“Abbiamo un corpo che funziona a un ritmo molto lento.
A fronte di ciò la mente, a causa degli automatismi, si è notevolmente accelerata.
Il pensiero veloce ci trasporta, non seguiamo più i ritmi del corpo.
Questa accelerazione si è trasformata in meccanismo di dispersione, nel contrario della coscienza: la superficialità.
Evidentemente la soluzione al problema dell’uomo sulla terra oggi è molto più nella trasformazione dell’individuo che nella trasformazione della società, perché qualsiasi cosa si faccia ora non si riesce a organizzare ciò che esiste.
Ciò che è straordinario è che la pratica dello Yoga corrisponde esattamente a quello che tento di spiegarvi.”
Gérard Blitz

Il problema di cui parla Blitz, geniale maestro di yoga contemporaneo, riguarda noi adulti e, per fortuna, non ancora il neonato.
Egli ha ancora mente e corpo unificati, i ritmi lenti del corpo trovano ancora corrispondenza in quelli della mente.
Chi ha frequentato un neonato ha senza dubbio visto i suoi lunghi sguardi, occhi spalancati sul mondo in una contemplazione senza traccia di psiche.
E’ pura apertura sull’esistenza attraverso un corpo e una mente ancora in armonia.
Che succede poi?
Succede che il bambino incontra gli adulti, menti accelerate che non vedono l’ora di “educarlo” di farlo “socializzare” insomma non vedono l’ora che diventi come loro.
Così com’è, presente e silenzioso, il neonato mette in imbarazzo; ci tiene sospesi, chiede un silenzio, una lentezza di cui non siamo più capaci. Non sappiamo più essere come lui ma non sopportiamo di dircelo. Non sopportiamo neppure che lui ce lo ricordi col suo modo d’essere. Che ci ricordi che stiamo correndo da mattina a sera senza sapere perchè. Dove stiamo andando?
Qual è il senso di ciò che stiamo facendo?

Come dice il Maestro Franco Bertossa: moriremo senza sapere di essere stati vivi.
Dentro di noi qualcosa sa già tutto ciò e il bambino risveglia in noi questa sapienza assopita.
Stiamo usando, consumando la vita che si accorcia secondo dopo secondo, cercando di riempirla di sensazioni, di progetti, di cose da fare. Non sappiamo più stare un minuto fermi in silenzio con noi stessi, a sentirci vivere. Il neonato ci mostra invece che è possibile, che un tempo anche noi eravamo così e adesso non sappiamo più esserlo.
Davanti all’impossibilità di sopportare questa sconfitta la nostra reazione solitamente è quella di “educare” il bambino a diventare come noi, distogliendolo sempre più spesso da questi momenti di contemplazione per fornirgli stimoli che lo renderanno pian piano sempre più un nostro simile.
Il neonato ha sicuramente molte cose da imparare ma altrettante ne abbiamo noi da lui.
Possiamo provare, in quei momenti magici in cui il piccolo guarda stupito intorno a sé a fare per un po’anche noi la stessa cosa: sdraiamoci, prendiamo una posizione comoda che il corpo non faccia fatica a mantenere per alcuni minuti, senza ulteriori movimenti.
Lo Yoga ci insegna che l’immobilità del corpo permette di ridurre l’agitazione della mente.
Proviamo poi lentamente a spostare lo sguardo su ciò che ci circonda proprio come fa il bambino, con la stessa lentezza. Lui non conosce i nomi delle cose che incontra e non sa a cosa servono. Incontrando un oggetto, mettiamo tra parentesi ciò che, negli anni, abbiamo imparato di quell’oggetto: cosa resta? Cosa incontriamo? Mettiamo tra parentesi anche la parola oggetto e tutte le altre che ci verranno in mente, per il bambino non hanno alcun significato, così anche per noi ora. Che succede? Non c’è più nulla? Oppure, al contrario, ci troviamo circondati improvvisamente da presenze che risaltano in modo particolare, come le vedessimo per la prima volta? Continuiamo a mettere tra parentesi il conosciuto, anche il nostro stesso guardare finché esso stesso risalta, nuovo, inaspettato, fonte di meraviglia, strano. Cos’è tutto ciò? Perché tutto ciò, compreso io che me lo sto chiedendo?
Può darsi che, a questo punto, spostando l’attenzione sui nostri occhi, ci succeda di sentirli sbarrati, pieni di meraviglia. Non stanno per caso somigliando a quelli del bambino?
Stupore, sospensione, fascino… forse è questo che lui sente e adesso possiamo comprenderlo. Anche noi siamo ammutoliti, rapiti dal senso di stranezza che attraversa tutto, noi compresi.
Cosa proveremmo se qualcuno adesso ci distraesse?
Non ci sentiremmo strappati brutalmente da un momento denso di significato?

Non ci sentiremmo privati di una possibilità rara per dirci qualcosa che non ci siamo mai detti su noi stessi e ciò che ci circonda?
Eppure è questo che regolarmente accade al bambino. E’ assorto e qualcuno lo costringe a dargli attenzione, deve imparare a sorridere, a riconoscere, a usare.
Se ci sarà dato di sentire quel che lui sente, allora forse, in quei momenti magici nei quali il neonato solo contempla, ci succederà di provare commozione, rispetto. Resteremo anche noi in silenzio, chiederemo silenzio agli altri, cercheremo di capire lui, senza fretta che lui capisca noi.
Lasceremo che ci insegni a vedere l’esistenza non come un problema da risolvere ma come un Mistero da contemplare.
Se da questa contemplazione scaturiranno anche domande, se sarà l’inizio di un’indagine che l’adulto intraprenderà su di sé, allora forse avrà anche lui un giorno qualcosa da insegnare al figlio perché la sola sensazione non basta.
Crescere significa riuscire ad esprimere sempre più precisamente ciò che profondamente si sente.
Un giorno il bambino avrà bisogno di essere aiutato a trovare le parole che diano il giusto significato al suo sentire, senza confondere l’incapacitazione con la ribellione, per esempio.
Saremo in grado di farlo?