essere, ne va di questo essere stesso. La costituzione d’essere dell’Esserci implica allora che l’Esserci, nel suo essere, abbia una relazione d’essere col proprio essere. Il che di nuovo significa: l’Esserci, in qualche modo e più o meno esplicitamente, si comprende nel suo essere” (Essere e Tempo, p.28).    Mi sembra che questa concezione del comprendere consideri in un sol colpo d’occhio tutti gli aspetti in cui si articola l’esperienza umana situata, che nella storia della filosofia sono stati considerati e sviluppati separatamente: modalità del conoscere, intenzionalità, tonalità emotive fondamentali, credenze, convinzioni, assunzioni, aspettative, senso. Questi modi, in quanto caratteristici dell’esperienza del singolo, possono essere colti solo attraverso uno sguardo fenomenologico e, in quanto sentiti, non possono assolutamente essere ridotti a proprietà, funzioni o parametri misurabili, come pretenderebbero i riduzionisti. E’ importante tener presente che ogni scienziato nel progettare un esperimento, nell’eseguirlo e nel costruirsi un modello del fenomeno studiato è sempre coinvolto emozionalmente. Non esiste esperienza neutra; l’esperienza è fatta di sapere e di sentire, ed è attraversata da aspettative e da atteggiamenti che la condizionano. Dice Heidegger: “… Ma anche la teoria più pura non è del tutto scevra di tonalità emotiva; la semplice- presenza si rivela alla contemplazione teoretica solo se questa affronta il proprio oggetto in modo imperturbato. Sarà opportuno osservare che questo riconoscimento ontologico-esistenziale del profondo radicarsi delle determinazioni gnoseologiche nella situazione affettiva dell’essere-nel-mondo non va confusa col tentativo di abbandonare onticamente la scienza al sentimento”. L’atteggiamento oggettivante e manipolante, è appunto una delle modalità del conoscere messe in atto da un soggetto situato, che estrae dall’esperienza delle invarianti grazie alle quali imbastire una spiegazione di una porzione della realtà, guidato da un interesse ben preciso, e supponendo (consciamente o inconsciamente) che le proprie azioni siano vincolate da leggi causali. Come ha ben  messo in luce Heidegger, e come è da millenni riconosciuto e indagato nel Buddismo, ogni atteggiamento è frutto di una spinta profonda, caratterizzata dal bisogno di controllo, “provocato” dal fatto che “la tonalità emotiva porta l’Esserci dinanzi al “che” del suo “Ci”, che gli sta di fronte come un enigma impenetrabile” (Essere e Tempo, p.174).

[39] “Noi ci atteggiamo di fronte alla vita, tanto alla propria quanto a quella altrui, in modo da comprenderla. E questo atteggiamento si compie attraverso categorie sue proprie, le quali sono estranee alla conoscenza naturale in quanto tale. Quando la conoscenza naturale ha bisogno del concetto di scopo per i primi gradi della vita umana nel mondo organico, essa trae questa categoria dalla vita umana. Le categorie formali sono espressioni astratte che indicano i procedimenti logici della distinzione, dell’identità, dell’apprendimento dei gradi della distinzione, del collegamento e della separazione. Esse sono per così dire un esperire di grado superiore, che constata soltanto ma non costruisce a priori. Esse si presentano già nel nostro pensiero primario e si fanno quindi valere egualmente nel nostro pensiero discorsivo, vincolato a segni, soltanto a un grado più alto. Esse sono le condizioni formali tanto della comprensione quanto del conoscere, sia delle scienze dello spirito sia delle scienze della natura. Le categorie reali non sono mai però, nelle scienze dello spirito, le medesime che si trovano nelle scienze della natura. Nel mondo storico non c’è alcuna causalità in senso naturalistico, poichè una causa intesa nel senso di questa causalità comporta il fatto di produrre necessariamente effetti secondo leggi; mentre la storia conosce soltanto rapporti del fare e del patire, di azione e di reazione.” ( W. Dilthey, “Scritti Filosofici 1905-1911”, UTET).

