I paradossi sono ragionamenti che conducono a conclusioni contrarie al senso comune o a vere e proprie contraddizioni[1] e sono stati utilizzati come strumenti dimostrativi fin dalle origini della filosofia.

Zenone di Elea, vissuto nel V secolo a.C., utilizza paradossi per dimostrare le tesi del suo maestro Parmenide. Il suo più celebre è quello di Achille e la tartaruga: Achille, il guerriero più veloce, e la tartaruga, l’animale più lento, si sfidano in una gara e la tartaruga parte con un po’ di vantaggio su Achille; riuscirà Achille a raggiungere la tartaruga? Zenone propone il seguente ragionamento: se la tartaruga si trova nel punto A, quando Achille raggiunge A, la tartaruga si è nel frattempo spostata in un successivo punto A1; quando Achille raggiunge A1 la tartaruga si è spostata un po’ più in avanti nel punto A2, e così via. Achille si avvicina sempre di più alla tartaruga, ma sembra impiegare un tempo infinito per raggiungerla, per quanto veloce egli vada. Chiaramente la conclusione contraddice il senso comune, ma il ragionamento appare rigoroso, e quindi deve essere il senso comune a sbagliare: il movimento è solo apparenza, ciò che c’è è ingenerato, indistruttibile, immutabile, e indipendente dal tempo e dallo spazio, come sosteneva Parmenide[2].

In tempi più recenti Betrand Russell ha usato una antinomia per demolire definitivamente la definizione ingenua di insieme proposta da Georg Cantor, secondo la quale un insieme è una qualsiasi collezione di oggetti che condividono una determinata proprietà.

L’argomento di Russell, in una versione ironica, riguarda il barbiere che rade tutti e soli gli uomini del suo paese che non si radono da sé. Chi rade il barbiere? Non può radere se stesso poiché non rade chi si rade da sé; se, invece, non si rade, allora dovrebbe radersi poiché egli rade chi non si rade da sé. La situazione è, appunto, paradossale e imbarazzante: il barbiere non potrebbe né radersi, né non radersi.

Un altra storia che esprime il paradosso di Russell è quella del catalogo impossibile: supponiamo che ogni biblioteca sufficientemente grande pubblichi il catalogo dei libri che possiede; poiché lo stesso catalogo è un libro, ci sono due possibilità: o il catalogo è presente, oppure non è presente nell’elenco dei libri della biblioteca che si trovano nel catalogo stesso. Nel primo caso diremo che il catalogo contiene se stesso, nel secondo caso che il catalogo non contiene se stesso. Consideriamo ora tutti i cataloghi che non contengono se stessi e costruiamo, con i loro titoli, un catalogo dei cataloghi: una sorta di meta-catalogo che contiene i titoli dei cataloghi che non contengono se stessi. Il meta-catalogo contiene o non contiene se stesso? Se contenesse se stesso ci sarebbe una contraddizione, poiché il meta-catalogo contiene solo cataloghi che contengono se stessi; se non contenesse se stesso ci sarebbe lo stesso una contraddizione perché, per lo stesso motivo, dovrebbe contenerlo. Ne segue che è impossibile costruire un catalogo dei cataloghi che ha queste caratteristiche[3].

L’antinomia di Russell evidenzia comunque una contraddizione, che mostra l’inadeguatezza del concetto di insieme così come è pensato ingenuamente. Per evitare questo paradosso la moderna teoria degli insiemi comprende l’assioma di fondazione che afferma che ogni insieme non vuoto contiene almeno un insieme che non ha elementi in comune con l’insieme dato.

In questo modo si evita di costruire insiemi che contengono se stessi; infatti, supponiamo che un insieme A contenga se stesso; allora si può sempre costruire un insieme B che contiene A come unico elemento, e B conterrà l’insieme A che è comune sia ad A che a B, contraddicendo, quindi, l’assioma di fondazione.

