Un bambino che nasce suscita un’intensità che è vissuta in modo molto diverso da chi è stato presente all’evento rispetto a chi ne è successivamente informato. Fare l’esperienza di assistere ad una nascita e ricevere l’informazione che un bambino è nato non sono la stessa cosa.
Nel primo caso si ha una totale immersione nel mistero, nello sconcerto, nel più grande, nell’indicibile, nel sacro.
Il paragone può disturbare ma, avendo vissuto entrambe le esperienze, so che anche assistere ad una morte produce gli stessi sapori.
Solitamente le persone non se lo sanno dire perché non si è stati educati a cogliere questo nel parto, come del resto neppure nella morte di una persona cara. E’ più facile prendere la via del riso o del pianto, sono percorsi di sfogo più umani, che non chiedono di essere indagati.

Da anni ho la fortuna di praticare meditazione col Maestro Franco Bertossa che mi ha insegnato il valore di cogliere nelle sensazioni che vivo il loro significato. Quando le sensazioni, anche le più intense, inevitabilmente passano, averne colto o no il significato fa la differenza.
E’ questo l’insegnamento prezioso che ho ricevuto e che ora tento a mia volta di trasmettere durante i corsi di yoga prenatale. Mi accorgo però che, anche quando la donna è educata alla ricerca dei significati, trova poi difficile portare avanti quest’indagine a causa dei numerosi ostacoli che definirei “culturali”.

Chi partorisce in ospedale, ancora la maggioranza purtroppo, non trova un ambiente che rispetti il proprio bisogno di raccoglimento, d’ascolto. Nella nostra cultura nessuno si pone il problema di come non disturbare un evento naturale ma piuttosto ci si preoccupa di come “migliorarlo”, accelerarlo, tutto al fine di controllarlo. La via del controllo è lo sfogo privilegiato della nostra mente occidentale per eludere il senso di mistero, di sconosciutezza che una nascita produce. Non dobbiamo dimenticare che anche gli operatori “respirano” l’atmosfera del parto, anche se per loro è un lavoro non ne escono indenni, sono costretti a sentire senza però essere educati al valore di ciò che sentono.
Per quattro anni ho tenuto corsi di yoga per operatori nel campo della nascita i quali restavano stupiti quando tentavo di farli soffermare sulle sensazioni dalle quali facevano di tutto per fuggire. Monitorizzare, somministrare ossitocina, consigliare alla donna l’anestesia epidurale, rompere le membrane, guidare le “spinte”, praticare l’episiotomia, tagliare o pinzare frettolosamente il cordone ombelicale, sono tutte opportunità per fuggire dal mistero illudendosi di poter controllare qualcosa. Certamente non vengono usate solo per questo, a volte sono pratiche necessarie, ma, per usare le parole dell’Organizzione Mondiale della Sanità nel documento “Tecnologia appropriata per la nascita” del maggio 1985 , non c’è giustificazione per delle percentuali di intervento così alte.

L’antropologa tedesca Brigitte Jordan, nel suo libro “La nascita fra quattro culture” scrive:
…In parte, la fretta di agire è dovuta al puro e semplice disagio sociale di un gruppo di persone che si aggirano in scomoda attesa, senza avere niente da fare o da dire. Dopo che la donna è stata preparata per il parto, preparato i vassoi con gli strumenti sterili, non c’è altro da fare che aspettare…
…Il silenzio diventa presto penoso e tutti si sentono sollevati quando si prende la decisione di iniettare una dose di ossitocina alla donna.
E’ interessante notare che non è tanto la velocità di intervento quanto il desiderio di attività a motivare queste decisioni. Finchè tutti fanno ciò che sono preparati a fare, le situazioni di disagio non si creano. Un’espisiotomia (incisione per allargare l’apertura vaginale) ad esempio, fa nascere il bambino qualche minuto prima, anche se il chirurgo in seguito può impiegare mezz’ora o più per ricucire il taglio: in questo modo non c’è nessun risparmio di tempo. Il vantaggio interattivo è che quella mezz’ora viene impiegata nell’attività prevista per il gruppo della sala parto anziché in un silenzio passivo e imbarazzante…

E non è finita qui: dopo aver visto faccia a faccia il mistero, la donna, il bambino, il padre se ha assistito alla nascita, hanno bisogno di silenzio, di raccoglimento e cosa trovano invece? Una folla di amici e parenti che hanno ricevuto l’informazione ma non fatto l’esperienza della nascita e che sono completamente in un altro stato, oserei dire che sono in un altro mondo, quello dove si fa finta che sia tutto scontato, prevedibile, controllabile e dove l’emozione dell’arrivo di un bambino che ancora non si conosce, che è ancora misterioso, va subito sedata. Il bambino perciò va assolutamente va incontrato, conosciuto, umanizzato, reso innocuo. Già poche ore dopo il parto la stanza dell’ospedale è invasa da numerose persone, tutte apparentemente lì per festeggiare, ma tutte in realtà a rassicurarsi che niente rimanga fuori del loro controllo.

