Ne abbiamo avuto l’esperienza ma ci è sfuggito il significato
E avvicinarci al significato ci restituisce l’esperienza
In una forma differente, al di là di ogni significato.

(T.E. Eliott, da Quattro Quartetti)

 

Phi.mind 12. Dove si chiarisce in modo esplicito la posizione dell’autore: la coscienza non è i suoi qualia. Debolezza dell’argomento della irriducibilità dei qualia.

Bisogna riconoscere i molti meriti della variegata pattuglia dei filosofi anti-riduzionisti che abbiamo analizzato: affermano in campo scientifico che la coscienza è un fatto reale e meritevole di indagine di per sé, e che non sono possibili facili scorciatoie riduzioniste. Con loro la Filosofia della Mente di scuola analitica torna più vicina alla esperienza vissuta, evitando che l’uomo si disincarni del tutto in un algoritmo di informazioni o che si riduca al veicolo di trasporto del suo cervello.

Ma i filosofi anti-riduzionisti presentano un intendimento specifico di cosa sia coscienza: senza voler appiattire i diversi autori in una visione unitaria, nel loro modo di procedere e nel loro insistere nell’argomentare l’irriducibilità delle sensazioni qualitative (qualia) vi è il rischio di indurre a identificare la coscienza con i suoi qualia.

Qui sotto, rappresentazione schematica del quale di un fischio: dalla fonte al quale.

Questo è un sottile fraintendimento: i qualia  non sono la coscienza, ma una sensazione qualitativa di cui la coscienza si accorge, un ‘sentire qualcosa’: freddo, rosso, dolce, visioni bizzarre, emozioni di benessere o di sofferenza. I qualia sono oggetti mentali di natura qualitativa, ‘cose’ nel campo della coscienza, dotate di una assoluta particolarità rispetto a tanti altri oggetti come una cellula o  un pensiero logico: non sembra possibile accedervi se non in prima persona, né ridurli a componenti più semplici. E da qui nasce il particolare fascino dei qualia, che ne fa oggetti misteriosi – in effetti lo sono – e li identifica con l’altro oggetto misterioso, la coscienza. Ma la coscienza non è un oggetto mentale sentito, bensì ciò che rende possibile il ‘sentire qualcosa’ della mente fenomenica; è la immutabile capacità di ‘sentire’ – non sentita -che si riempie di contenuti cangianti, blu o rossi, sgradevoli o gradevoli. E la capacità di saperlo.

Il fatto che ogni atto di coscienza sia accompagnato da un contenuto fenomenico, e che senza contenuto fenomenico non ci sia coscienza, non deve portare a identificare i due termini. Se l’errore delle neuroscienze contro cui lottano i filosofi anti-riduzionisti è quello di scambiare per identità la semplice co-occorrenza di stati neurali e qualia (ma in fondo si tratta sempre di oggetti, fisici i primi, mentali i secondi), l’errore che a loro volta tendono a fare è quello di scambiare per identità la co-occorrenza tra qualia e il fatto di sentirli, di esserne coscienti. La differenza è fondamentale, proprio perché è la differenza tra oggetto e non-oggetto.

Qui si mostra la debolezza dell’argomento dei qualia: si afferma la non-riducibilità dei qualia e se ne ipotizza una natura ‘altra’, ‘in più’, ma non si può escludere di poter un giorno riportarli alla loro base cerebrale come causa necessaria e sufficiente. In questo senso il problema difficile dei qualia è solo ‘difficile’, non ‘impossibile’. Qualia è solo il nome di fenomeni che ancora sfuggono, non un limite intrinseco alla conoscenza scientifica. Sono oggetti, anche se molto particolari. Come la più inafferrabile particella subatomica, potrebbe essere solo questione di tempo e finanziamenti, e alla fine potremo svelarli (e in effetti alla fine il Bosone di Higgs è stato trovato, al CERN di Ginevra nel 2012, dopo quarantotto anni da quando è stato ipotizzato in via teorica).

Anche se molto sofisticati, i qualia e la mente fenomenica sono ancora oggettivazioni e qualificazioni di ciò che è davvero intrinsecamente irriducibile: l’indeterminato ed immediato star-sentendo attuale, la totalità della esperienza cosciente che si dà in ogni sensazione e che accoglie i qualia. È un quasi-fenomeno in quanto si mostra solo in parte, mentre in parte sempre differisce da ogni mostrarsi.

Questo star-sentendo è irriducibile in via di principio, per un motivo tanto semplice quanto abissale: se anche lo spiegassimo, nell’atto di  spiegarlo saremo immersi in una situazione attuale e irriducibile, in cui aderiamo completamente al nostro capire (ad esempio con frustrazione, o interesse, o senso di coinvolgimento). Noi sempre ci apriamo come sentire-in-atto, anche su tutte le teorie sul sentire: ne va di noi, e quel passo non è riducibile ad oggetto senza che resti una posizione a monte aperta, un originario star-sentendo. In esso risiede anche la forza pragmatica di ogni atto, il fatto che mentre si accende (anche se è in forma di domanda o dubbio) ne siamo assolutamente convinti. Non possiamo mai rappresentare il sentire attuale in un oggetto perché esso smetterebbe subito di abitare il simulacro che lo rappresenta e si aprirebbe su di esso con tutta la forza della sua evidenza (senza per questo affermarsi come un soggetto ideale a monte, anche questo sarebbe un simulacro…).

L’argomento che è nato nella scuola filosofica di Asia[1] e che a me appare decisivo per mostrare la non-riducibiltà della coscienza non sono  quindi i qualia (le sensazioni)  che si possono ancora interpretare come materia o spirito, ma ciò che non è interpretabile perché ogni interpretazione richiede che sia già in atto.  Neppure – apriamo un inciso fondamentale – si può mostrare la non-riducibilitò della coscienza appellandosi ad un misterioso ‘soggetto’ (che abbia natura informazionale o spirituale è lo stesso) perché, esaminando l’esperienza del sentire in atto secondo le vie della meditazione e della fenomenologia esistenziale, non si coglie alcun soggetto-coscienza nucleare. Pur nella evidenza, istante per istante, della nostra esistenza[2].

I filosofi anti-riduzionisti – a fianco dei loro indubbi meriti –  rischiano di fissare la coscienza in ‘qualcosa’, di sottile ma ancora afferrabile: i qualia. In questo modo però la soggettività rischia di coincidere con le sensazioni, che ci affascinano assai come dimostra la nostra continua ricerca di stimoli, di sapori e di suggestioni percettive: forse anche perché di fatto riducendo il sentire al sentito (sensazione) lo poniamo a distanza di sicurezza e lo neutralizziamo. Nella vita come in filosofia.

Per quale motivo questo accade? E quanto è importante saper distinguere tra sentire e sensazione?

Per non rispondere a queste domande in modo speculativo, il nostro percorso ha qui una virata verso sviluppi più recenti della filosofia della mente e degli studi sulla coscienza: negli ultimi anni molti studiosi sono ripartiti dall’esperienza in prima persona, e propongono un approccio più pragmatico e metodologico: parleremo di studi sugli stati meditativi, di neurofenomenologia, di addestramento all’attenzione, di felt meaning.

Riferimenti bibliografici

[1] Bertossa F., Ferrari R., (2005), Lo sguardo senza occhio. Esperimenti sulla mente cosciente tra scienza e meditazione, Alboversorio, Milano.

[2] Franco Bertossa (2011) La meditazione, alle origini del domandare/8. Il mostrarsi del mondo. Dal soggetto alla Differenza ontologica e alla Vacuità.

 

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