Un’altra celebre antinomia è quella di Richard, alla quale fa riferimento anche Gödel nel suo articolo sull’incompletezza, sul quale poi torneremo. Secondo il ragionamento di Richard, esistono frasi in italiano che definiscono in modo univoco un numero reale; ad esempio: “il numero il cui quadrato è due” (formata da 7 parole); oppure: “il numero che ha come parte intera cinque e le sue cifre decimali sono tutte uguali a due” (formata da 18 parole). Altre frasi, chiaramente, non definiscono alcun numero, come ad esempio “Roma è la capitale dell’Italia”.

Tutte le frasi che nella lingua italiana definiscono un numero possono essere ordinate secondo il numero di parole che le compongono e poi secondo un ordine alfabetico; si può costruire, quindi, un insieme R composto dalle frasi r1, r2, r3, …, che contiene tutte le frasi che definiscono un numero. Si può, a questo punto, definire un ulteriore numero reale tramite la frase “il numero che ha come parte intera zero e come decimale n-simo il decimale n-simo del numero rn aumentato di 1”. In altri termini il numero reale definito da questa frase ha almeno un numero decimale diverso da ogni numero dell’insieme R, e quindi è diverso da ogni numero di R. Ma questa è una contraddizione, poiché in R avevamo messo tutti i numeri reali definiti da una frase.

Questo paradosso evidenzia la presenza di un errore nel ragionamento che abbiamo proposto; l’errore consiste nel supporre che sia possibile determinare in modo non ambiguo se una frase in italiano definisca un numero reale o meno. Cioè non c’è modo di descrivere, con un numero finito di termini, i criteri per stabilire se una frase in italiano definisca o non definisca un numero reale[4].

Il modo in cui la contraddizione è stata costruita ricorda il procedimento diagonale di Cantor, con il quale si dimostra che i numeri razionali (le frazioni) sono tanti quanti i numeri naturali (cioè i numeri razionali si possono contare), mentre i numeri reali sono più di quelli naturali.

In altri termini, esistono diversi ordini di infinito: l’infinito dei numeri naturali e dei numeri razionali, che è un infinito “più piccolo”, e l’infinito dei numeri reali, che è un infinito “più grande”. Il risultato di Cantor va contro ogni intuizione, perché le frazioni sembrano essere molte di più dei naturali, e non è facile pensare a una scala di infiniti; ma è ciò che si ottiene con un’analisi rigorosa del concetto di infinito.

Un’altra geniale applicazione del metodo diagonale è quello che è considerato forse il più importante risultato della logica matematica del secolo scorso: il primo teorema di incompletezza di Gödel. Un sistema logico formale rappresenta un modo per esprimere rigorosamente le proposizioni della matematica, tramite una serie di simboli e regole ben chiare per combinare questi simboli e per interpretarli. Uno dei problemi che emersero all’inizio del ‘900 riguardava la completezza di un sistema formale: data una qualsiasi proposizione dell’aritmetica, un sistema formale può comunque dimostrarne la sua verità o falsità?[5] Gödel nel 1931 dimostrò che si possono costruire proposizioni dell’aritmetica che sono indecidibili nel sistema formale, delle quali, cioè, non si può dimostrare né la falsità né la verità. Una delle conseguenze di questo teorema è che l’aritmetica non può essere ridotta a formalismo: il formalismo non riesce a cogliere l’aritmetica, e quindi neanche la matematica, nella sua interezza; si dimostra, così, che in qualche senso la matematica è qualcosa di più del formalismo che la esprime.

Hofstadter esprime questo risultato con una immagine suggestiva[6]; supponiamo che:

  • un grammofono corrisponda al sistema formale,
  • un disco corrisponda a una proposizione dell’aritmetica,
  • un disco suonabile corrisponda a una proposizione che si può dimostrare
  • un disco non suonabile corrisponda a una proposizione che non si può dimostrare.

Quindi una proposizione che il sistema formale riesce a dimostrare corrisponde a un disco che il grammofono riesce a suonare.

Gödel nella sua dimostrazione riesce a costruire, all’interno del sistema formale, una proposizione G il cui significato è “G non è dimostrabile”, cioè “questa proposizione non è dimostrabile”, dove questa è la stessa proposizione che lo afferma; quindi G dice di se stessa che non è dimostrabile e se il sistema formale riuscisse a dimostrarla allora sarebbe contraddittorio, poiché dimostrerebbe una proposizione che afferma la propria non dimostrabilità. Ne segue che affinché il sistema formale non sia contraddittorio non può dimostrare G. Ma non può essere dimostrata neanche non-G; infatti il significato di non-G è che non è vero che G non è dimostrabile, e quindi che G è dimostrabile, ma abbiamo visto che ciò è falso, e il sistema formale non può dimostrare una proposizione che è falsa.