“Dal punto di vista di una trasformazione pragmatico-trascendentale della teoria kantiana della conoscenza, si può affermare che la costituzione della natura oggettiva nel senso della fisica – o meglio, della proto-fisica – oltre alle forme dell’intuizione e alle categorie dell’intelletto presuppone inoltre anche un determinato interesse interrogativo che orienta la conoscenza, e corrispondentemente una determinata forma dell’intervenire concreto nel mondo nel senso del “postare” (Stellen) della tecnica, per esempio del misurare … Io stesso riallacciandomi a G.H. Von Wright, vorrei sottolineare in modo particolare che la nostra aspettativa proto-fisica di rapporti causali e necessari fra accadimenti, presuppone già sempre la certezza da parte nostra che, attraverso un intervento attivo nella natura, noi possiamo provocare qualcosa che senza tale intervento non potrebbe aver luogo.” (K.-O. Apel, 1988).

[40] “Osserviamo il comportamento degli altri individui, e nella maggior parte dei casi comprendiamo cosa stiano facendo o stiano per fare. Il punto cruciale consiste nel chiarire che cosa si debba intendere con il termine “comprensione”. E’ l’oggetto del comprendere, però, che definisce la qualità di questa comprensione e le sue modalità di strutturazione. Il punto è che il comportamento altrui non costituisce un datum oggettivo. Se accettassimo questo postulato, dovremmo coerentemente ammettere che, per rappresentare una realtà esterna e oggettiva, la nostra mente dovrebbe operare secondo i rigidi dettati della razionalità logico-inferenziale. Secondo quest’accezione, per così dire disincarnata, della mente umana, le intenzioni mentali dovrebbero essere interpretate utilizzando esclusivamente gli strumenti cognitivi della mente simbolico-rappresentazionale. Ma le cose stanno differentemente. La realtà è oggettiva solo in senso ristretto: lo è in quanto costituita dalla concorde molteplicità di soggetti che la rappresentano. La realtà oggettiva in senso pieno, cioè in virtù del suo essere totalmente svincolata dalla comunità dei soggetti, è come tale del tutto inconoscibile.” (Gallese, “Neurofenomenologia”, p.313-314).

[41] “Due grandezze fisiche sono complementari se non è possibile, nemmeno in linea di principio, costruire un apparecchio che le possa determinare entrambe contemporaneamente. Dal punto di vista dell’informazione, la complementarità può essere interpretata così: due grandezze sono complementari se non possono essere disponibili allo stesso tempo informazioni precise su entrambe. Heisenberg ha dimostrato questa tesi inizialmente per le due grandezze “posizione” e “velocità” e il suo “principio di indeterminazione” non dice altro che questo: se si vuole conoscere la posizione esatta di una particella non si può conoscere con precisione la sua velocità e viceversa…Per Bohr la complementarità era uno dei concetti più profondi utilizzabili nella nostra descrizione della natura, tanto che cercò di applicarla anche in ambiti non legati alla fisica, come per esempio alla “verità” e alla “chiarezza” di un’espressione, e ai sistemi viventi (A. Zeilinger, “Il velo di Einstein”, p. 43, 156).

[42] “… Nel senso di una tesi di complementarità, posso qui rifarmi tanto al restringimento del concetto di logos nella tradizione della semantica logica, quanto alla corrispondente unilateralità della relazione tecnico-scientifica fra soggetto e oggetto. In entrambi i casi la ragione della critica non sta per nulla nel fatto che, nell’interesse della rappresentazione logico-semantica – vale a dire del controllo nomologico e tecnologico di ciò che accade o che, presumibilmente, accadrà – si è fatta sempre pìù coerentemente astrazione dalle dimensioni soggettive-intersoggettive del mondo e del dialogo; la ragione della critica sta piuttosto nel fatto che non si è riflettuto in modo filosoficamente radicale sulla particolarità e sulla portata di tale astrazione, ma invece, al contrario, o si sono dimenticate quelle dimensioni, dopo averle rimosse, oppure esse furono comprese soltanto come non ancora oggettivate, e cioè in quanto tema potenziale di un’oggettivazione ancora da fare e corrispondentemente al controllo-scientifico. In questo senso, per esempio, lo scientismo post-cartesiano poteva partire a priori dal fatto che, in una riflessione radicale, fosse possibile in linea di princiopio mettere avalutativamente a distanza – come oggetto della conoscenza – non solo ciò che finora è stato controllabile e rappresentato, ma il mondo tout court, e cioè anche se stessi e gli altri. Non ci si accorse più che anche il più radicale distanziamento cognitivo del mondo, nel senso della relazione soggetto-oggetto, deve pur sempre presupporre una comprensione linguistica di sè e del mondo, e quindi anche la relazione – complementare a quella soggetto-oggetto – fra soggetto e co-soggetto dell’intesa comunicatva; anche presupponendo una totale oggettivazione del mondo – dunque in quanto solu ipse – ogni singolo poteva invece credere di essere ancor sempre nella condizione di poter conoscere qualcosa in quanto qualcosa. A mio avviso proprio questo assunto metodico-solipsistico del soggetto conoscente cartesiano è il fondamento dell’incapacità scientistica di conoscere i presupposti ermeneutici delle scienze naturali e della tecnica, e, in tal senso, la funzione complementare della disposizione metodica delle scienze ermeneutiche come scienze della comunicazione. Ma essa rappresenta, inoltre, anche il fondamento dell’idea post-humeana che il soggetto conoscente, una volta compiuta la messa a distanza del mondo, debba dedurre dai fatti avalutativamente oggettivati le norme dell’etica, sempre che, in generale, si dia qualcosa di simile. In merito a ciò la tesi della complementarità può far presente la seguente circostanza: anche lo scienziato della natura, il quale, nel quadro del proprio logos, trasforma il mondo in oggetto di una spiegazione fattuale, neutrale rispetto ai valori, dev’essere nello stesso tempo un membro di una comunità della comunicazione, egli deve già sempre aver riconosciuto determinate norme morali – come quella della formazione non violenta del consenso fra aventi gli stessi diritti. In altre parole: il logos della tecnica e della scienza della natura, neutrali rispetto ai valori, presuppone il logos ermeneutico della comunicazione intersoggettiva e, contemporaneamente a esso, anche il logos di un’etica della comunità di coloro che cercano la verità. La complementarità delle forme di logos consiste nel fatto che esse si differenziano e si integrano in maniera tale da non risultare – nemmeno in un possibile futuro – riducibili l’una all’altra, ma dipendono l’una dall’altra.” (K.-O. Apel, 1988).