Vorrei con quest’articolo lanciare un appello affinché oltre che di sacralità del parto si cominciasse a parlare anche di sacralità del dopo parto e ad averne rispetto.
E’ fondamentale che, nei primi giorni dopo l’arrivo del bambino, il piccolo e i suoi genitori abbiano l’opportunità di restare tranquilli, raccolti. A questo scopo è importante che amici e parenti si mobilitino, non per visite inutili, ma piuttosto per provvedere alle necessità pratiche della nuova famiglia affinché non abbia altro a cui pensare se non stare nel mistero che la presenza del bambino costantemente evoca. Il senso del più grande che la nascita come la morte suscitano, un tempo trovava una posizione nella fede, nella religione. Oggi solo pochi sono sostenuti da tali valori, ma il “di più” misterioso continua a farsi sentire, e resta quindi minaccioso. Questo sentimento, al di fuori di un ambito religioso, non trova una collocazione, ma non per questo cessa, anzi, ancora di più si evidenzia perché apparentemente ingiustificato.

E’ possibile allora che diventi per noi valore il bisogno di capire il significato di quel senso del “di più” che indubitabilmente rimane?
Riusciamo a cogliere che ciò richiede di stare con una sensazione sconosciuta, sforzandosi di non percorrere le vie abituali che sono la distrazione o un significato inventato frettolosamente? Possiamo imparare a rispettare chi si trova immerso in tale intensità e ha necessità di tempo e di silenzio per affrontare una ricerca che lo porti ad incontrare una verità indubitabile?
Possiamo impegnarci non solo a non disturbare tale ricerca, ma a creare noi stessi le condizioni affinché possa avvenire senza distrazioni, alleggerendo il più possibile chi la sta facendo da altri problemi come la gestione della casa, il lavoro e così via? Nel corso della vita ci sono dati alcuni “momenti magici”, occasioni speciali durante le quali il velo della scontatezza si rompe e l’esistenza, per qualche secondo, appare nel suo mistero.
Tutto improvvisamente sembra fermarsi, rimaniamo muti davanti al conosciuto – la vita – che improvvisamente diventa sconosciuto. Premono domande: cos’è vita? Cosa nasce? Cosa muore?
Sono domande che chiedono di essere contemplate, ci riguardano; in quei momenti magici non c’è fretta di rispondersi, il mistero chiama col suo tremendo fascino, chiede silenzio e tempo da dedicargli.

La pediatra Iris Paciotti, nel suo libro “L’amore creativo” definisce questi momenti magici come “attimi in cui si avverte la presenza di sé con se stessi…Rimaniamo soli e nudi così come siamo, nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore. Ma siamo noi. Felici o impauriti, sorpresi o tristi, ma essenzialmente siamo. E’ in quei momenti che alcuni possono sentire improvvisamente la vacuità della loro vita oppure la bellezza di esistere e di essere parte del Tutto. Dipende da come hanno speso la loro vita. In quegli attimi siamo esseri svegli, presenti, veri. In quegli attimi qualcuno trova la forza di guardarsi dentro, di tirare le somme del proprio modo di vivere. Sono attimi di luce.
E’ chiaro che più veloce diviene la corsa umana, più rare sono le possibilità per l’uomo della strada di vivere dei “momenti magici”. La massa non li vive quasi mai. E’ una massa che fa pensare alla lava vulcanica che una volta solidificata è pressoché inamovibile. Eppure quei momenti sono il nettare della vita. L’unica vera voce che dovremmo ascoltare. Quei momenti potrebbero rappresentare, se fossimo più attenti, un valido stimolo a comprendere qualcosa di noi e della vita che ci circonda.”
Non sappiamo quanti momenti magici spettano a una persona in questa vita, ma sicuramente ci sono esperienze, come assistere a una nascita o a una morte, dove è possibile che queste aperture si diano.
Distrarsi, disturbare qualcuno che li sta vivendo o che n’è appena uscito, è un’occasione mancata, magari l’unica a disposizione.