Nella metafora del grammofono, la proposizione G corrisponde a un disco che ha la proprietà, quando è suonato, di emettere suoni che mettono in vibrazione il grammofono fino a distruggerlo; in questo modo il grammofono non riuscirà mai a suonare questo disco.

Osserviamo che uno degli elementi più interessanti che caratterizzano la proposizione di Gödel è l’autoreferenza; quando una relazione transitiva diventa autoreferenziale, accadono cambiamenti che possono modificare radicalmente il senso della relazione. Nelle parole di Hofstadter:

un oggetto ha con se stesso una relazione specialissima e unica, che limita la sua capacità di agire su di sé nello stesso modo in cui può agire su tutti gli altri oggetti. Una matita non può scrivere su di sé; uno scacciamosche non può colpire una mosca posata sul suo manico […]; un serpente non può mangiare se stesso; e così via.[7]

È semplice pensare una forbice che taglia un foglio di carta, diventa imbarazzante pensare una forbice che taglia se stessa. Un martello pianta chiodi su pezzi di legno, ma sarebbe piuttosto strano un martello che piantasse chiodi su se stesso (v. figura 1).

Figura 1: Il martello di Malcom Fowler che inchioda se stesso (da Hughes P. e Brecht G., Vicious Circles and Infinity: An Anthology of Paradoxes).

In un bizzarro racconto di Christopher Cherniak[8] si narra di un ricercatore in intelligenza artificiale; egli trova una proposizione che ha sulla mente umana un effetto simile a quello che ha la proposizione G su un sistema formale: la mette in stallo. Rispetto alla proposizione G il sistema formale rimane indeciso, poiché non può dimostrare né G né la sua negazione; analogamente, nel racconto il ricercatore che legge questa misteriosa proposizione cade in uno stato di trance che lo porta a morire per inedia. Il fatto interessante è che chiunque incontri questa proposizione, che viene chiamata significativamente “l’Enigma”, ne rimane influenzato e cade in coma. L’Enigma si comporta analogamente al disco che non può essere suonato, o alla proposizione G che non può essere dimostrata; l’Enigma non può essere compreso poiché appena lo si coglie, la mente che dovrebbe comprenderlo rimane paralizzata.

Chiaramente si può discutere se possa esistere o meno una proposizione del genere, e se la mente umana possa essere assimilata a un sistema formale particolarmente sofisticato; oppure di fronte al paradosso la mente si comporta sempre come afferma Wittgenstein a proposito del paradosso del mentitore, che afferma “Sto mentendo”:

Se un uomo dice “Mento”, se ne deduce che non sta mentendo, e da questo segue a sua volta che sta mentendo, e così via. Bene, e con questo? Si può andare avanti fino a esaurire il fiato. Perché no? Non ha nessuna importanza.[9]

È come se la mente riuscisse sempre a mantenere una distanza da qualsiasi ragionamento, per quanto paradossale esso sia; è come se riuscisse sempre a porsi a un metalivello del discorso, anche rispetto alle affermazioni paradossali, in modo da osservare sempre la contraddizione e mai ritrovarsi incastrata all’interno di essa.

Forse, però, la rappresentazione più suggestiva di cosa accade quando livello e metalivello coincidono è data dall’opera di Escher “Print gallery”[10] (v. figura 2), nella quale c’è un uomo che osserva un quadro all’interno di una galleria d’arte; questo quadro raffigura una città, e seguendo lo sviluppo delle case ci si accorge che la stessa galleria d’arte è parte della rappresentazione dello stesso quadro.