[43] La posizione di K.-O. Apel si inserisce nella tendenza attualmente vigente in filosofia, in sociologia, nell’epistemologia, e in alcune indirizzi della scienza della mente, a considerare come sistema di riferimento universale la comprensione intersoggettiva nel linguaggio. Apel, “trovando in Peirce argomenti diversi ma complementari contro il mentalismo cartesiano e il solipsismo metodologico, argomenti a favore della supposizione di un processo indefinito transindividuale di pensiero in quanto inferenza e interpretazione di segni, e combinandoli con la “semantica realistica” entro il contesto di una semiotica trascendentale”, tenta di “delineare una teoria della verità come consenso che sia criteriologicamente rilevante (in contrasto con la teoria della corrispondenza di natura metafisica e con quella di natura logico-semantica) per via della sua capacità di tenere conto (bilanciando criticamente l’uno con l’altro entro l’orizzonte della sintesi regolativa dell’interpretazione) di tutti i criteri di verità disponibili – come per esempio evidenza, coerenza, prevedibile fecondità – che, presi da soli, non sono mai sufficienti” (Apel, 1997). A questo punto ci troviamo di fronte a un serio problema: come e chi può stabilire i criteri di una verità come consenso? Li dobbiamo assumere con una sorta di atto di fede? O li dobbiamo in qualche modo giustificare? Se prendiamo la seconda strada cadiamo in un circolo, perchè dobbiamo presupporre ciò che ci proponiamo di dimostrare. Dal punto di vista delle “regole della logica il circolo è un circolo vizioso e si mira ad evitarlo o semplicemente lo si “sente” come un’irrimediabile imperfezione. Ma questo significa fraintendere la comprensione da capo a fondo. Non è il caso di modellare comprensione e interpretazione su un particolare ideale conoscitivo… L’importante non sta nell’uscir fuori del circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta. Il circolo della comprensione non è un semplice cerchio in cui si muova qualsiasi forma di conoscere, ma l’espressione della pre-struttura propria dell’Esserci stesso” (Essere e Tempo, p.193-195). Ora, qual’è la maniera giusta di stare dentro il circolo? Che non consista proprio nello starsi ponendo questa stessa domanda? La questione del circolo è un problema fintanto che la si affronta con un atteggiamento oggettivante. Ma la si può affrontare dalla prima-persona, ovvero si tratta di “sentirselo addosso” (il circolo), perchè in un certo senso lo siamo (lo incarniamo). Del resto come prescindere dall’esperienza. Dal punto di vista irrinunciabile della prima-persona il problema (del circolo) si dissolve, ma il circolo resta e “in esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario”… Che cosa potrà mai essere questo conoscere più originario, dal momento che il circolo non è un contenuto ma è ciò in cui ogni contenuto cade?

