Un piccolo contributo per una futura “filosofia del patire”

Da decenni promuovo un molto difficile confronto tra filosofia europea e quella indiana. Alcuni sostengono che quella indiana non sia filosofia.
Severino dice che non lo è perché gli Indiani non hanno mai pensato il vero nulla, il nihil negativum.
In parte ha ragione, ma la cosa va considerata anche secondo un’altra prospettiva.
Gli Indiani hanno indagato il mistero dell’esistenza secondo una prospettiva totalmente differente rispetto alla filosofia che è via via andata affermandosi in Europa.
È mia opinione che la filosofia che noi frequentiamo non venga da noi insegnata e vissuta come la vivevano i Greci del periodo classico e poi di quello ellenistico.
La filosofia dei Greci era una via di conoscenza in cui ne andava di chi filosofava.
Caso estremo: Diogene.
Ma, a parte Diogene, sappiamo che le intuizioni a cui pervenivano si riflettevano in generale sulla vita dei filosofi. Parmenide, Socrate, Platone – solo per nominare tre giganti.

Così sappiamo come i filosofi ellenistici fossero impegnati con la verità e come alcuni abbiano vissuto l’impatto col cristianesimo come una vera e propria sfida sulla verità e sul bene.

Al di là dell’impatto col Cristianesimo, pensiamo alla filosofia di un Plotino, e come questi vivesse le sue intuizioni al limite del mistico.
Morì di lebbra e quando era malato, i suoi amici evitavano di andarlo a trovare perché era ebbro di gioia vedendo finalmente vicino il momento in cui sarebbe tornato a fondersi nell’Uno – solo che cercava di esprimere tale gioia provando ad abbracciare chi lo andava a trovare..
Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e dopo la radicalizzazione nel cristianesimo di quello d’Oriente (chiusura dell’Accademia Platonica, scuola millenaria), in Europa cadde il buio e a Costantinopoli, in Medio Oriente e in Nordafrica gli aspetti mistici del neoplatonismo si riversano, dandogli un impronta determinate, nella mistica cristiana.

Gaetano Gandolfi : Alessandro e Diogene, 1792

Gaetano Gandolfi : Alessandro e Diogene, 1792

Nel IX secolo in Europa accadde un fatto importante.
La sapienza si era oramai rifugiata, in termini di libri ivi custoditi e curati, nei monasteri benedettini.
Per secoli fu buio.
Poi Carlo Magno ebbe la molto meritoria disposizione di favorire il rilancio della cultura.
Ne nacque la Schola Palatina ad Aquisgrana dove i sapienti vennero chiamato ad insegnare.
Lì si spostò quel baricentro del sapere anche laico che prima gravitava su Alessandria, Damasco, Rodi, Pergamo, Antiochia..

La filosofia che noi frequentiamo e della quale serbiamo l’atteggiamento, nasce in nordeuropea, ad Aquisgrana, e là assunse atteggiamenti verso il sapere essenzialmente diversi da quelli dei Greci.
È la filosofia nata dal confronto tra barbari del nord Europa (convertiti al cristianesimo) e l’eredità greca.
Detta in breve e brutalmente, furono gli uomini dei boschi e delle capanne a cimentarsi con la Filosofia attraverso i testi conservati nei monasteri e grazie ai favori dell’imperatore.

Se penso ad un alessandrino o ad un damasceno cimentarsi con Platone, non posso non pensare che egli aveva alle spalle secoli e secoli di cultura, mentre gli uomini del nordeuropea erano, a tutti gli effetti, barbari.
Ne è sortita una filosofia ingenua, astratta, la quale non poggiava sul non scritto, un non scritto a cui Platone stesso accennò e che veniva assorbito dal mero vivere in quella cultura.
Viene un po’ da pensare al modo in cui oggi gli americani (ma anche i britannici) si avvicinano alla filosofia. Non riesco a non considerarli ingenui, anche quando sono molto eruditi.
È una questione di retroterra.

È un po’ come per gli Italiani relativamente al bello: noi veniamo educati al gusto dagli stessi muri dove viviamo e lavoriamo – muri che possono avere tranquillamente mille anni, ma anche duemila.
Non è certo lo stesso che essere cresciuti in aree dove non v’è nulla di antico e dove il “vecchio” viene regolarmente abbattuto per far posto al nuovo, moderno ed efficiente.
Tornando alla questione iniziale: gli Indiani, fin dai primordi, hanno vissuto la ricerca della verità in una prospettiva nella quale ne andava di chi ricercava.

Ciò perché i capisaldi, la base condivisa di tutti, erano il Karma e la reincarnazione.
Dunque la verità, o la mancanza di essa, condizionava le successive vite, potendo sia aggravare la sofferenza future sia liberare dall’ignoranza e con ciò portare alla piena felicità.
Secondo questa prospettiva, il niente prese la forma dell’esperienza del niente, non del concetto di niente.

Nel Buddhismo, dove il nulla patito è più evidente, troviamo:

Dukkha – mancanza di agio
A-vidya – mancanza di sapienza
A-nitya – mancanza di perduranza
An-atman – mancanza di sé-ità
Shunyata – vacuità – mancanza di intrinsecità di essenza.

Evidentemente qui il nulla è patito esperienzialmente.
A ciò si è avvicinato Heidegger con la Angst e i gradi dell’esperienza del nulla.
Gli Indiani hanno dunque proceduto diversamente:
Non categorialmente alla maniera dei Greci, – tò mé òn, IL non essente, IL nulla (l’uso dell’articolo favorisce la formazione di concetti relativi all’astratto – il sanscrito, come il latino, invece non ha l’articolo) – ma per analisi dell’esperienza patita nella carne.
Credo che questo aspetto sia da recuperare e che l’India – il Buddhismo in primis – sia interlocutore privilegiato.

Ecco, solo un piccolo contributo per una futura “filosofia del patire” dove Occidente ed Oriente possano dialogare con fecondi contributi reciproci.