Figura 2: Escher M.C., Print gallery (da M.C. Escher – Grafica e disegni, Benedikt Taschen Verlag, Köln 1992)

Il livello del quadro osservato dal visitatore dell’esposizione e il metalivello dello stesso osservatore sono fusi insieme senza soluzione di continuità; livello e metalivello coincidono. E se proviamo a cercare la linea di confine che separa il quadro dall’oggetto illustrato, la linea che divide la rappresentazione dalla realtà, ci avviciniamo al punto inevitabilemente ambiguo che si trova al centro del quadro e verso il quale tutte le linee convergono e sfumano in uno spazio bianco.

Proprio questo spazio di sconosciutezza può simbolizzare la proposizione di Gödel, che rappresenta un punto di indecidibilità all’interno di un sistema formale che ha la capacità di riferirsi a se stesso; o può anche rappresentare il momento di stupita perplessità che emerge quando cerchiamo di comprendere cosa stiamo effettivamente dicendo quando affermiamo: “Sto mentendo”.

 

Note:

[1] In genere viene chiamato paradosso (da parà, contro, e dòxa, opinione) un ragionamento che contrasta con il senso comune, e antinomia (da antì, contro, e nòmos, norma, legge) una conclusione contraddittoria, cioè del tipo “A e non-A”.

[2] Bisogna aspettare i moderni sviluppi della matematica per accorgersi che la somma di infiniti termini può essere finita e che quindi la conclusione di Zenone non è una necessità logica; si può dimostrare, per esempio, che la somma della serie infinita degli inversi delle potenze di 2, 1/2+1/4+1/8+1/16+… è uguale a 1.

[3] La versione originale dell’antinomia non riguarda né i barbieri né i cataloghi, ma gli insiemi. Russell divide tutti gli insiemi in due classi: quelli che non contengono se stessi (come l’insieme delle automobili, degli alberi, delle stelle, ecc.; poiché un insieme non è un’automobile, né un albero, né una stella) e quella degli insiemi che contengono se stessi (come l’insieme delle idee, dei pensieri, degli oggetti matematici, ecc.; infatti un insieme può essere considerato un’idea, un pensiero o un oggetto matematico). Se R è l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi, l’insieme R appartiene o non appartiene a se stesso? Se R appartenesse a se stesso, allora non dovrebbe appartenere a se stesso poiché i suoi elementi sono gli insiemi che non appartengono a se stessi. Ma d’altra parte se R non appartenesse a se stesso, allora per lo stesso motivo dovrebbe appartenere a se stesso. In ogni caso si arriva a una contraddizione.

[4] Per un’analisi più approfondita dell’antinomia di Richard e delle sue conseguenze si può vedere http://en.wikipedia.org/wiki/Richard%27s_paradox (in inglese).

[5] Più precisamente un sistema formale è completo se data una qualsiasi proposizione A che può essere espressa all’interno di esso, il sistema formale può dimostrare o A o la sua opposta non-A. Qui stiamo supponendo che il sistema formale sia sufficientemente potente da generare l’aritmetica, e che le proposizioni dimostrabili nel sistema formale siano vere rispetto al modello standard dei numeri naturali.

[6] Si veda Hofstadter D.R., Gödel, Escher, Bach, Adelphi, Milano 1990, p. 82 e seguenti.

[7] Hofstadter D.R. e Dennett D.C., L’io della mente, Adelphi, Milano 1992, p. 273.

[8] Cherniak C., L’enigma dell’universo e la sua soluzione, in Hofstadter D.R. e Dennett D.C., op. cit., p. 264.

[9] Diamond C. (a cura di), Wittgenstein’s Lectures on the Foundations of Mathematics. Cambridge 1939, University of Chicago Press, 1989, p. 214; edizione italiana: Lezioni di Wittgenstein sui fondamenti della matematica. Cambridge 1939, Bollati Boringhieri, Torino 1982.

[10] Il titolo Print gallery si può tradurre con esposizione di stampe; esso evidentemente si riferisce all’esposizione che si osserva nel disegno, tuttavia potrebbe alludere anche allo stesso disegno di Escher e all’osservatore che lo guarda (magari in una esposizione di quadri dello stesso Escher). In questo modo è come se Escher volesse esprimere il concetto che la continuità fra realtà e rappresentazione non riguarda solo l’interno del suo disegno, ma anche il mondo di chi lo sta osservando.