[44] “E’ possibile, per esempio, porre la comprensione di ragioni come strumento euristico al servizio della spiegazione causale (e quindi della predizione), come viene fatto nelle cosidette behavioral sciences, che sono guidate da un interesse di tecnologia sociale; ma anche è possibile procedere nel modo opposto e mediare la “comprensione profonda” dei moventi umani attraverso fasi della ricerca che spiegano in modo quasi causale, come viene fatto in psicanalisi e nella critica sociologica dell’ideologia (entrambe alla ricerca di moventi che, essendo virtualmente comprensibili ma inconsci per gli agenti, possono esercitare effetti compulsivi su di loro).” (Apel, 1997).

[45] Vedi il concetto di complementarità e il problema della misura in Fisica Quantistica. “Lo sperimentatore può scegliere quale osservare tra due grandezze complementari, semplicemente scegliendo tra due strumenti di misura. Il punto fondamentale è che nessuna grandezza fisica, prima di essere misurata, ha un valore ben definito”. Questo implica che non è lecito sostenere che esistano particelle in “attesa” di essere rilevate. “Non ha senso parlare di cose di cui non abbiamo prove dirette”. Dice Bohr: “Nessun fenomeno è un fenomeno finchè non è un fenomeno osservato”. “Senza l’osservazione, quindi, i fenomeni non esistono. In ultima analisi questo significa che per noi non c’è alcun problema finchè ci concentriamo solo sugli avvenimenti che vengono osservati. Questi evidentemente sono indipendenti dal modo in cui li possiamo, o vogliamo, intendere. Il problema si presenta solo quando ci vogliamo creare un quadro della situazione: lo possiamo fare, nei casi appena discussi, solo a posteriori”. (Zeilinger, p.188). Scriveva Bohr in un saggio del 1929: “Il problema epistemologico in discussione può essere caratterizzato brevemente nel modo seguente. La descrizione della nostra attività mentale richiede da una parte un contenuto oggettivamente dato, contrapposto a un soggetto percipiente, mentre, dall’altro canto, com’è già implicito in tale asserzione, una netta separazione tra oggetto e soggetto non può essere sostenuta in quanto anche quest’ultimo appartiene al nostro contenuto mentale. Da ciò segue non solo il significato relativo di ogni concetto, – meglio, di ogni parola, – che viene a dipendere dall’arbitrarietà del punto di vista, ma altresì che noi dobbiamo, in generale, essere preparati ad accertare il fatto che una spiegazione completa di una stessa questione possa richiedere diversi punti di vista che non ammettono una descrizione unitaria. Infatti, strettamente parlando, l’analisi consapevole di un qualunque concetto si trova in relazione di esclusione con la sua applicazione immediata.” (Niels Bohr, “I quanti e la vita”, p.6-7).

[46] “Nella sua opera autorevole, e giustamente apprezzata, che porta il titolo La struttura delle rivoluzioni scientifiche, T.S. Kuhn sostiene che il lavoro scientifico ordinario viene svolto all’interno di un’intelaiatura costituita da ciò che egli chiama paradigmi. La struttura paradigmatica accettata determina quali problemi la ricerca scientifica si possa porre, e insieme l’area delle possibili soluzioni. In seguito, anche a causa della crescita del corpo della conoscenza scientifica, questi modelli tendono a logorarsi, a non essere più adatti alla loro funzione. Le rivoluzioni scientifiche consistono nel rovesciamento dei paradigmi accettati e nell’introduzione di nuovi paradigmi.” (Von Wright, 1982).

[47] to enact: “mettere in scena”; “Nella teoria di Varela la conoscenza pre-mentale sorge da una rete, non una rete di neuroni bensì di micro-esperienze, le azioni e percezioni del corpo che egli chiama atti incarnati. Questo emergere è un “mettere in scena” (to enact) e per questo Varela la chiama enazione. Da esperto delle teorie del connessionismo e delle reti neurali, Varela ha colto la somiglianza con la teoria della rete di relazioni da cui il buddismo fa emergere tutta la realtà, e che viene chiamata co-produzione condizionata: ogni cosa è dipendente (pratitya) da cause di diversa origine (samut-pada); dalla rete di cause emergono – o meglio prendono sostanza – mente, sensazioni, gradimenti, attaccamenti e mondi: costrutti che appaiono reali ma di fatto sono privi di una sostanza e un significato indipendenti.” (F.Bertossa, R.Ferrari, “Lo sguardo senza occhio”, p.135).